Quando è possibile motivare per relationem

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Il fatto

Il Tribunale di Ancona applicava all’imputata la pena di anni due e mesi otto di reclusione ed euro 12.000,00 di multa, in relazione al reato di cui all’art. 73, comma 1, d.P.R. 309/1990, per avere detenuto, a fini di cessione, grammi 198,2 di sostanza stupefacente tipo cocaina, dalla quale erano ricavabili circa 584 dosi medie singole, nonché disposta la misura di sicurezza dell’allontanamento dell’imputata dal territorio dello Stato a pena espiata, richiamando, in punto di pericolosità sociale, le argomentazioni poste a fondamento dell’ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputata deducendosi l’illegittimità della disposta espulsione per carenza, anche grafica, della motivazione, tanto più che lo stato di incensuratezza e la collaborazione dispiegata nella fase delle indagini, ad avviso del ricorrente, contrastavano con il giudizio di pericolosità sociale enunciato nella sentenza impugnata

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato inammissibile perché, ad avviso del Supremo Consesso, proposto per motivi generici.

Gli Ermellini osservavano a tal proposito come non esistessero esistono ragioni valide per discostarsi dai principi formulati in sede di legittimità ordinaria, con riferimento alla motivazione per relationem secondo cui la motivazione “per relationem” di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando:

1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;

2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione;

3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione (Sez. 2, n. 55199 del 29/05/2018).

Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, i giudici di legittimità ordinaria notavano – una volta fatto presente che il giudice per le indagini preliminari aveva motivato l’applicazione della misura dell’allontanamento dell’imputata dal territorio dello Stato a pena espiata attraverso il rinvio al contenuto dell’ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari e aveva, pertanto, richiamato il giudizio di pericolosità sociale, posto a fondamento di una misura perdurante al momento della pronuncia della sentenza e ben nota all’imputata, individuando, sulla base del pericolo di reiterazione di condotte analoghe descritto nel provvedimento cautelare, il pericolo di commissione di nuovi reati e considerato altresì che il giudizio di pericolosità sociale, ai sensi dell’art. 235 cod. pen, come il pericolo di reiterazione di cui all’art. 274, lett. c), cod. proc. pen., è formulato attraverso il riferimento a parametri che comportano, accanto alla gravità del fatto e della condotta, valutazioni di carattere soggettivo, ancorate ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e che, pertanto, costituiscono la base comune di valutazione nell’uno come nell’altro caso – come, rispetto alla struttura motivazionale del provvedimento impugnato, le censure della difesa, per la Suprema Corte, si arrestavano ad un rilievo meramente formale (enunciando vizio di carenza di motivazione) e non si curavano, attraverso il necessario confronto con il contenuto dell’atto richiamato che integrava la struttura motivazionale (a questo punto complessa) della statuizione oggetto dell’odierno ricorso, di indicare elementi che, in positivo, sarebbero stati funzionali a disarticolare il giudizio di pericolosità sociale che non era stato inficiato dal riferimento allo stato di incensuratezza, recessivo rispetto al giudizio negativo sulla personalità dell’imputata attestato dall’elevato quantitativo di droga detenuta, e che ne rivelava, sempre a giudizio della Corte di legittimità, un ruolo non marginale nel circuito degli stupefacenti, né dal comportamento processuale, genericamente indicato come collaborativo, ma non meglio precisato, ma che era valso all’imputata il mero riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, piuttosto che delle specifiche circostanze attenuanti riconducibili alla collaborazione, e che sarebbero state, rispetto alle circostanze innominate, maggiormente rappresentative di un distanziamento dalla commissione di fatti illeciti e, dunque, rappresentative di una condizione soggettiva idonea ad incrinare il giudizio di pericolosità sociale.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito quando il giudice può motivare per relationem.

Difatti, in tale pronuncia, citandosi una pregressa giurisprudenza conforme, si afferma che la motivazione “per relationem” di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando:

1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;

2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione;

3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione.

Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione al fine di verificare se il giudice abbia correttamente motivato “per relationem“, oppure no.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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