- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 628)
1. Il fatto
La Corte di Appello di Roma confermava una sentenza con la quale il Tribunale di Roma, in esito a giudizio abbreviato, aveva condannato gli imputati alla pena ritenuta di giustizia.
In particolare, entrambi gli imputati erano condannati per il reato di cui agli artt. 110 e 628, primo comma, cod. pen., mentre, se per solo uno di essi, era accertato a suo carico il reato di cui all’art. 61, n. 2), cod. pen. e all’art. 23 della legge 18 aprile 1975, n. 110, l’altro era ritenuto a sua volta colpevole del reato di cui all’art. 648 cod. pen..
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Ambedue gli imputati proponevano ricorso per Cassazione.
Nel dettaglio, uno di essi deduceva i seguenti motivi: I) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., contraddittorietà e illogicità della sentenza impugnata con riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche; II) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., violazione di legge e illogicità della motivazione con riguardo all’affermata responsabilità per il reato di cui all’art. 23 della legge n. 110 del 1975.
Ciò posto, l’altro imputato, dal canto suo, per il tramite del suo difensore, deduceva i seguenti motivi: 1) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., violazione ed erronea applicazione degli artt. 56 e 628 cod. pen., con riguardo alla ritenuta consumazione del delitto di rapina; 2) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., mancanza della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta consumazione della rapina; 3) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riguardo al mancato inquadramento del reato di ricettazione del ciclomotore nell’ipotesi di particolare tenuità di cui al secondo comma dell’art. 648 cod. pen.; 4) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione dell’art. 62, n. 4), cod. pen. per avere la Corte di Appello di Roma negato il riconoscimento dell’attenuante prevista da quest’ultimo articolo; 5) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., illogicità della motivazione della sentenza impugnata sempre con riguardo al diniego della concessione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4), cod. pen.; 6) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., e in riferimento agli artt. 69 e 62-bis cod. pen., mancanza della motivazione; 7) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., e in riferimento agli artt. 192 e 133 «c.p.p.», mancanza della motivazione della sentenza impugnata relativamente ai criteri utilizzati per la determinazione della pena base per il delitto di rapina.
3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Quanto al primo ricorso summenzionato, il primo motivo era ritenuto inammissibile atteso che, a fronte del fatto che, da un lato, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017), dall’altro, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010), tenuto conto altresì del fatto che, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011), ad avviso del Supremo Consesso, la Corte territoriale aveva addotto nel caso di specie una motivazione pienamente adeguata e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in sede di legittimità.
Detto questo, anche il secondo motivo seguiva una medesima sorte processuale dato che, se la motivazione della funzionalità dell’arma — e, quindi, dell’idoneità della stessa all’offesa alla persona — frutto della valutazione critica degli elementi acquisiti agli atti, appariva essere, per la Corte di legittimità, palesemente non illogica e, come tale, non censurabile in sede di legittimità, quanto, poi, alla dedotta violazione di legge, era ribadito il principio di diritto, applicato dalla sentenza impugnata e costantemente affermato dalla Corte di Cassazione, secondo cui è arma clandestina, la cui detenzione integra il reato previsto dall’art. 23 della legge n. 110 del 1975, anche una pistola a salve, in quanto tale priva di matricola, artigianalmente trasformata in arma da sparo, dovendo essere disattesa la tesi secondo cui il predetto reato sarebbe configurabile solo per le armi catalogate, oggetto di successiva alterazione dei segni distintivi (Sez. 1, n. 28814 del 22/02/2019; Sez. 1, n. 25470 del 31/01/2017; Sez. 1, n. 18137 del 07/03/2014; Sez. 3, n. 9286 del 10/02/2011).
Terminata la disamina di questo ricorso, venendo a trattare l’altro, il primo e il secondo motivo – i quali, per la loro stretta connessione, erano reputati esaminabili congiuntamente – venivano stimati inammissibili perché manifestamente infondati, rilevandosi al contempo che, in proposito, trovava applicazione il principio di diritto, (stimato) correttamente richiamato dalla Corte di Appello di Roma secondo cui il reato di rapina si consuma nel momento in cui la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente, anche se per breve tempo e nello stesso luogo in cui si è verificata la sottrazione, e pur se, subito dopo il breve impossessamento, il soggetto agente sia costretto ad abbandonare la cosa sottratta per l’intervento dell’avente diritto o della forza pubblica (Sez. 2, n. 14305 del 14/03/2017; Sez. 2, n. 5512 del 2/10/2013; Sez. 2, n. 35006 del 09/06/2010), fermo restando che, tra l’altro, la Corte di Cassazione ha altresì affermato che integra il momento consumativo del delitto di rapina propria anche un possesso temporaneo perché esso si perfeziona non appena l’agente si impossessi, con violenza o minaccia, della cosa sottratta, ovverossia allorquando quest’ultima passi nella esclusiva detenzione e nella materiale disponibilità del predetto, con conseguente privazione, per la vittima, del relativo potere di dominio o di vigilanza (Sez. 1, n. 8073 del 11/02/2010; Sez. 4, n. 20031 del 06/02/2003), con la conseguenza che anche un possesso temporaneo della cosa vale a integrare il momento consumativo, in quanto anche in tal caso le possibilità di recupero della refurtiva potrebbero avvenire solo con il ricorso da parte del rapinato alla violenza o ad altra decisa pressione sull’agente e, quindi, mediante una reazione di segno opposto all’azione delittuosa pienamente realizzatasi (Sez. 4, n. 20031 del 06/02/2003).
Oltre a ciò, era oltre tutto fatto presente che costituisce un principio della giurisprudenza di legittimità anche quello secondo cui integra il reato di rapina, e non quello di tentata rapina, la condotta di chi si impossessa della refurtiva, acquisendone l’autonoma disponibilità, pur se l’impossessamento sia avvenuto sotto il controllo, anche costante, delle forze dell’ordine, laddove queste siano intervenute solo dopo la sottrazione, in quanto il delitto previsto dall’art. 628 cod. pen. si consuma nel momento e nel luogo in cui si verificano l’ingiusto profitto e l’altrui danno patrimoniale, a nulla rilevando, invece, la mera temporaneità del possesso conseguito (Sez. 2, n. 7500 del 26/01/2017; Sez. 2, n. 5663 del 20/11/2012).
Orbene, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, per gli Ermellini, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente nel secondo motivo, la Corte di Appello di Roma aveva indicato compiutamente gli elementi di fatto in base ai quali ha ritenuto che gli imputati si fossero impossessati delle somme di denaro rapinate, privando la persona offesa del potere di dominio e di vigilanza su di esse.
Terminata la disamina di questa (seconda) doglianza, anche il terzo motivo era stimato inammissibile dal momento che, ai fini della configurabilità dell’ipotesi attenuata della particolare tenuità del fatto prevista dal secondo comma dell’art. 648 cod. pen., non ci si può riferire esclusivamente al valore della cosa ricettata, ma si deve avere riguardo a tutte le componenti oggettive e soggettive del fatto, complessivamente considerato, sicché, fra gli elementi da prendere in considerazione, vanno compresi tutti quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., inclusa, quindi, la capacità a delinquere dell’agente (per tutte, tra le moltissime: Sez. 6, n. 7554 del 02/02/2011) fermo restando che, nel quadro di tale giurisprudenza, la Suprema Corte ha altresì precisato – esprimendo un orientamento parimenti consolidato – che, in tema di ricettazione, il valore del bene è un elemento concorrente solo in via sussidiaria ai fini della valutazione dell’attenuante speciale della particolare tenuità del fatto, nel senso che, se esso non è particolarmente lieve, si deve sempre escludere la tenuità del fatto, risultando superflua ogni ulteriore indagine; soltanto se è accertata la lieve consistenza economica del bene ricettato, si può procedere alla verifica della sussistenza degli ulteriori elementi desumibili dall’art. 133 cod. pen., che consentono di configurare l’attenuante de qua, la quale va, al contrario, esclusa quando emergano elementi negativi, sia sotto il profilo strettamente obiettivo (quale l’entità del profitto), sia sotto il profilo soggettivo della capacità a delinquere dell’agente (per tutte, tra le moltissime: Sez. 2, n. 51818 del 06/12/2013; Sez. 1, n. 13600 del 13/03/2012; Sez. 2, n. 28689 del 09/07/2010); in altre parole, la particolare esiguità del valore del bene ricettato è un requisito necessario, ancorché non sufficiente, per il riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui al secondo comma dell’art. 648 cod. pen. (Sez. 2, n. 28689 del09/07/2010).
Ebbene, alla luce di siffatto quadro ermeneutico, era fatto presente come, nel caso di specie, la Corte di Appello di Roma avesse escluso la particolare tenuità del fatto, anzitutto, in ragione del valore del ciclomotore, trattandosi di uno scooter di grossa cilindrata, deducendosi contestualmente come tale motivazione non potesse ritenersi manifestamente illogica, atteso che l’elevata cilindrata di un ciclomotore costituisce, secondo la comune esperienza, un elemento tale da escludere la particolare esiguità del suo valore, tanto più se si considera che l’ipotesi attenuata del reato di ricettazione era stata esclusa dalla Corte di Appello di Roma, peraltro, anche in ragione del fatto – cui pure faceva riferimento la motivazione della sentenza impugnata – che al ciclomotore «era stata apposta una targa di altro motociclo anch’essa oggetto di ulteriore furto», trattandosi questo di un elemento considerato dalla Corte territoriale evidentemente indicativo della capacità a delinquere del ricorrente e anch’esso, perciò, tale da orientare in senso contrario al riconoscimento dell’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 648 cod. pen..
Tale motivazione della sentenza impugnata appariva essere pertanto, per la Corte di legittimità, priva di illogicità manifeste.
Ciò ritenuto, il motivo, nella parte in cui ci si lamentava che la Corte di Appello capitolina non avesse tenuto conto della vetustà del mezzo, risultava, per la Cassazione, del tutto generico e anapodittico atteso che, a suo avviso, il ricorrente aveva del tutto omesso di indicare alcun elemento concreto idoneo ad avvalorare l’effettiva sussistenza di detta caratteristica del mezzo.
Quanto, poi, al fatto che la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto della «marginalità dell’uso [del mezzo] limitato alla precipitosa fuga», si osservava come tale critica apparisse essere palesemente infondata atteso, da un lato, e principalmente, che essa non atteneva al fatto della ricettazione e, dall’altro lato, e in ogni caso, che l’utilizzo del ciclomotore si appalesava chiaramente essenziale nel compimento della rapina, giacché esso fu utilizzato per seguire il furgone del ricorrente e, una volta compiuto il delitto, per allontanarsi rapidamente dal luogo dello stesso, al fine di assicurarsi l’impunità.
Ciò posto, a loro volta il quarto e il quinto motivo – i quali, per la loro stretta connessione, erano esaminati congiuntamente – venivano stimati inammissibili perché (reputati) manifestamente infondati.
Si osservava difatti a tal proposito come la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che, ai fini della concessione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4), cod. pen., il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi (Sez. 2, n. 39703 del 13/09/2019; Sez. 2, n. 4287 del 28/10/2003).
Pertanto, correttamente, per gli Ermellini, al fine di stabilire l’entità del pregiudizio patrimoniale causato alla persona offesa dalla rapina, in sede di merito, era stato preso in considerazione l’importo delle somme di denaro a essa sottratte – ritenendo che tale importo fosse tale da escludere la speciale tenuità del danno – senza attribuire rilievo al fatto che «l’intervento degli operanti [avesse] consentito di recuperare la refurtiva».
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Detto questo, il sesto motivo era stimato inammissibile visto che le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (sez. U, n. 10713 del 25/02/2010; successivamente, Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017), tenuto conto altresì del fatto che, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di bilanciamento di circostanze eterogenee, non incorre nel vizio di motivazione il giudice di appello che, nel formulare il giudizio di comparazione, dimostri di avere considerato e sottoposto a disamina gli elementi enunciati nella norma dell’art. 133 cod. pen. e gli altri dati significativi, apprezzati come assorbenti o prevalenti su quelli di segno opposto (Sez. 2, n. 3610 del 15/01/2014; in senso analogo, Sez. 1, n. 17494 del 18/12/2019, dep. 2020, omissis, Rv. 279181-02).
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto alla fattispecie qui in esame, era rammentato che, a giustificare la scelta della Corte di Appello di Roma nel senso dell’equivalenza delle concesse circostanze attenuanti generiche rispetto alle ritenute aggravanti e alla recidiva, si doveva reputare sufficiente il riferimento implicito in quanto già operato ai fini della determinazione della pena base per il reato di rapina, alla valutazione complessiva di tale episodio criminoso («la gravità del fatto») e alla capacità a delinquere del ricorrente («gravato da plurimi precedenti, anche specifici»), riferimento che dimostrava, per il Supremo Consesso, che la Corte di Appello di Roma aveva sostanzialmente considerato ed esaminato gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen., compresi quelli segnalati nell’atto di appello, pervenendo alla conclusione, priva di incoerenze o illogicità, che la soluzione dell’equivalenza era la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena da irrogare nel caso concreto.
Infine, il settimo motivo era ritenuto inammissibile dal momento che la giurisprudenza della Corte di Cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015) fermo restando che, anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua“, “pena equa” o “congruo aumento“, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017), con la precisazione che la media edittale deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale e aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019).
Orbene, nel caso di specie, si prendeva atto di come la pena irrogata di anni cinque e mesi sei di reclusione ed E. 1000,00 di multa fosse al di sotto della media edittale della pena per il delitto di cui all’art. 628, primo comma, cod., pen. (pari a anni sei e mesi sei di reclusione ed E. 1290,00 di multa), con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben poteva ritenersi essere stato assolto dalla Corte di Appello di Roma mediante il riferimento alla gravità del reato («la gravità del fatto») e alla capacità a delinquere del D. («gravato da plurimi precedenti, anche specifici»), la quale, per la Corte di legittimità, dava certamente conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., così come, né, contrariamente a quanto mostrava di ritenere il ricorrente, sempre ad avviso della Cassazione, vi è contraddizione tra la concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle ritenute aggravanti e la determinazione della pena per il reato di rapina in misura superiore al minimo edittale previsto per la fattispecie aggravata di cui al terzo comma dell’art. 628 cod. pen. atteso che tale giudizio di equivalenza comporta l’applicazione della pena che sarebbe inflitta se non concorresse nessuna delle circostanze aggravanti e attenuanti (art. 69, terzo comma, cod. pen.) e, quindi, della pena prevista dal primo comma dell’art. 628 cod. pen., la quale può senz’altro essere determinata dal giudice di merito nell’ambito della “forbice” edittale prevista da tale primo comma.
4. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse, specialmente nella parte in cui è ivi chiarito quando si può ritenere consumato il delitto di rapina.
Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, si afferma che il reato di rapina si consuma nel momento in cui la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente, anche se per breve tempo e nello stesso luogo in cui si è verificata la sottrazione, e pur se, subito dopo il breve impossessamento, il soggetto agente sia costretto ad abbandonare la cosa sottratta per l’intervento dell’avente diritto o della forza pubblica fermo restando che integra il momento consumativo del delitto di rapina propria anche un possesso temporaneo perché esso si perfeziona non appena l’agente si impossessi, con violenza o minaccia, della cosa sottratta, ovverossia allorquando quest’ultima passi nella esclusiva detenzione e nella materiale disponibilità del predetto, con conseguente privazione, per la vittima, del relativo potere di dominio o di vigilanza, con la conseguenza che anche un possesso temporaneo della cosa vale a integrare il momento consumativo in quanto anche in tal caso le possibilità di recupero della refurtiva potrebbero avvenire solo con il ricorso da parte del rapinato alla violenza o ad altra decisa pressione sull’agente e, quindi, mediante una reazione di segno opposto all’azione delittuosa pienamente realizzatasi.
Tal che ne consegue che il delitto previsto dall’art. 628 cod. pen. si consuma nel momento e nel luogo in cui si verificano l’ingiusto profitto e l’altrui danno patrimoniale, a nulla rilevando, invece, la mera temporaneità del possesso conseguito.
Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba verificare se codesto illecito penale possa ritenersi consumato.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale peculiare tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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