Il punto su rito camerale contenzioso e “giusto processo” civile

Redazione 24/11/02
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di Emilio Iannello

  1. –Il procedimento in camera di consiglio in senso proprio: caratteri strutturali e ambito originario di applicazione.

Il procedimento in camera di consiglio, quale disciplinato nelle scarne norme di cui agli artt. 737 – 742 cod. proc. civ. è strutturalmente connotato da requisiti che ne fanno uno strumento di accesso alla giurisdizione duttile e semplificato, oltre che meno dispendioso per le parti, sottratto di per sé a scansioni e limiti ai poteri istruttori del giudice, cui è affidato il compito di regolare l’intero svolgimento del processo nel modo che egli ritiene più opportuno rispetto alla materia trattata e agli obiettivi di celerità sottesi alla stessa scelta del rito. Ne sono caratteri distintivi (compendiati nel concetto di camera di consiglio, da intendersi non tanto con riferimento al luogo fisico della celebrazione di tali processi quanto all’assenza da esso evocata di un’udienza pubblica nella quale siano disciplinati poteri e comportamenti delle parti e del giudice) ([1][1]): la mancanza del principio della domanda e del contraddittorio; un’istruzione probatoria deformalizzata, con la previsione di una mera e generica assunzione di informazioni da parte del giudice, a carattere officioso; forma della decisione con decreto motivato; reclamabilità di esso quando la legge lo consente entro un brevissimo termine; revocabilità e modificabilità in ogni tempo del decreto stesso, e dunque instabilità del provvedimento e inidoneità dello stesso al giudicato ex art. 2909 c.c. ([2][2]).

Suo ambito elettivo di applicazione è sempre stato considerato quello della c.d. volontaria giurisdizione, ossia quello dell’attività, bensì affidata al giudice civile, ma solo formalmente (o oggettivamente) giurisdizionale, essendo mirata non a tutelare un diritto minacciato o leso da posizioni contrastanti, ma piuttosto ad attuare interessi (es. interesse al buon governo della famiglia, alla tutela di minori e interdetti, alla gestione delle cose comuni in caso di mancata formazione delle necessarie maggioranze) ([3][3]). Tale tendenziale coincidenza tra il procedimento camerale e la tutela giurisdizionale di interessi conosceva solo poche eccezioni, giustificate per lo più dalla scarsa complessità della materia o dall’esigenza di tutelare interessi sopraordinati, di rilievo pubblicistico (come in materia di famiglia, di  minori o di procedure concorsuali, la cui disciplina è connotata da forti accenti inquisitori) e/o da ragioni di economia processuale, come nel caso del procedimento per la liquidazione degli onorari di avvocati  e procuratori legali (artt. 29 e 30 legge 13 giugno 1942, n. 794).

  1. –L’estensione del modello camerale alla tutela contenziosa di diritti e status.

Il quadro è decisamente mutato dopo che, con l’introduzione dell’art. 742-bis cod. proc. civ. (art. 51 legge 14 luglio 1950, n. 581), è stata consentita l’applicazione delle norme comuni di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. a tutti i procedimenti la cui disciplina contenga un richiamo esplicito o implicito alla camera di consiglio «ancorché non regolati dai capi precedenti o che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone».

La maglia aperta da tale disposizione è stata ampiamente sfruttata con l’introduzione di una vieppiù crescente serie di ipotesi in cui viene fatto ricorso alle forme camerali per la tutela contenziosa di diritti e status controversi, assistendosi a quella che è stata definita come cameralizzazione della tutela dei diritti.

È impossibile tentarne in questa sede una ricognizione esaustiva ([4][4]); è certo tuttavia che si tratta di ipotesi talmente eterogenee e diverse per oggetto e interessi coinvolti da sfuggire ad una classificazione per criteri ontologici, che abbiano cioè riguardo alla materia trattata, rivelando quale comune denominatore solo il dato estrinseco del richiamo (peraltro non sempre integrale o esclusivo) alla struttura semplificata del processo camerale. Questo, a sua volta, si rivela frutto di scelte legislative aliene da preoccupazioni di sistemazione organica e legate piuttosto alla considerazione della specifica materia trattata, cui sempre più spesso si ritiene conveniente riservare forme camerali di tutela in ragione di obiettivi di rapidità ed effettività della tutela, a loro volta in alcuni casi correlati alla peculiarità e rilevanza degli interessi coinvolti (specie in tema di famiglia e tutela dei minori), in altri invece probabilmente dettati solo dalla diffidenza verso il modello del processo ordinario di cognizione.

  1. –Avallo della giurisprudenza di legittimità e costituzionale: il procedimento camerale come “contenitore neutro”.

L’espansione del modello camerale per la risoluzione di conflitti ha da subito registrato in dottrina posizioni fortemente critiche, censurandosi in genere scelte che – specie per il crescente numero e importanza – pongono in evidente crisi la relazione, ritenuta necessaria, tra tutela giurisdizionale dei diritti e processo di cognizione, ordinario o speciale che sia, ma comunque sottoposto a regole certe e predeterminate ([5][5]).

La tendenza ha tuttavia avuto ben presto l’avallo della Suprema Corte, con la costante affermazione della ricorribilità per  Cassazione, ai sensi dell’art. 111, 2° (ora 7°) comma, Cost., ma in evidente deroga all’art. 739, comma quarto, cod. proc. civ. ([6][6]) dei provvedimenti emanati all’esito di procedimenti camerali decisori (su diritti) e definitivi ([7][7]).

A sua volta la Corte Costituzionale, in alcuni casi argomentando proprio dalla ricorribilità per cassazione per violazione di legge, ha affermato la legittimità costituzionale dei procedimenti camerali su diritti, rilevando che il processo ordinario di cognizione e la cognizione piena non sono costituzionalizzati. In particolare con sentenza n. 202 del 1975, in materia di procedimento camerale per la revisione delle condizioni di divorzio, essa ha affermato che “l’adozione di tale procedimento … risponde a criteri di politica legislativa, inerenti alla valutazione che il legislatore ha compiuto in relazione alla natura degli interessi regolati ed alla opportunità di adottare determinate forme processuali. Questa scelta è discrezionale ed è indubbiamente esente da sindacato in questa sede, poiché, mentre, come questa Corte ha espressamente affermato con la sentenza n. 122 del 1966, il procedimento in camera di consiglio non è, di per sè, contrastante con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., il problema della scelta concreta del procedimento da adottare è problema di politica processuale, il cui esame sfugge alla competenza della Corte (sent. n. 142 del 1970) nei limiti in cui, ovviamente, non si risolva nella violazione di specifici precetti costituzionali e non sia viziata da irragionevolezza”.

Chiamata numerose altre volte sull’argomento la Corte ha finito con il dettare un elenco di requisiti indefettibili del «dovuto processo» su diritti, quali:

–       rispetto del principio della domanda e del contraddittorio (inteso come esclusione di ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti, possibilità di interloquire sui presupposti o quanto meno sui risultati dell’attività istruttoria ufficiosa);

–       assicurazione di termini compatibili con un adeguato diritto di difesa;

–       possibilità di acquisire prove precostituite e di assumere prove costituende “purché il relativo modo di assunzione – comunque non formale nonché atipico – risulti compatibile con la natura camerale del procedimento e non violi il principio generale dell’idoneità degli atti al raggiungimento del loro scopo” ([8][8]);

–       ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost.

È evidente tuttavia che tali aggiustamenti, incidendo direttamente proprio sui caratteri definitori del procedimento camerale, ne alterano profondamente la fisionomia e l’essenza. Si è venuto delineando, invero, un modello di tutela camerale dei diritti, in buona parte di creazione giurisprudenziale, che probabilmente nulla ha a che fare (se non per alcuni aspetti meramente accidentali) con il procedimento in camera di consiglio quale disciplinato dal legislatore del 1940.

Tale operazione creativa trova esplicito riconoscimento in una importante pronuncia delle sezioni unite della Cassazione in tema di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale di minori ([9][9]), per la quale, com’è noto, l’art. 68 delle legge 4 maggio 1983 n. 184 (l. adozioni), modificando il primo comma dell’art. 38 disp. att. c.c., ha attribuito al tribunale per i minorenni la competenza funzionale, con ciò derogando all’art. 9, 2° comma, c.p.c., che invece assegnava alla competenza del tribunale ordinario indistintamente tutte le cause relative allo stato delle persone, ma soprattutto facendo sorgere il dubbio – risolto affermativamente dalla detta pronuncia – che tale giudizio vada sottoposto al rito camerale cui il terzo comma dell’art. 38 assoggetta tutti i giudizi di competenza del tribunale per i minorenni.

In proposito rilevano le sezioni unite che il ripetuto intervento in materia della Corte Costituzionale ha «costituzionalizzato» “l’interpretazione giurisprudenziale prevalente che, messa di fronte a specifiche opzioni legislative, ha finito con il coniugare «giurisdizione» con «volontaria giurisdizione» … contemperando gli interventi legislativi in favore del rito camerale, a tutela delle innegabili esigenze di celerità, snellezza e concentrazione con l’inderogabile necessità della tutela giurisdizionale dei diritti …. La crisi del processo ordinario di cognizione e le peculiarità di alcune controversie (separazione, adozione, divorzio, filiazione, procedure concorsuali), hanno fatto sì che il legislatore, più che soffermarsi sui dati strutturali del procedimento che ne regolano lo svolgimento formale, si è preoccupato di sottrarre questi processi alle lungaggini e alle disfunzioni dell’ordinario giudizio di cognizione, per inserirli tra i c.d. «procedimenti a contenuto oggettivo», caratterizzati dal rilievo riconosciuto ai poteri del giudice”. I necessari adattamenti che ne sono conseguiti (la Corte parla di maquillage del tessuto normativo) – in tema di contraddittorio, facoltà di prova, sistema ordinario d’impugnazione, immodificabilità della decisione assicurata dal giudicato – hanno reso, dice la Corte, la giurisdizione camerale come un “contenitore neutro” nel quale “possono trovare spazio sia i provvedimenti di volontaria giurisdizione — cui si applica la disciplina degli art. 737 ss. c.p.c. … — sia i provvedimenti di natura contenziosa (o comunque concernenti status familiari), ciascuno con le proprie peculiari ed innegabili caratteristiche, sia strutturali che funzionali”, con il conseguente “superamento degli innegabili conflitti tra profili formali, o procedurali, e profili sostanziali connessi all’oggetto della controversia”.

Al di là della correttezza ermeneutica di una siffatta opera integratice o correttiva apportata dal c.d. diritto vivente ([10][10]), è innegabile che il processo camerale subisca attraverso di essa delle deviazioni dal suo modulo tipico, che lo rendono un procedimento essenzialmente diverso da quello disegnato dal codice agli artt. 737 ss., tanto da potersi dubitare che sia corretto parlare di procedimento camerale atipico ([11][11]) e non piuttosto di un altro tipo, come è stato detto, di tutela normale speciale di diritti o status ([12][12]).

  1. –Dubbi di compatibilità con il nuovo testo dell’art. 111 Costituzione.La rsposta della Corte Costituzionale.

In questo contesto è intervenuto il nuovo art. 111 della Costituzione (art. 1 legge cost. 23.11.1999 n. 2) che, com’è noto, ai primi due commi prevede “La  giurisdizione  si  attua mediante il giusto processo regolato dalla legge./ Ogni  processo  si  svolge  nel  contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

Riconoscendo in tale disposizione portata innovativa e non meramente ricognitiva di principi già presenti o desumibili da altre parti della legge fondamentale, parte della dottrina ha posto in dubbio che le risposte offerte dalla giurisprudenza della Cassazione e della Corte delle leggi, in ordine al problema della adeguatezza del rito camerale al fine della tutela contenziosa di diritti e status, possano ancora risultare soddisfacenti nel nuovo quadro costituzionale.

Si è infatti osservato che se “fino a ieri … la conformità delle norme processuali ai principi costituzionali doveva essere valutata in concreto” ponendo a raffronto la disposizione di legge ordinaria “quale concretamente applicata” con le varie norme costituzionali nelle quali si articolavano i principi fondanti in tema di giurisdizione e diritto di difesa (artt. 3, 24, 25, 101, etc. Cost.), “il novellato art. 111, co. 1°, invece, sembra imporre un mutamento di prospettiva … (attribuendo) a ciascuno dei consociati il diritto al giusto processo, quale nella medesima disposizione definito, indipendentemente dalla concreta applicazione della disciplina processuale. In riferimento alla nuova norma costituzionale, non occorre denunciare la specifica violazione del diritto di azione e di difesa ex art. 24 Cost., del principio del giudice naturale precostituito per legge ex art. 25 Cost., dell’eguaglianza formale e sostanziale tra le parti ex art. 3, co 1° e 2° Cost. o della autonomia o della indipendenza del giudicante ex art. 101 ss. Cost. et coetera. È, invece, possibile denunciare, in astratto e in generale, la difformità del modello processuale da quello previsto dalla Costituzione” ([13][13])

Si è in tal senso evidenziato, in particolare, un problema di compatibilità con la previsione della necessaria regolazione per legge del giusto processo ([14][14]) ma anche con il principio, per la prima volta esplicitamente affermato (quantunque certamente enucleabile in precedenza dai principi dell’ordinamento), della imparzialità del giudice poiché la “gestione del processo si realizza e si garantisce attraverso un modello procedimentale in cui modi, forme, termini, poteri delle parti e del giudice in ordine alla allegazione delle domande e delle eccezioni, ai meccanismi di acquisizione della conoscenza dei fatti, ai termini a difesa, sono predeterminati dal legislatore (e controllabili ex post in punto di legittimità) e non rimessi alla discrezionalità del giudice” ([15][15]).

Sotto altro profilo è stato più in generale rilevato come il ricorso alla più snella procedura camerale come rimedio alla lentezza del processo ordinario, farebbe emergere un possibile “cortocircuito costituzionale, tutto interno alla nuova formulazione dei primi due commi dell’art. 111 Cost.”, nella misura in cui, nel mentre persegue l’obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata, tradirebbe – almeno secondo le tesi interpretative sopra riferite – gli altri canoni costituzionali del giusto processo regolato dalla legge ([16][16]).

La questione di legittimità costituzionale del procedimento camerale rispetto al novellato art. 111 Cost. è stata esaminata dalla Corte Costituzionale a seguito di rimessione ad opera della Corte d’Appello di Genova ([17][17]).

Quest’ultima aveva dubitato della legittimità costituzionale degli artt. 737, 738, 739 c.p.c. e 336 c.c., nella parte in cui prevedono l’applicabilità del rito camerale, che non garantisce alle parti il giusto processo, “regolato dalla legge”. Il caso riguardava un procedimento in cui si discuteva tra genitori non uniti in matrimonio dell’affidamento del figlio. Era accaduto che la madre, richiedente l’affidamento a sé del minore, si fosse vista respingere la richiesta sulla base di una relazione dei servizi sociali, posta a fondamento della decisione del giudice senza essere portata a conoscenza dell’interessata. L’autorità rimettente, pur ricordando che la Corte aveva talora giudicato compatibile la procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c. con il diritto di difesa nonostante la lacunosità della disciplina, aveva rilevato che a diversa valutazione avrebbe dovuto indurre l’esigenza del giusto processo regolato dalla legge posta dal nuovo art. 111 Cost., che vede le parti titolari di precise facoltà e poteri processuali, nell’ambito di un procedimento sempre controllabile sulla base di precise indicazioni normative e non rimesso alla discrezionalità del giudice; aggiungeva che un’interpretazione adeguatrice della disciplina ex art. 24 Cost. avrebbe lasciato aperta la via a prassi applicative lesive del diritto di difesa e difformi per ogni ufficio giudiziario, cui non potrebbe sempre compiutamente rimediare il giudice del reclamo.

La Corte Costituzionale, con una motivazione stringata, ha respinto la censura affermando che l’ordinanza di rimessione non era sufficientemente motivata circa l’impossibilità di interpretazione in senso conforme a Costituzione della disciplina censurata, in tal modo sostanzialmente riproponendo il precedente orientamento in ordine alla piena legittimità di una interpretazione adeguatrice delle norme processuali.

In tale chiave ha confutato singolarmente i singoli profili di censura circa: a) la possibilità di prassi applicative difformi (quale quella della secretazione delle relazioni dei servizi sociali) che si discostano dal contenuto minimo di garanzie più volte enunciato; b) l’impossibilità di sanzionare con la rimessione al primo giudice la violazione in primo grado di regole di garanzia per la difesa; c) l’impossibilità, per lo stesso giudice del reclamo, di stabilire con certezza la nullità di singoli atti in mancanza di specifiche previsioni normative.

Sul primo e sul secondo punto, ha osservato la Corte che il reclamo è sede appropriata e idonea a rimediare i vizi conseguenti alla segnalata prassi distorsiva, non rilevando l’impossibilità di farne conseguire la rimessione al primo giudice, ciò accadendo nella normalità dei casi di rilievo in appello (o in sede di reclamo) di vizi processuali, fatta eccezione per i soli casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c..

Il terzo rilievo è stato poi ritenuto viziato dal falso presupposto che le nullità degli atti del processo civile siano necessariamente correlate a specifiche previsioni normative, laddove invece, il sistema delineato dall’art. 156, commi 2 e 3, cod. proc. civ., lascia ampio spazio all’interprete sia nell’affermare nullità non espressamente previste sia nell’escludere, in concreto, nullità invece sancite dalla legge ([18][18]).

Ma vanno altresì ricordate:

  1. a) l’ordinanza n. 140 del 17 maggio 2001 ([19][19]), con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma sesto, legge 6 marzo 1998 n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione delo straniero),trasfuso nell’art. 30, comma 6, D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (T.U. sull’immigrazione) nella parte in cui prevede che sul ricorso avverso il provvedimento di diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare il giudice civile decida ai sensi degli artt. 737 e ss. c.p.c., evidenziando che che il potere di “assumere informazioni” è assai più ampio di quello attribuito al giudice dall’art. 213 cod. proc. civ., poiché non ha esclusivamente come destinatario una pubblica amministrazione ma può essere indirizzato nei confronti di qualsiasi soggetto pubblico o privato in  grado  di fornire elementi affidabili e postula che le risposte possano essere fornite con qualunque mezzo di comunicazione, compresi quelli  più  moderni  e tecnologicamente avanzati;
  2. b) l’ordinanza n. 35 del 26 febbraio 2002, con cui la Corte costituzionale ha dichiaratola  manifesta  infondatezza  delle questioni  di  legittimità  costituzionale dell’articolo 14, commi 3, 4 e 5 T.U. imm. (in tema di procedimento di convalida del provvedimento di trattenimento presso un centro di permanenza temporanea e assistenza disposto dal questore nei confronti di uno straniero destinata rio di decreto di espulsione con accompagnamento alla frontiera) sollevate, anche in riferimento all’art. 111 Cost., dal Tribunale di Milano; la Corte ha a tal fine nuovamente richiamato – senza nemmeno alcun riferimento alla novella costituzionale del 1999 – la propria “costante giurisprudenza” secondo la quale la procedura camerale, quando sia prevista senza l’imposizione di specifiche limitazioni del contraddittorio, non viola di per sé il diritto di difesa e “l’adottarla in vista della esigenza di speditezza e semplificazione delle forme processuali è una scelta che solo il legislatore, avuto riguardo agli interessi coinvolti, può compiere” e che sfugge al sindacato della Corte salvo che non si risolva nella violazione di specifici precetti costituzionali e non sia viziata da irragionevolezza.

Nessun riferimento a possibili effetti innovativi del quadro ordinamentale, ancorché per negarne l’esistenza, si registra invece – stando almeno alle massime ufficiali – nella giurisprudenza della Cassazione successiva alla novella costituzionale, che appare sostanzialmente attestata sulle medesime posizioni già in precedenza affermatesi (salvo una nutrita produzione, inevitabilmente inedita, dedicata a questioni interpretative proprie della disciplina in tema di immigrazione). Il silenzio è comunque  di per sé assai indicativo di un orientamento negazionista circa la portata innovativa della riforma, del resto esplicitamente assunto dalla Cassazione con riferimento ad altri profili di dubbia compatibilità di norme e prassi del processo civile e fallimentare con i principi costituzionali in tema di giusto processo ([20][20]).

  1. –Considerazioni critiche.

Le risposte (negative) ai dubbi di costituzionalità lasciano in realtà inalterato il problema di fondo, con cui l’operatore è destinato a misurarsi quotidianamente, dell’assai difficile rapporto tra struttura semplificata, istruzione deformalizzata e a conduzione discrezionale del rito camerale con la tutela contenziosa dei diritti.

Ed invero, come la dottrina ha ampiamente dimostrato, partendo dalla distinzione tra poteri del giudice che attengono al mero governo del processo e poteri  che attengono invece all’attività di decisione ([21][21]), la “predeterminazione legislativa delle forme e dei termini (e dei corrispondenti poteri, doveri e facoltà processuali delle parti e del giudice) in tema di allegazioni relative a domande eccezioni fatti, di meccanismi di conoscenza del fatto, di termini a difesa delle parti nei vari momenti del processo” non è scelta accidentale e ininfluente rispetto all’obiettivo proprio dell’attività giurisdizionale contenziosa, che è quello di decidere su diritti con pronuncia suscettibile di acquisire forza di giudicato, ma investe l’essenza stessa della decisione, influenzandone inevitabilmente il contenuto e segnando la differenza tra decisione  frutto di un procedimento cognitivo predeterminato, controllabile in iure, garante di una dialettica ad armi pari e decisione che è invece il risultato di scelte discrezionali, condotte anche sul piano della individuazione  delle fonti di conoscenza e del modo di introdurle nel processo. Queste infatti sono inevitabilmente causa e conseguenza al tempo stesso di meccanismi di precomprensione idonei a condizionare la formazione del convincimento al di fuori di una reale possibilità di interlocuzione delle parti.

Non vale a compensare il risultato che, sul piano cognitivo e decisorio, consegue all’attribuzione al giudice di poteri discrezionali e officiosi, l’osservanza di garanzie nell’instaurazione del contraddittorio, nell’esercizio dei diritti di difesa e di prova, fin quando queste non limitino anche il gestore della decisione come avviene nel processo di cognizione. Meno ancora può bastare l’ammissione del ricorso per cassazione. Al riguardo, invero, si è fondatamente dubitato che, al cospetto di poteri così ampi e indefiniti di regolare con piena discrezionalità l’attività di cognizione e quindi di decisione, sia agevole in concreto individuare una violazione di legge, presupposto per il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. ([22][22]). Non va dimenticato invero che, per costante giurisprudenza, “il giudice, senza che sia necessario il ricorso alle fonti di prova disciplinate dal codice di rito, risulta di fatto svincolato dalle iniziative istruttorie delle parti e procede con i più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano attraverso l’assunzione di informazioni che, espressamente consentita dalla menzionata disposizione, non resta subordinata all’istanza di parte. Tale assunzione, però, palesandosi oggetto di una mera facoltà, non implica alcun obbligo per il giudice, sicché la mancata estensione dell’indagine non determina l’inosservanza delle norme disciplinanti il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione, sotto il profilo della violazione di legge» ([23][23]).

5.1. – Le ragioni  a sostegno del rito camerale: a) libero e più efficace  accertamento della verità.

 Nessuna delle motivazioni solitamente addotte a giustificazione della scelta del rito camerale per la tutela contenziosa di diritti risolve o giustifica pienamente tale deficit di garanzia, tanto più evidente ove si verta in materia di diritti disponibili.

Così, anzitutto, l’idea che un più penetrante potere istruttorio del giudice consenta di  raggiungere risultati razionalmente superiori, ossia a meglio avvicinare alla verità effettiva (o materiale), in contrapposizione alla verità formale cui porterebbe un processo costretto da limiti e barriere, non ha fondamento epistemologico, e rivela anzi una matrice autoritaria. Come ammoniva PUGLIATTI, “la pretesa di conseguire una «verità totale» o «assoluta» … è fuori delle reali e concrete possibilità umane e può essere concepita o come realtà divina, oppure come estremo limite tendenziale, astratta creazione dell’intelletto o simbolo operativo (come l’infinito matematico). La verità alla quale l’uomo può aspirare e della quale vive, come verità umana, appunto, è di necessità parziale e (o) relativa, concretamente (storicamente) condizionata ed implica limitazioni e scelte, compiute più o meno coscientemente. E dentro tale limite si mantiene sia che si tratti di verità scientifica, empirica o storica”. Conseguentemente “nel campo dell’esperienza giuridica … non ha senso una verità che stia fuori dalle istituzioni giuridiche che la storia umana ha foggiate, e se codesta verità si qualifica giuridica, per essere collegata al tipo di esperienza a cui va riferita, non vuol dire che si tratti di una (finta) verità, rispetto ad una (astratta) verità (vera), bensì dell’unica verità che si può (e si deve) aspirare a realizzare in quel campo di esperienza. Sulla base di queste considerazioni, è lecito affermare che i limiti posti all’indagine del giudice si traducono in metodi di ricerca (della verità), in altrettanti canoni e precetti tecnici di metodologia ermeneutica …” ([24][24]).

Si scambia così per una forma di conoscenza più approfondita e vicina al vero “quella che invece è soltanto il frutto di una incontrollata introduzione nel processo di informazioni, attraverso fonti e con modalità la cui attendibilità non è stata a priori vagliata dal legislatore, che quindi deve essere valutata di volta in volta dal giudice e deve fare i conti con la forza della prevenzione che qualunque elemento di fatto introdotto nel processo esercita sul giudicante e con la tendenza di questi ad avvalesi indistintamente del materiale probatorio senza distinguere tra le varie fonti, tutto racchiudendo e giustificando con il grande ombrello del libero convincimento” ([25][25]).

5.2. – (Segue): b) effettività di tutela di interessi sopraordinati.

Nello stesso limite incorre l’altra giustificazione solitamente addotta, circa l’esigenza, in relazione ad alcune materie, di realizzare forme di tutela adeguate alla situazione sostanziale considerata (si pensi soprattutto alla tutela dei minori, della famiglia, alla materia fallimentare). Anche in tal caso un processo nel quale la cognizione e la decisione siano affidate a poteri istruttori ampi e discrezionali del giudice, ancorché a tutela di interessi sopraordinati e di rilievo pubblicistico, è un processo che si allontana dal modello proprio della tutela contenziosa dei diritti (che postula per definizione un giudice terzo e imparziale) per avvicinarsi piuttosto ad un’attività di amministrazione e gestione di interessi ([26][26]).

Ciò, certo, non esclude che esigenze di effettività della tutela, confliggenti con un pieno dispiegarsi delle garanzie procedimentali del processo, ordinario o speciale, di cognizione, ne richiedano un’attenuazione. Non si tratta però, in tali ipotesi, di rinunciare al procedimento a cognizione piena per la tutela giurisdizionale dei diritti, ma solo di prevedere la possibilità di affiancarvi – in posizione quindi sussidiaria – un procedimento sommario-semplificato-esecutivo con la previsione però di una sorta di rimedio generale di tipo oppositorio, al fine di non sopprimere le garanzie del procedimento a cognizione piena, secondo il modello adottato dall’art. 28 legge 28 maggio 1970, n. 300.

5.3. – (Segue): c) celerità dei giudizi.

Sempre più spesso l’adozione del rito camerale risponde solo ad obiettivi di celerità, all’intento cioè di sottrarre puramente e semplicemente la tutela degli interessi di volta in volta considerati dal legislatore alle lungaggini e alle disfunzioni dell’ordinario giudizio di cognizione, indipendentemente da una reale esigenza propria delle situazioni sostanziali e comunque prescindendo da considerazioni di carattere sistematico ([27][27]).

L’idea di risolvere il grave problema della durata dei processi civili, con la estensione del rito camerale, si espone però ad almeno due ordini di critiche.

Anzitutto, per attenersi al titolo di questo convegno, l’efficienza non può ottenersi a scapito della legalità. Ragionevole durata del processo è obiettivo munito di tutela costituzionale allo stesso modo che quello di tutte le altre garanzie che compongono la nozione di giusto processo. Il raccordo tra i diversi valori costituzionali non può dunque avvenire con soluzioni compromissorie: gli obiettivi invero non sono di per sé logicamente e astrattamente in contrasto e vanno pertanto perseguiti, pienamente, ognuno con gli strumenti – ordinamentali, organizzativi, processuali – suoi propri.

In secondo luogo, l’obiettivo disvela una parziale e approssimativa rappresentazione (da parte del nostro legislatore) delle cause della annosa crisi della giustizia civile, che solo in minima parte risiedono e possono trovare rimedio nella disciplina processuale.

È del tutto illusorio pensare che la cameralizzazione del rito possa giovare a ridurre il peso che grava mediamente sui giudici civili italiani. Il giudice che nei nostri tribunali tratta gli ormai non pochi giudizi camerali, collegiali o monocratici, è lo stesso che il giorno prima e il giorno dopo tratterà le mille e passa cause di rito ordinario pendenti sul suo ruolo, e non si vede in qual modo l’organizzazione delle udienze e i tempi di definizione dei procedimenti camerali possa o debba non coordinarsi con l’organizzazione e i tempi del lavoro dedicato alle altre cause. Del resto anche se tutti i giudizi fossero “cameralizzati” ciò non sposterebbe di molto il problema, che sta essenzialmente nella sproporzione tra domanda (di giustizia) e organizzazione delle risorse, ossia  nel numero di procedimenti (complessivamente considerati) che il singolo giudice civile togato si trova a dover trattare e che, quale che sia il rito, fa comunque sentire il suo peso al momento di giungere al collo di bottiglia della decisione ([28][28]).

In realtà, si è convinti che nessuna riforma endoprocessuale servirà mai se non si ottiene al contempo – attraverso interventi molteplici e coordinati: non solo processuali ma anche organizzativi e ordinamentali – il risultato di controllare e organizzare i flussi delle pendenze e delle sopravvenienze, collegandoli costantemente, secondo razionali criteri di compatibilità, alle forze disponibili. Se il nuovo rito introdotto con le riforme del 1990 – 1995 non ha dato le risposte che ci si attendeva è principalmente perché esso non può e non poteva funzionare con carichi di ruolo quali quelli attualmente esistenti e ben prevedibili anche al momento del varo della riforma ([29][29]).

Ma occorre altresì non perdere di vista l’imprescindibile esigenza di contemperare i due obiettivi di una giustizia dai tempi ragionevoli con quello di una giustizia che sia frutto di adeguata professionalità, accessibile a tutti e democraticamente controllabile.

  1. – Questioni aperte e prassi applicative.

Rimaste deluse le aspettative di interventi chiarificatori da parte della Corte Costituzionale, non resta che prestare rinnovata attenzione al concreto atteggiarsi nella prassi del procedimento camerale, al fine di evitare interpretazioni non conformi alle garanzie processuali costituzionalizzate, tenendo ben presente che, come è stato giustamente rimarcato, “il rispetto delle regole processuali è imprescindibile garanzia di parità di trattamento e di uguaglianza non solo all’interno e nello svolgimento della singola controversia o del singolo affare ma anche all’esterno, tra controversia e controversia (appartenenti alla stessa categoria), affare e affare, ufficio giudiziario e ufficio giudiziario; è altresì garanzia della certezza e dell’uniforme applicazione del diritto” ([30][30]).

I punti sui quali sorgono dubbi interpretativi ed esigenze di integrazione nella prassi sono tantissimi, com’è ovvio attendersi stante l’estrema laconicità della disciplina normativa.

In questa sede, necessariamente, si opererà una selezione con riferimento ad alcuni degli aspetti più rilevanti o controversi.

6.1. – Difesa tecnica.

Nei casi in cui il procedimento camerale sia utilizzato per dar forma ad un vero e proprio giudizio contenzioso per la risoluzione di conflitti su diritti o status si ritiene di norma necessaria l’assistenza del difensore, ai sensi dell’art. 82, 2° comma, c.p.c. (secondo cui “le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l’assistenza di un difensore”)([31][31]), salvo che, come previsto dal terzo comma dell’art. 82, dalla legge non sia altrimenti disposto (come ad es. nel caso di ricorso avvero il provvedimento  di espulsione dello straniero ex art. 13, 8° comma, t.u. imm., come modificato dall’art. 12 legge 30 luglio 2002, n. 189).

Tale necessità è specificamente prevista, per legge:

–       per la domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, ex art. 3, comma 2, legge 24 marzo 2001, n. 89;

–       nei procedimenti in materia di potestà, ai sensi del nuovo ultimo comma dell’art. 336 c.c. (introdotto dall’art. 37 legge 28 marzo 2001, n. 149);

Essa viene invece affermata in via interpretativa con riferimento a peculiari fattispecie ma con argomenti certamente estensibili a casi analoghi.

In particolare, precedenti al riguardo si rinvengono:

–       in tema di divorzio a domanda congiunta (nel gergo divorzio consensuale o congiunto) ex art. 4, comma 13 legge 898/70 ([32][32]). Si ammette peraltro che, in assenza di conflitto di interessi, lo stesso difensore ben possa assistere entrambi i coniugi. È stata però dichiarata improcedibile la domanda congiunta di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio sottoscritta da entrambi i coniugi, in relazione alla quale uno di questi non aveva conferito alcun mandato al proprio procuratore ([33][33]). Si è tuttavia affermato che ove il ricorso sia stato proposto con l’assistenza di un unico difensore, la successiva adesione dell’altro coniuge che aveva agito in proprio sia sufficiente ad integrare la manifestazione congiunta di volontà richiesta dalla norma ([34][34]); la necessità di patrocinio legale viene invece per lo più negata (e nella prassi difatti da molti tribunali non richiesta) per l’instaurazione del procedimento di separazione consensuale, proprio argomentando (in contrapposizione con il giudizio camerale di divorzio congiunto) dalla ritenuta sua natura di volontaria giurisdizione ([35][35]);

–       per il giudizio di risarcimento del danno cagionato nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, ex art. 5 legge 13 aprile 1988, n. 117 ([36][36]);

–       in tema di procedimento per la designazione del successore o del subentrante all’assegnazione di terre di riforma agraria ex art. 7 l. 3 giugno 1940 n. 1078 ([37][37]);

–       con riferimento al procedimento di delibazione delle sentenze ecclesiastiche in materia matrimoniale ([38][38]), anteriormente al’entrata in vigore legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), che, negli artt. da 64 a 71, contiene la nuova disciplina del procedimento per l’efficacia e l’esecutorietà delle sentenze e degli atti stranieri, cui si ritiene vada soggetta anche il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico con effetti civili ([39][39]);

–       per la domanda di determinazione del compenso arbitrale, ex art. 814 c.p.c. ([40][40])

Si ritiene invece che essa non sia necessaria:

–       per il ricorso per la dichiarazione di fallimento ([41][41]), dal che si fa derivare – almeno da parte della giurisprudenza di merito – l’irripetibilità, in sede di ammissione al passivo, delle spese processuali sostenute dal creditore istante vittorioso in giudizio ([42][42]), salvo che l’istanza non abbia comportato un vantaggio per tutti i creditori, nel denunziare una situazione di insolvenza altrimenti non emersa, nel qual caso si è propensi a riconoscere alle spese di difesa affrontate dal creditore istante anche il privilegio ex art. 2755 c.c. ([43][43]). Tale esclusione trova peraltro spiegazione nell’ambito delle finalità proprie dell’istruttoria prefallimentare, connotata da forti caratteri officiosi, anche nel momento dell’avvio del procedimento, in relazione alla tutela di interessi sovraordinati ([44][44]);

–       nel procedimento camerale per la riabilitazione cambiaria ([45][45]);

La mancanza di difesa tecnica, nei casi in cui è prevista come (o si deve ritenere) necessaria, comporta la nullità dell’atto introduttivo, non suscettibile  di essere sanata dalla successiva costituzione, in difesa del ricorrente (ad es. all’udienza fissata per la comparizione delle parti) di procuratore legalmente esercente, ostandovi la norma di cui all’art. 125, 2° comma, c.p.c., che tale effetto riconosce al rilascio di procura al difensore “purché  (avvenga) anteriormente alla costituzione della parte rappresentata”, norma pacificamente interpretata nel senso: a) di escludere che la sanatoria possa applicarsi ai procedimenti  introdotti con ricorso, in quanto in essi la costituzione della parte rappresentata coincide con il deposito del ricorso ([46][46]); b) di escludere comunque che essa possa riguardare atti che risultino sottoscritti personalmente dalla parte priva di jus postulandi, dal momento che la sanatoria concerne solo il difetto iniziale di procura in capo a chi sottoscrive l’atto ([47][47]);

6.2 – Competenza

La disciplina comune di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. non contiene alcuna norma sulla competenza, limitandosi a prevedere che il ricorso camerale si propone al “giudice competente”.  Essa va ricercata nelle disposizioni relative ai singoli procedimenti o provvedimenti camerali.

Si ritiene comunemente che l’individuazione del giudice camerale dia luogo ad una questione di competenza per materia o funzionale, rilevabile anche d’ufficio in grado d’appello ([48][48]).

A seguito della soppressione dell’ufficio del pretore ed il trasferimento delle relative competenze al tribunale ordinario, si ha ormai solo occasione di affrontare questioni di riparto di competenza tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni per i provvedimenti riguardanti la prole, in relazione al disposto dell’art. 38 disp. att. c.c. che, com’è noto, fissate analiticamente le competenze attribuite al secondo, prevede una  generale competenza residuale del primo. Terreno di contrasti è quello dei provvedimenti sulle domande di modifica delle condizioni riguardanti la prole. Attualmente sembra consolidato il criterio discretivo per il quale “la competenza a provvedere sulla domanda di modifica degli accordi in tema di affidamento dei figli minori raggiunti in sede di separazione consensuale omologata (ovvero di modifica delle disposizioni adottate con la sentenza di separazione consensuale o con quella di scioglimento o di nullità del matrimonio) spetta al tribunale ordinario, individuandosi, per converso, nel tribunale dei minorenni il giudice competente a conoscere (in via residuale) delle richieste di intervento ablativo o modificativo della potestà genitoriale, ai sensi degli art. 330, 333 c.c., con la conseguenza che, adottato, da parte di quest’ultimo giudice, in pendenza del giudizio di separazione, un siffatto provvedimento, il giudice della separazione dovrà tener conto di esso, come factum superveniens, ai fini della eventuale modifica dei provvedimenti provvisori adottati” ([49][49]).

Il trasferimento delle competenze del pretore al tribunale in composizione monocratica, ai sensi dell’art. 244 d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (in deroga al disposto dell’art. 50-bis, 2° comma, c.p.c. che attribuisce al tribunale in composizione collegiale i “procedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli articoli 737 e seguenti, salvo che sia altrimenti disposto”), fa  sì che nella relativa assegnazione non si ponga più questione di competenza ma solo di ripartizione tra giudice, collegiale o monocratico, appartenente allo stesso ufficio ([50][50]).

Una singolare questione di competenza si pone però con riferimento ai procedimenti sui ricorsi avverso i decreti emessi nel procedimento penale  o  in quello penale militare in materia di rigetto dell’istanza di ammissione,  revoca  o  modificazione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, liquidazione dei compensi al difensore (artt. 6 e 12 legge 30 luglio 1990, n. 217) nonché di liquidazione dei compensi professionali agli ausiliari del P.M. o del giudice (art. 11 legge 8 luglio 1980, n. 319),  ora trasfusi negli 84, 99 e 170 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia). Si afferma infatti ormai pacificamente che la relativa cognizione spetti al giudice  penale  collegiale  (tribunale o corte d’appello) – individuato in base al  criterio  di appartenenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento  impugnato  – il quale decide, secondo la speciale procedura prevista dall’art.  29  della legge n. 794 del 1942, con ordinanza suscettibile di ricorso  per cassazione, da trattare e decidere in base alle regole procedurali proprie  del  rito penale. Ciò in quanto – si rileva – il fatto che la trattazione del ricorso debba essere effettuata, per  il  richiamo  operato  dall’art. 12,  comma  5, della legge 30 luglio 1990 n. 217  all’art. 29  della legge 13 giugno 1942 n. 794, nelle forme del processo civile,  non  implica  affatto che la competenza a decidere sul detto ricorso sia  in  ogni caso del giudice civile, dovendosi al contrario ritenere che essa,  quando il negato accesso al gratuito patrocinio sia stato chiesto per un procedimento  penale,  appartenga agli organi (tribunale o corte d’appello, a seconda dei casi), della giurisdizione penale. Se ne fa discendere la conseguenza che,  ove l’opposizione sia stata proposta innanzi al giudice civile, quest’ultimo deve rilevare d’ufficio l’improponibilità della domanda e qualora ciò non abbia fatto, decidendo nel merito, il ricorso per cassazione va proposto innanzi alla Corte di cassazione civile, la quale, pronunciando sul ricorso, rilevata l’improponibilità della domanda, deve cassare senza rinvio (ai sensi dell’art. 382, comma 3, c.p.c.) l’ordinanza impugnata, trattandosi di ipotesi in cui il processo non poteva essere proseguito ([51][51]).

Alla disciplina speciale occorre far riferimento anche per la individuazione della competenza per territorio. In mancanza di espressa previsione, si ritiene peraltro, in prevalenza, l’applicabilità del criterio residuale generale, ricavabile dall’art. 18 c.p.c., del forum domicilii del ricorrente nei procedimenti unilaterali e del resistente in quelli bi- o plurilaterali.

Secondo espressa previsione dell’art. 28, comma primo, c.p.c., trattasi di competenza per territorio inderogabile.

Per i provvedimenti nei confronti del minore, si ritiene pacificamente che la competenza per territorio vada determinata con riferimento al luogo in cui il minore dimori abitualmente, a prescindere da eventuali trasferimenti di carattere contingente o transitorio ([52][52]).

In tema, menzione particolare merita il procedimento camerale per la liquidazione dei compensi di avvocati e procuratori.

Si afferma infatti, pacificamente che la competenza funzionale ed inderogabile “del capo dell’ufficio giudiziario adito per il processo” sussiste per il solo procedimento speciale previsto dagli artt. 28 e 29 della legge 13 giugno 1942 n. 794, laddove se il professionista ha optato per il procedimento monitorio, l’eventuale giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo segue le regole del procedimento ordinario di cognizione, per cui non è configurabile in ordine ad esso, la competenza inderogabile del capo dell’ufficio ([53][53]).

Nel caso poi di attività difensiva prestata in procedimenti che si siano svolti in più gradi di giudizio, è competente funzionalmente a provvedere, in relazione a ciascun grado, il giudice rispettivamente adito in quella sede ([54][54]).

6.3. – Connessione

L’espansione del rito camerale alla tutela contenziosa di diritti o status  fa sì che possa non di rado prospettarsi nesso di connessione propria tra cause soggette a rito camerale e cause soggette a rito ordinario. Non si rinvengono peraltro ostacoli alla realizzazione in tali casi del simultaneus processus, con applicazione dell’art. 40, 3° comma, c.p.c. a mente del quale “nei casi previsti negli articoli 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l’applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442”.

 In un caso particolare in cui, azionato in executivis il credito relativo all’assegno per il mantenimento della prole fissato in sede di separazione consensuale, l’obbligato proponeva opposizione deducendo che la parte non corrisposta dell’assegno doveva considerarsi non più dovuta (ancorché fosse mancato un provvedimento di modifica) a causa della sopravvenuta morte di una delle figlie, la Corte di Cassazione ([55][55]), adita con regolamento di competenza avverso l’ordinanza del Pretore, giudice dell’esecuzione, che, rigettando istanza di sospensione, aveva disposto per il prosieguo innanzi a sé del giudizio di merito sull’opposizione, ha invece affermato la competenza del tribunale rilevando che “al di là del nomen juris adottato, la proposta opposizione implicava domanda di riduzione del contributo di mantenimento con decorrenza dalla data di verificazione del fatto a tal fine dedotto, e dunque investiva, indipendentemente da ogni indagine sul fondamento della domanda sia quanto alla rilevanza del fatto dedotto sia quanto alla decorrenza degli eventuali effetti modificativi, la competenza funzionale, ex artt. 710 e 711 c.p.c., del tribunale che ha omologato la separazione consensuale”. Successivamente il tribunale, adito con ricorso in camera di consiglio ex art. 710 c.p.c. per la riassunzione del giudizio, ordinava il mutamento di rito (da camerale a ordinario) e fissava a tal fine l’udienza per la prosecuzione del giudizio secondo le scansioni di un ordinario processo di cognizione. Rilevava infatti che “il riferimento all’art. 710 c.p.c. posto a fondamento della sentenza regolatrice della competenza non pare utilizzabile anche al diverso fine della scelta del rito: sembra invero possibile scindere in tale disposizione un duplice contenuto precettivo: uno, appunto, determinativo della competenza per ragioni di materia; l’altro determinativo del rito, essendo prevista l’adozione delle forme del procedimento in camera di consiglio. Ora, quanto a quest’ultimo, non può dubitarsi che esso non possa prestarsi anche alla definizione del giudizio di opposizione all’esecuzione, non potendosi obliterare la disposizione di cui all’art. 615 c.p.c. che chiaramente prevede per esso le forme dell’ordinario giudizio contenzioso (è infatti espressamente precisato che l’opposizione si propone con citazione, regola alla quale è prevista una sola eccezione per il caso di opposizione all’esecuzione che tragga titolo da provvedimenti giurisdizionali in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie: art. 618 bis c.p.c.). Ciò peraltro non esclude che resti valida la regola determinativa della competenza che non può certo considerarsi inscindibilmente connessa alla determinazione del rito, costituendo anzi principio comunemente affermato quello della possibilità di ricorrere alla cognizione piena anche per fattispecie per legge soggette al procedimento camerale, specie ove riguardino diritti soggettivi o status …([56][56]). Convergente indice sistematico può trarsi in tal senso dalla disposizione di cui all’art. 40, 3° comma, c.p.c. a’ sensi della quale, nel caso di cause connesse (per connessione propria: artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.) soggette a differenti riti – e nella specie a ben vedere l’oggetto dell’unitaria causa di opposizione può scomporsi nelle due domande suddette – prevale di regola il rito ordinario, salva l’applicazione del rito speciale nel solo caso in cui una delle cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442 c.p.c.” ([57][57]).

Nel caso di connessione tra una causa di competenza del tribunale ordinario e una causa di competenza del tribunale per i minorenni, si ritiene in dottrina che, ai fini del simultaneus processus, prevalga la seconda, rilevandosi che “la devoluzione di determinate controversie a sezioni specializzate, per le ragioni particolari che presiedono alla loro istituzione, implica l’attrazione nella competenza delle medesime delle controversie legate da un nesso di accessorietà o pregiudizialità” ([58][58]).

6.4 – Forma della domanda, pendenza della lite e instaurazione del contraddittorio

La forma dell’atto introduttivo è tipicamente quella del ricorso, di un atto cioè rivolto al giudice e come tale di per sé idoneo a contenere la editio actionis, ma non ancora la vocatio in ius. Poiché quest’ultima rileva solo ai fini della instaurazione del contraddittorio, il primo atto è di per sé perfettamente idoneo a sortire comunque l’effetto di investire il giudice della causa e di attivare pertanto, con riferimento al singolo caso, la funzione giurisdizionale.

Per tale motivo, la tempestività della domanda rispetto a decadenze eventualmente poste dalla legge che regola la singola fattispecie, deve  essere verificata con riferimento alla data di deposito del ricorso nella cancelleria, indipendentemente dalla successiva notificazione del ricorso stesso e del decreto di fissazione dell’udienza ([59][59]). Ne dovrebbe anche conseguire che la notifica oltre il termine e anche la stessa omessa notifica, senza preventiva presentazione dell’istanza di proroga, non può rivestire alcun effetto preclusivo (analogamente a quanto affermato in materia di appello nelle controversie di lavoro)([60][60]); l’inutile decorso del termine fissato per la notifica implica  soltanto, nell’ipotesi di mancata costituzione della controparte, la necessità di fissare nuovo termine, mentre, nell’ipotesi di sua costituzione, non impedisce la regolare instaurazione del contraddittorio, data l’efficacia sanante ex tunc della costituzione ([61][61]).

Si ritiene comunemente che la proposizione della domanda in forma di citazione non comporta di per sé nullità o decadenze, a condizione che l’atto sia comunque depositato in cancelleria nel termine eventualmente previsto, non rilevando che entro tale termine l’atto sia stato comunque notificato.

Quanto alle modalità di convocazione e ai termini da osservare tra la vocatio in ius e l’udienza di comparizione la disciplina codicistica tace del tutto, lasciando in tal senso ampio spazio alla prassi.

Non v’è dubbio che si tratta di elementi sui quali maggiormente incide il correttivo pacificamente imposto dalla giurisprudenza della garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio.

In ordine al primo aspetto prevale per lo più il collaudato meccanismo della notifica del ricorso e del decreto a cura del ricorrente nel termine fissato dal giudice.

Le maggiori varietà della prassi si registrano in tema di istruttoria prefallimentare. Taluni uffici giudiziari infatti provvedono alla convocazione in camera di consiglio del fallendo a mezzo di biglietto di cancelleria (ad esempio un decreto di citazione), mentre altri tribunali onerano della notifica il creditore istante ([62][62]), provvedendo invece d’ufficio qualora il ricorso sia stato presentato dal pubblico ministero. Si sostiene che la notifica a cura della cancelleria, nell’ambito di un procedimento caratterizzato dalla inquisitorietà, conserva al giudice la direzione del procedimento, da lui condotto con lo scopo di realizzare gli interessi superindividuali allo stesso sottesi senza obbligarlo a sottostare alle decisioni ed ai comportamenti del creditore, il quale potrebbe decidere di non notificare il ricorso o potrebbe ritardare la notifica dello stesso; l’applicazione di una sanzione di improcedibilità, in caso di omissione, finirebbe con l’attribuire agli interessi privati eccessivo peso nell’istruttoria prefallimentare, pur considerata quale procedimento contenzioso tra parti contrapposte, e si porrebbe in contrasto con l’officiosità del procedimento; procedere d’ufficio solo dopo che il creditore non vi provveda, frustrerebbe d’altronde le esigenze di celerità del procedimento ([63][63]).

Molto diffusa è comunque anche l’altra prassi – più rispettosa della natura contenziosa e delle garanzie del giusto processo –  consistente nell’onerare lo stesso creditore istante della notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione d’udienza ([64][64]), facendone conseguire in caso di iterato omesso adempimento l’improcedibilità del ricorso, salvo diversa valutazione in concreto della sussistenza dei presupposti per una attivazione ex officio del procedimento.

 Resta poi pur sempre affidato al giudice, salvo diversa specifica previsione di legge, il compito di fissare in concreto il termine che si ritenga più adeguato a conciliare le esigenza di una piena esplicazione del diritto di difendersi e contraddire e quelle di celerità e speditezza proprie del procedimento camerale ([65][65]).

Con riferimento all’istruttoria prefallimentare si afferma che ai fini dell’esercizio del diritto di difesa l’ampiezza del termine a comparire deve essere valutata discrezionalmente dal giudice di merito in relazione alla concreta possibilità per l’imprenditore di essere informato del contenuto dell’istanza di fallimento presentata a suo carico e di poter predisporre un’adeguata difesa ([66][66]).

6.5. – Audizione degli interessati

Nel sistema di garanzie che devono connotare il rito camerale ove finalizzato alla tutela contenziosa di diritti e status, l’audizione degl interessati assume importanza quale strumentno di difesa prima e più che di indagine.

In alcuni casi è la legge stessa ad imporla (art. 336 c.c., audizione del genitore nei cui confronti è richiesta l’emissione del provvedimento incidente sulla potestà; art. 710 c.p.c., audizione dei coniugi che chiedono la modifica dei provvedimenti sulla separazione). Si ritiene, tuttavia, che essa debba essere obbligatoriamente garantita, ancorché non sia testualmente prevista.

Va ricordato che la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva con legge 27 maggio 1991 n. 176 e, quindi, dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno, prevede, all’art. 12,  che il fanciullo capace di discernimento ha diritto di esprimere liberamente la sua opinione su qualsiasi questione che lo interessa. Al secondo comma la stessa norma dispone che “a tal fine si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”.

In quanto strumento di difesa, lo scopo dell’incombente dovrebbe ritenersi raggiunto con il solo consentire alla parte interessata di comparire davanti al giudice per essere sentito, in funzione di una mera facoltà della parte, liberamente dalla stessa esercitatile, non anche di un obbligo.

Contrastanti opinioni si registrano peraltro, al riguardo, nel particolare caso del procedimento di divorzio su domanda congiunta, ex art. 4 comma 13 l. div. circa gli effetti della mancata comparizione dei coniugi davanti al collegio.

Parte della giurisprudenza di merito ritiene che ne debba conseguire l’improcedibilità della domanda ([67][67]).

Altro orientamento, al contrario, ritiene che la mancata comparizione personale di uno o di entrambi i coniugi, purché comunque rappresentati dal loro difensore, ancorché unico per entrambi, non impedisca al tribunale di provvedere sulla domanda ([68][68]).

Va peraltro precisato che l’audizione delle parti, se è fondamentale sotto il profilo del rispetto del contraddittorio, può essere comunque rilevante anche ai fini informativi, o, più propriamente, probatori. Si ritiene, infatti, che “l’audizione non coincide … né con l’interrogatorio libero delle parti di cui all’art. 117 c.p.c., cui il giudice può sempre procedere, né con l’interrogatorio formale di cui agli artt. 228 ss. c.p.c. e se le parti, nelle proprie allegazioni e deduzioni, ammettono fatti contrari al proprio interesse o non contestano allegazioni e deduzioni altrui, tale comportamento processuale potrà essere utilizzato dal giudice” ([69][69]).

6.5.1. – Stranieri

Pare il caso di menzionare, in argomento, una recente pronuncia della Cassazione che, in materia di immigrazione, ha affermato il principio secondo cui nel giudizio promosso con ricorso contro il provvedimento di espulsione, non vi è alcuna norma che imponga al giudice – chiamato a decidere in termini molto ristretti – di assicurare la presenza di un interprete nella lingua dello straniero, come previsto dall’art. 143 cod. proc. pen.; tale mancata previsione si giustifica – secondo la Cassazione – con la considerazione che il ricorrente non viene fatto oggetto di contestazioni di sorta, ma deve solo essere sentito nei modi di cui agli artt. 737 cod. proc. civ., ed è sufficiente che sia in grado di comprendere la sostanza dell’interpello. La mancata audizione dell’interessato non è, d’altra parte, causa di nullità del provvedimento, in quanto il giudice è tenuto a decidere in ogni caso entro dieci giorni dalla data del deposito del ricorso, sicché la decisione può essere validamente presa anche in assenza del ricorrente ([70][70]).

6.6. – Preclusioni.

Caratteristica precipua del procedimento camerale è, come detto, la mancanza assoluta di una disciplina legale del suo svolgimento e, dunque, anche la mancata previsioni di scansioni, fasi e preclusioni, con la conseguenza che non si può opporre alle parti decadenza da allegazioni o richieste istruttorie e, per converso, le parti non hanno diritto di ottenere termini o rinvii di sorta, salvo quanto è necessario ad un compiuto esercizio del loro diritto di difesa.

È stato al riguardo affermato – forse troppo restrittivamente rispetto a tale ultimo limite –   con riferimento a procedimento camerale di reclamo avverso ordinanza del tribunale di modifica dei provvedimenti relativi alla separazione dei coniugi, che il diniego di differimento della trattazione del procedimento e la riserva della causa in decisione, adottati dalla corte d’appello in relazione ad istanza (del sostituto) del procuratore del reclamato, formulata con riferimento all’astensione di tale procuratore in ottemperanza alla indicazione dell’ordine professionale, “non impinge contro alcun diritto della difesa, qualora non risulti impedita nessuna delle attività processuali consentite al difensore” (nella specie, la Corte ha escluso che fosse rilevabile una qualsiasi nullità processuale nella descritta procedura camerale, posto che la parte rappresentata dal procuratore “in astensione”, vittoriosa completamente in primo grado, ben aveva potuto conoscere dall’atto di reclamo le doglianze della controparte in ordine all’affidamento del minore al padre, disposto dal tribunale, e bene aveva potuto ad esse resistere con rituale memoria di costituzione e non essendo emersa alcuna attività istruttoria che tale parte non avesse avuto opportunità di richiedere in detta memoria) ([71][71]).

Per contro trovasi anche affermato, con riferimento a giudizio per la modifica delle condizioni di divorzio, che il rito adottato dal legislatore, con l’art. 9 l. div, è regolato, in via generale, dagli artt. 737 e ss. c.p.c., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da questa normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento – che è attuato con impulso di ufficio – alla disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispetto del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa. In particolare, nel procedimento di primo grado, non vigono le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario, con la conseguenza che in esso: 1) possono essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove, anche riconvenzionali, in conformità delle direttive dettate dal giudice nella gestione del processo, senza con ciò che la loro eventuale mancata proposizione possa impedirne la proposizione in separato giudizio; 2) possono essere ammesse prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che – peraltro – anche in questo caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte ([72][72]). Il procedimento, sempre secondo la Corte, si svolge nell’interesse delle parti e, diversamente da quanto accade nel caso in cui si tratti di modifica dell’assegno di mantenimento di figli minori, in esso vige il principio della domanda e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, investendo l’”officiosità del procedimento” unicamente il profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed, in certa misura (ai sensi dell’art. 738, comma terzo, c.p.c.) l’acquisizione di materiale probatorio.

L’assenza di preclusioni sembrerebbe dover riguardare anche il rilievo dell’incompetenza ([73][73]).

In senso contrario, trovasi però affermato, in giurisprudenza, che la disposizione di cui all’art. 38 c.p.c. (nel testo introdotto dalla riforma del 1990), laddove ha introdotto una generale barriera temporale preclusiva ai fini della possibilità di rilevare tutti i tipi di incompetenza, fissandola nella prima udienza di trattazione, deve ritenersi applicabile non soltanto ai processi di cognizione ordinaria, ma anche ai processi di tipo camerale, almeno allorché questi siano utilizzati dal legislatore per la tutela giurisdizionale di diritti; da ciò consegue che essa si renda operativa anche allorché vertasi in materia di avvenuta violazione delle norme relative alla competenza funzionale (sancita dagli artt. 28 e 29 legge n. 794 del 1942) del capo dell’ufficio giudiziario adito per il processo a liquidare le spese ed i compensi dell’avvocato nei confronti del proprio cliente ([74][74]).

6.7. – Istruzione.

La disciplina dell’istruttoria nel procedimento camerale, contenuta nella laconica ma amplissima previsione del potere del giudice di “assumere informazioni” (art. 738, 3° comma, c.p.c.), si connota essenzialmente per essere officiosa e deformalizzata.

Il primo carattere rappresenta, come visto, anche in ragione della connessa impossibilità di censurare con il ricorso per cassazione il concreto svolgimento dell’istruttoria, il maggiore insuperato ostacolo logico rispetto ad una piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio, coessenziale alla tutela giurisdizionale di diritti e status.

Il potere del giudice al riguardo raggiunge la sua massima estensione, caratterizzandosi come vero e proprio potere inquisitorio, nei processi relativi a diritti indisponibili nei quali è prevista la partecipazione del pubblico ministero. In tali giudizi non opera il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e sono attribuiti al giudice poteri istruttori d’ufficio e, in alcuni casi assolutamente eccezionali, di iniziativa del procedimento. Si tratta essenzialmente delle controversie familiari aventi ad oggetto l’affidamento della prole, la determinazione del contributo al loro mantenimento e in generale di tutti i provvedimenti che devono assumersi a tutela dei minori: la legge infatti con riferimento a tali provvedimenti parla genericamente di “provvedimenti opportuni” o “convenienti” o “utili” ([75][75]) lasciando al giudice ampia discrezionalità nella determinazione del loro contenuto che è affatto svincolato dal contenuto della domanda ([76][76]). In queste ipotesi, e in modo particolarmente rilevante allorquando dispone anche del potere d’ufficio di introdurre il procedimento, il giudice non incontra limiti nemmeno nell’individuazione dei fatti oggetto di verifica istruttoria, al di fuori di quello costituito dal provvedimento che deve essere emanato, il quale, avendo un oggetto predeterminato, informa di sé l’attività che il giudice deve andare a svolgere, rendendone necessario il contenuto ([77][77])

Nei procedimenti bi- o plurilaterali, non potendosi prescindere dall’impulso di parte, il giudice è invece vincolato al thema decidendum quale risultante dai fatti allegati dalle parti, nel cui ambito tuttavia ha il più ampio potere di ricerca officiosa delle fonti di prova e non è vincolato dalle modalità di assunzione dei mezzi di prova propria del processo ordinario di cognizione (il che esclude un’applicazione automatica e meccanicistica della regola di giudizio ricavabile dalla norma sull’onere della prova: art. 2697 c.c.)([78][78]).

Una siffatta ampiezza di poteri trova unici correttivi: a) nella necessità di instaurazione del contraddittorio sul risultato delle prove ([79][79]); b) nel riconoscimento del diritto delle parti di formulare esse stesse comunque richieste istruttorie, affermandosi in particolare l’insufficienza delle prove raccolte mediante la detta attività istruttoria atipica a fondare il giudizio di superfluità ex art. 209 a fronte della richiesta di prova contraria.

Sotto il secondo profilo (istruzione deformalizzata) è pacifico che l’attività di raccolta  nei procedimenti camerali è sottratta alle norme che nel codice di rito disciplinano i singoli mezzi di prova e la loro assunzione, oltre che alle regole di esclusione probatoria.

In tal senso è stato detto che essa è connotata da una duplice atipicità, quanto alle fonti di prova e quanto ai modi di acquisizione delle fonti di prova al processo ([80][80]).

In realtà, se si conviene che, in natura (ossia sul piano logico), le fonti di conoscenza immaginabili si riducono a tre categorie: ispezione (percezione diretta del giudice); documento (strumento rappresentativo del fatto medesimo da provare); dichiarazione di scienza (percezione e rappresentazione del fatto da parte di persona diversa dal decidente), dovrà concludersi che la atipicità attiene propriamente al modo di assunzione delle fonti di conoscenza: ossia al procedimento tramite il quale le singole fonti di prova si formano e sono acquisite al giudizio ([81][81]), procedimento nella specie sottratto – come detto – ad ogni regola o schema legale e affidato piuttosto alla discrezione del giudice.

Sotto tale profilo i quesiti più frequenti sono: – se il giudice possa nominare un consulente tecnico; – se il consulente debba prestare giuramento; – come debbano essere sentiti i testimoni e se debbano prestare la prescritta dichiarazione di impegno; – che spazio abbiano le prove legali e in particolare il giuramento e la confessione; – se le parti abbiano un onere di disconoscimento delle scritture e se possa farsi luogo a verificazione ([82][82]).

La giurisprudenza, come detto, in realtà è netta nell’escludere la necessità di osservare presupposti, limiti e modalità di assunzione dettati per i singoli mezzi di prova (ancorché questa certo non sia esclusa): deve pertanto escludersi che alcuna sanzione possa conseguire alla mancata assunzione di impegno dei testimoni o alla mancata formulazione di capitoli su cui sentire i  testi ([83][83]). Devono inoltre  ritenersi consentite perizie private stragiudiziali, relazioni tecniche, assunzione di informazioni d’ufficio per mezzo degli organi di polizia giudiziaria ed anche per mezzo d’autorità amministrative; l’assunzione a fondamento della decisione delle indagini di servizi sociali; si potranno acquisire dichiarazioni a contenuto testimoniale provenienti da terzi (senza che la forma di cui sia rivestita la dichiarazioni – es. affidavit resi innanzi a notai, atti notori et similia –  ne influenzi in qualche modo il valore)([84][84]), certificazioni della PA, verbali di prove raccolte in altri processi, potrà acquisirsi il parere tecnico di un esperto, potranno assumersi informazioni da terzi informati sui fatti.

Un correttivo di tale disciplina sta tuttavia nel diritto della parte all’ammissione di tutti i mezzi di prova tipica, riconosciuto dalla Corte Costituzionale ([85][85]) quale condizione di legalità costituzionale del rito camerale per la tutela contenziosa di diritti, con  il solo limite della compatibilità “con la natura camerale del procedimento, ed ovviamente in attuazione del principio generale della idoneità degli atti processuali al raggiungimento del loro scopo”.

Si afferma inoltre che altro contrappeso di tale libertà di forme si colga sul piano della valutazione, nel senso che questa deve essere condotta secondo il meccanismo di inferenza proprio delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.).

Si ricordi in particolare che alle dichiarazioni contra se rese dalla parte in sede di audizione al di fuori della appropriata sede di un interrogatorio formale e stante il disposto degli artt. 117 e 229 c.p.c., non può riconoscersi valore confessorio (e dunque di prova piena, ex art. 2733, 2° comma, c.c.)([86][86]), almeno tutte le volte in cui non risulti esplicitamente che si è trattato di affermazione effettivamente spontanea ossia non provocata da alcuna domanda rivolta alla parte dal giudice ([87][87]), ancorché, in caso diverso, restino liberamente valutabili dal giudice e, come detto, possano anche da sole fondare il convincimento del giudice ([88][88]).

Quanto poi alla scrittura privata, con riferimento a procedimento ex art. 274 c.c. (per la ammissione di azione di dichiarazione giudiziale di paternità) in cui ne era prodotta una del presunto padre, è stato ritenuto da un lato irrilevante il suo disconoscimento, perché non preclusivo della prudente valutazione del giudice stante il carattere di giudizio sommario a contenuto delibativo, e dall’altro inammissibile la formale verificazione di essa secondo il procedimento di cui agli artt. 216 ss. c.p.c. “trovando questa la sua sede naturale nel successivo giudizio a cognizione piena” ([89][89]).

Si è anche esclusa l’ammissibilità della querela di falso nell’ambito di procedimento di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (avverso interdetto possessorio interinale), ritenendosi che “la stessa – e soprattutto il giudizio al quale essa, se ritenuta ammissibile e rilevante, darebbe ingresso: un giudizio di ordinaria cognizione destinato a concludersi con sentenza suscettibile di passare in giudicato – siano incompatibili con la struttura e la funzione del procedimento” ([90][90])

 In realtà, la valutazione che occorre operare sugli elementi raccolti nell’istruzione camerale non può considerarsi concettualmente limitata o diversa dalla valutazione che attiene alle prove tipiche nel processo di cognizione, posto che anche per queste – salvo che non si tratti di prove legali – opera il medesimo meccanismo logico di inferenza dal fatto noto al fatto ignoto ([91][91]) e per converso anche le prime possono, in concreto, avere una inerenza logica al fatto principale da dimostrare molto più vicina e diretta delle seconde. Il vero limite si coglie pertanto solo sul piano estrinseco della “insufficienza delle prove raccolte mediante la detta attività istruttoria atipica a fondare il giudizio di superfluità ex art. 209 a fronte della richiesta di prova contraria”.

La delegabilità ad un componente del collegio dell’attività istruttoria è espressamente prevista nell’art. 710 c.p.c., limitatatamente però all’assunzione del mezzo, la valutazione di ammissibilità e rilevanza della prova essendo comunque riservata al collegio. Entro tali limiti la regola può considerarsi applicabile, e di fatto è nella prassi spesso applicata, ad ogni procedimento camerale ([92][92]).

La delega assume, nella prassi, connotazioni particolari e frequenza altissima in materia di istruttoria prefallimentare, che viene assai spesso condotta dall’inizio alla fine dal giudice designato dal collegio o, più spesso ancora, direttamente dal presidente della sezione, salvo poi riferire al collegio al termin per la decisione (rigetto o pronuncia di fallimento che sia). Tale prassi appare legittima alla luce della ormai pacifica giurisprudenza secondo cui l’osservanza dell’art. 15 legge fallimentare, nella formulazione risultante a seguito della sentenza n. 141 del 1970 della Corte costituzionale, non postula necessariamente che l’imprenditore venga convocato ed ascoltato dal tribunale nella sua composizione collegiale.

Giova anzi notare che il disegno di legge di miniriforma urgente della legge fallimentare, licenziato dal Consiglio dei ministri in data 1 marzo 2002, prevede espressamente che il collegio possa delegare al giudice relatore l’audizione e l’attività istruttoria, facoltà d’altronde già contemplata dall’art. 7 comma 1 del D. lgs. 270/99 per la dichiarazione di insolvenza delle grandi imprese in crisi ([93][93])

Emilio Iannello

Note:

* Intervento al Convegno nazionale “GIUSTIZIA CIVILE TRA LEGALITÀ ED EFFICIENZA”organizzato dall’Osservatorio sulla giustizia civile di Reggio Calabria il 15 – 16 Novembre 2002

[1][1] Sulla nozione di camera di consiglio v. MONTELEONE, Diritto processuale civile, Padova 2000, p. 1221; MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, II, 2,cap. 148, par. 995, secondo cui, nell’estensione del rito alla tutela contenziosa di diritti, la nozione di “camera di consiglio” dovrebbe più appropriatamente riferirsi ad “uno dei caratteri identificativi del rito camerale, che è quello dello svolgimento del processo in una, tendenzialmente unica, udienza di comparizione delle parti, senza l’applicazione del regime delle preclusioni che caratterizza il rito cognitivo ordinario”. In giurisprudenza v. Trib. Ancona 7 novembre 1995 (in Società 1996, 1297), secondo cui il termine fa semplicemente riferimento alle “modalità di espletamento procedurali in forma riservata piuttosto che in forma pubblica”.

[2][2] PROTO PISANI, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c., in Riv.dir. civ., 1990, I, p. 416, parla di processo (o di “schema di processo”) semplificato, a contraddittorio rudimentale, dominato dalla assoluta discrezionalità del giudice nella determinazione delle sue modalità di svolgimento

[3][3] La tendenza ad identificare, nel disegno originario del codice, il procedimento camerale con il procedimento non contenzioso trovava indiretta conferma negli artt. 29  n. 9  e 30, nn. 1 e 9 disp. att. c.p.c., che infatti prescrivevano ai cancellieri dei tribunali e delle preture di tenere il registro degli affari contenziosi e degli affari non contenziosi, definendo i secondi, ove si tratti di competenza del tribunale, affari “da trattare in camera di consiglio” Tali disposizioni, com’è noto, sono state abrogate dall’art. 7, comma 1, l. 2 dicembre 1991, n. 399 (recante Delegificazione delle norme concernenti i registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari e l’amministrazione). In attuazione di tale legge è stato emanato il D.M. 27 marzo 2000, n. 264 che prevede una elencazione molto più articolata di registri, istituendo in particolare, per quel che qui interessa, al n. 18 un “ruolo generale degli affari civili non contenziosi e da trattarsi in camera di consiglio”. È interessante notare come il successivo D.M. 1 dicembre 2001, nel dettare le modalità di tenuta dei registri, informatici e cartacei, nell’allegato dedicato a quest’ultimi ha inteso precisare, con riferimento al predetto registro di cui al n. 18 dell’art. 13 del D.M. 27 marzo 2000, che esso “nasce dalla fusione del ruolo degli affari civili non contenziosi (ivi compresi quelli già di competenza della Pretura) con quello degli affari da trattarsi in camera di consiglio. È destinato non soltanto alle istanze di volontaria giurisdizione, di natura non contenziosa, dirette ad ottenere le autorizzazioni necessarie ad integrare la volontà del richiedente, ma anche a quell’attività di natura contenziosa che, di norma, viene trattata in camera di consiglio”.

[4][4] Tra i più noti e/o rilevanti si possono tuttavia ricordare i procedimenti relativi a:

modifica delle condizioni di separazione (710 cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 1, l. 29 luglio 1988, n. 331);

modifica delle condizioni di divorzio (art. 9 legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sost. dall’art. 13 l. 6 marzo 1987, n. 74);

attribuzione di quota di pensione e di indennità di fine rapporto lavorativo;

dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale;

dichiarazione di adottabilità (artt. 8, 9, 11 e 12 L. n. 184/1983);

opposizioni a dichiarazioni di adottabilità (art.17 L. n. 184/1983);

ricorso al giudice del registro contro il rifiuto d’iscrizione nel registro elle imprese (art. 2189 e 11, 12° e 13° comma, D.P.R. 7 dicembre 1995 n. 581);

opposizione avverso il provvedimento di rigetto espresso o tacito del garante della privacy ex lege 31 dicembre 1996, n. 675;

giudizio preventivo di ammissibilità dell’azione di responsabilità civile dei magistrati ex lege 13 aprile 1988  n. 117;

processo per l’equa riparazione in caso di violazione del termine di durata ragionevole (art. 2 legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. legge Pinto)

ricorso contro il decreto di espulsione (art. 13, comma ottavo D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 289, T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, come modificato dall’art. 12 legge 30 luglio 2002, n. 189);

procedimento di convalida del trattenimento dello stranieto (art. 14 T.U. cit.);

ricorso avvero il diniego al nulla osta al ricongiungimento familiare dello straniero (art. 30 T.U. cit.);

ricorso per la liquidazione degli onorari e dei diritti dell’avvocato (artt. 29 e 30 legge 794/1942);

ricorso avverso il decreto di liquidazione di compenso del C.T.U. (art. 11, legge  8 luglio 1980, n. 319, ora trasfuso nell’art. 170 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia));

procedimento disciplinare contro notai;

procedimenti relativi agli ordini professionali (iscrizione,  elezione, impugnazione contro provvedimento disciplinare, etc.);

liquidazione degli onorari di curatori, amministratori, arbitri;

disposizioni in materia di riabilitazione civile del debitore protestato (art. 17 L. 108/96);

reclamo avverso il rifiuto del conservatore di procedere alla cancellazione di ipoteca (artt. 2888 c.c. e 113 disp.  att. c.p.c.).

Menzione a parte merita poi la disciplina degli “ordini di protezione contro gli abusi familiari” di cui alla legge 4 aprile 2001, n. 154, sulle misure di protezione contro la violenza nelle relazioni familiari, che ha introdotto – con gli artt. 342-bis e ter cod. civ. e 736-bis cod. proc. civ., un procedimento idoneo ad incidere sul diritto fondamentale di libertà, finalizzato com’è all’adozione di ordini di allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente o di altro componente del nucleo familiare, assistito da sanzione penale. Benché la stessa relazione governativa al disegno di legge parli di procedimento che “si inquadra tra i procedimenti camerali contenziosi” è forse più corretto il suo inquadramento nell’ambito della tutela camerale risolutiva di conflitti, per molti versi analoga a quelle già previste in materia di potestà genitoriale “che la legge ha introdotto tipizzando, in presenza di condotte pregiudizievoli all’integrità fisica o morale o alla libertà del coniuge (o di altro familiare) o del convivente, il contenuto del provvedimento camerale, diretto a tutelare il diritto di ciascuno di questi soggetti non nella sua integrale estensione, ma con riferimento ai beni fondamentali qui tutelati”. Infatti, “come ogni provvedimento camerale anche quello in esame si caratterizza per la sua inidoneità al giudicato sostanziale, qui esaltata dall’espressa previsione normativa circa la durata degli effetti, la quale determina la caducazione automatica del provvedimento una volta decorso il termine fissato dal giudice e comunque quello imposto dalla legge”: cos’ ARIETA, in MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, II, 2, Padova 2002, cap. 167, par. 1123

[5][5] Sul tema la bibliografia è amplissima. Tra i testi più citati v. A. PROTO PISANI, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c., in Rivdir. civ., 1990, I, pp. 393-458, sp. pp. 395-401 (nonchè in M. G. CIVININI, I procedimenti in camera di consiglio, vol. I, Torino, 1994, pp. 6-11); E. FAZZALARI, Uno sguardo storico e sistematico (ancora sul procedimento camerale e la tutela dei diritti), di V. DENTI, I procedimenti camerali come giudizi sommari di cognizione: problemi di costituzionalità ed effettività della tutela, di E. GRASSO, I procedimenti camerali e l’oggetto della tutela, e di L. LANFRANCHI, I procedimenti camerali decisori nelle procedure concorsuali e nel sistema della tutela giurisdizionale dei diritti, in Atti del XVII Convegno Nazionale, Palermo 6-7 ottobre 1989, sul tema “I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti”, Quaderni dell’Associazione fra gli Studiosi del processo civile, vol. XLV, Milano, 1991, pp. 11-30, 12-47, 49-87, 89-152. Ed ancora: G. ARIETA, Giurisdizione camerale e sindacato contenzioso, in Riv. dir. proc., 1995, pp. 1039-1088, A. CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. Dir. Civ. 1987, I, 431 ss., in partic. 470 ss., 478, 479 (ora in Studi di diritto processuale civile, Padova, 1992, pp. 46-95, sp. pp. 57 ss., 90 ss.); DENTI, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Studi in onore di E: Allorio, vol. I, Milano, 1989, pp. 181-196 (nonchè in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, pp. 325 ss.); D. MALTESE, Giurisdizione volontaria, procedimento camerale tipico e impiego legislativo di tale modello come strumento di tutela di diritti soggettivi, in Giur. it., 1986, IV, 127 ss; FAZZALARI, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc., 1988, pp. 909-920; Id., I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, in Giur. it, 1990, IV, 426 ss.; LANFRANCHI, La cameralizzazione del giudizio sui diritti, ivi, 1989, IV, 33 ss.; MANDRIOLI, C.d.“procedimenti camerali su diritti” e ricorso straordinario per cassazione, in Riv. dir. proc., 1988, pp. 921-931. V. anche MONTELEONE, Camera di consiglio (Diritto processuale civile), in Noviss. Dig. It.Appendice, I, Torino 1980, 986-987; LANFRANCHI, La roccia non incrinata. Garanzia costituzionale del processo civile e tutela dei diritti, Torino 1999, 13, 57 ss., 85, 136; CHIZZINI, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova 1994, 174 ss.

[6][6] Nel senso che l’ultimo comma dell’art. 739 c.p.c. vada interpretato nel senso di escludere, per i procedimenti camerali propriamente tali, il ricorso per Cassazione v. in dottrina MICHELI, voce Camera di consiglio in End. Dir. , Milano 1959, p. 994; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli 1964, 454 s.; CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1945, II, 15; ALLORIO, Saggio polemico sulla giurisdizione volontaria. Problemi di diritto, Milano, 1957, I, 3; FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1986,  p. 439; LIEBMAN, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, in Foro it. 1948, I, c. 451 s.; MONTESANO, Sulla efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. Dir. Civ 1986, I, p. 591 ss.; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, 2, Milano 1959, 41

[7][7] A cominciare da Cass., sez. un. 30 luglio 1953, n. 2593 in Foro it. 1953, I, 1249 e in Giur. It. 1954, I, 1, c. 453, in tema di procedimento per la liquidazione di onorari di avvocato (artt. 28 – 30 legge n. 794/1942)

[8][8] In tal senso v., oltre alla già citata sentenza n. 202/75, Corte cost. 1 marzo 1973, n. 22 in Foro it. 1973, I, c. 1344; 6 dicembre 1976, n. 238 ivi 1977, I, c. 278; 24 marzo 1986, n. 55, ivi 1986, I, c. 1168; 16 aprile 1985, n. 103, ivi 1986, I, c.888; 14 dicembre 1989 n. 543 e 23 dicembre 1989 n. 573 ivi 1990, I, c. 365 ss., queste ultime in tema di procedimento d’appello avverso la sentenza che pronuncia sulla separazione o sullo scioglimento del matrimonio

[9][9] Cass., sez. un., 19 giugno 1996 n. 5629, Pres. Sgroi, Est. Carbone, in Foro it.1996, I, 1, c. 3072, con nota di CIVININI; Giur. It. 1996, I, 1, c. 1301, con nota di CARATTA; Giust. Civ. 1996, 1, p. 2208 con nota di GIACALONE. Nello stesso senso Cass. sez. un. 5 agosto 1996, n. 7170, in Guida al dir. 1996, 30.

[10][10] Come è stato osservato, la Suprema Corte, affermando la ricorribilità per Cassazione dei provvedimenti camerali decisori e definitivi, “anziché scegliere la via dell’incidente di legittimità costituzionale, ha imboccato la via della dissapplicazione diretta e immediata di tute le norme in contrasto col precetto costituzionale di cui si è affermata l’immediata portata precettiva e l’efficacia abrogante delle prime”: così CIVININI, in Codice di procedura civile commentato (a cura di Vaccarella e Verde), Libro IV, sub art. 737, Torino 1997, p. 615 e ivi altri Autori citati.

[11][11] Nota incisivamente al riguardo MONTELEONE, Diritto processuale civile, 2^ ed., Padova 2000, p. 1225: “… quando il procedimento camerale viene distolto dal suo oggetto e trasferito alla materia contenziosa, deve subire i necessari adattamenti alle garanzie ineliminabili nella giustizia civile, che sono pure costituzionalmente presidiate. Esso viene, quindi, notevolmente alterato rispetto al suo ordinario schema, anche perché non sarebbe sufficiente il solo cappello del ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost. per legittimare, infine, ciò che legittimo non è. Ma allora la c.d. «cameralizzazione» diventa inutile, perché di fatto con gli adattamenti in discorso ci ritroviamo di nuovo con un processo ordinario”. V. anche, in tal senso, ivi citati, CERINO CANOVA, Per la chiarezza di idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, p. 478; ATTARDI, Diritto processuale civile, I, pp. 43-44.

[12][12] «Quando … si è in presenza di forme di tutela giurisdizionale che sono dirette ad apprestare generali rimedi giurisdizionali per singole categorie di diritti soggettivi e che, al contempo, sono incompatibili con il regime di instabilità tipico del provvedimento camerale ed idonee, anzi, ad acquisire i normali effetti di giudicato sostanziale, la sottoposizione delle stesse alle forme camerali – per ragioni il più delle volte inespresse, ma consistenti, di norma, in esigenze di celerità e speditezza del procedimento – non è di per sé e non può essere in grado di trasformare la natura della tutela da normale a camerale, ma solo a sottoporla ad un rito speciale, quale quello camerale», MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, vol. II, tomo I, Padova 2002, cap. 101, par. 611.

[13][13] COSTANTINO, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “giusto processo civile”. Le garanzie, in CIVININI – VERARDI (a cura di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile (atti del convegno organizzato dalla Rivista Questione Giustizia a Procchio – Isola d’Elba, 9-10 giugno 2000), Edizioni Franco Angeli, Milano, 2000, pag. 258 s.

[14][14] COSTANTINO, op. loc. cit.; CIVININI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “giusto processo civile”, Le garanzie, in CIVININI – VERARDI (a cura di)., Il nuovo articolo 111, cit., pag. 271 ss. PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it. 2000, fasc. 10, parte V, c. 242 ss., anche in CIVININI-VERARDI (a cura di), Il nuovo articolo 111, cit. , Relazione conclusiva, pag. 320. V. anche, per il procedimento camerale a tutela degli interessi di minori, PROTO PISANI, Garanzia del giusto processo e tutela degli interessi dei minori, in Questione Giustizia 2000, fasc. n. 3. In senso contrario CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, in Riv. dir. proc., 2000, 1010 ss., ora anche in CIVININI – VERARDI (a cura di), Il nuovo articolo 111, cit., pagg. 18 – 19, secondo il quale l’inciso in questione vale semplicemente a porre una riserva di legge ma non anche a impedire l’attribuzione al giudice di un potere discrezionale più o meno accentuato sul processo. Ciò anche in ragione della difficoltà di pretendere una regolazione analitica di ogni singolo passo della procedura o, comunque, di delineare un confine tra poteri assegnabili al giudice e poteri non assegnabili. Analogamente TROCKER, Il valore costituzionale del “giusto processo”, in CIVININI – VERARDI (a cura di), Il nuovo articolo 111, cit., pagg 40 s. (e ivi altri Autori, citati alla nota 15) il quale esclude che dalla formula in questione debba inferirsi che “per i processi giurisdizionali sia sempre richiesta una rigida predeterminazione normativa delle forme, delle fasi e delle scansioni cronologiche delle attività processuali”. Nello stesso senso PIVETTI, Per un processo civile giusto e ragionevole, in CIVININI-VERARDI (a cura di), Il nuovo articolo 111, cit., p. 66. V. anche COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del «giusto processo», in Nuova Giur. Civ. Comm. 2001, II, p. 58 ss., secondo il quale non è necessario che ogni processo trovi nella legge “una regolamentazione analitica e (tendenzialmente) completa delle diverse situazioni di diritto, di potere e di dovere, in esso configurabili” essendo però necessario che la legge quanto meno realizzi quelle “garanzie minime” che sono necessarie e sufficienti perché qualunque tipo di processo possa definirsi equo giusto. Sulla base di tali premesse, l’A. però condivide i dubbi di costituzionalità del modello camerale, in assenza di una sufficiente predisposizione per legge di dette garanzie minime. Sotto altro profilo, ARIETA, in MONTESANO-ARIETA, Trattato cit., cap. 149, par. 1007, rileva che la tesi dell’incompatibilità del rito camerale con la previsione costituzionale del giusto processo regolato dalla legge omette di considerare che lo stesso va in realtà essenzialmente correlato alla sua funzione tipica di strumento di volontaria giurisdizione per la quale assume rilievo “l’indispensabile e contestuale valutazione degli interessi pubblicistici, e comunque superindividuali, in gioco, che, per essere adeguatamente apprezzati dal giudice, impongono l’attribuzione allo stesso di poteri di inquisitoria ricerca anche delle fonti di prova, oltre che di disponibilità del mezzo di prova: il superamento del principio di allegazione (inteso come potere monopolistico delle parti di introdurre nel processo, ed anche selezionare, i fatti storici oggetto dell’accertamento giurisdizionale) è qui imposto proprio dalla necessità di consentire al giudice l’apprezzamento di ogni circostanza utile alla decisione”.

[15][15] Così CIVININI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “giusto processo civile”, Le garanzie, cit., p. 275. Il carattere innovativo della previsione è colta anche da altri Autori, ancorché non sempre con le inferenze di cui nel testo in ordine alla (il)legittimità dei forti poteri inquisitori propri del rito camerale per la tutela dei diritti o status. In particolare, TROCKER (op. ult. cit.), che pure nega, come visto, simili profilii di incompatibilità, sottolinea l’apporto innovativo della nuova formulazione dell’art. 111 Cost., proprio nell’enunciazione del principio di imparzialità del giudice, oltre che nella costituzionalizzazione del canone della ragionevole durata del processo e nella stessa introduzione della nozione sintetica di giusto processo quale espressione della “unitarietà dell’insieme delle garanzie processuali e (del) loro significato ‘relazionale’”, tale per cui il “diritto fondamentale dell’individuo ad un giusto processo non si cristallizza, né tanto meno si esaurisce, in garanzie singole, ma si basa sul necessario coordinamento di più garanzie concorrenti”.

[16][16] RONCO, L’azione di condanna all’equa riparazione e la disciplina del procedimento, in AA.VV., Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi. Commento alla legge 24 marzo 2001, n. 89, Torino 2002, p. 252 s., il quale sottolinea il fenomeno per cui “proprio una delle prime leggi (la c.d. legge Pinto) chiamate a dare effettività al (o, quantomeno, a sanzionare il) precetto sulla ragionevole durata del processo sarebbe incappata nel vizio di scegliere una regolamentazione del rito in odore di contrasto con la lettura secondo cui la riserva di legge in materia processuale andrebbe intesa come imposizione di una disciplina legislativamente sufficientemente dettagliata ed inibitrice dell’esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice

[17][17] Corte Cost. 16 gennaio 2002 n.1 in Guida al diritto 2002 fasc.9, p. 24 ss. con nota (critica) di G. FINOCCHIARO, La legittimità del sistema sembra vacillare dopo l’introduzione del «Giusto processo».

[18][18] È stato tuttavia condivisibilmente osservato, sul punto, che un conto è l’ineliminabile attività di interpretazione delle leggi , altro è invece l’attività di diretta creazione della regola processuale da applicare (G. FINOCCHIARO, op. uilt. cit. p. 35).

[19][19] In Corr. giur. 2001, 1023 con commento di MARINELLI, Immigrazione e processo, tra efficienza e garanzie di tutti

[20][20] Il riferimento è, in tema di terzietà e imparzialità del giudice, ai già numerosi interventi che ne negano la violazione: a) nella partecipazione dei componenti del collegio che ha dichiarato il fallimento al successivo  giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento (Cass. Civ. Sez. I, 19 settembre 2000,  n. 12410, in Foro it.2001, fasc. 1, parte I, c. 113 ss. con nota critica di SCARSELLI,  Brevi note sul giusto processo fallimentare, ed in Dir. Fall. 2001, p. 685 con nota di DI LAURO, Come  la  Cassazione non si adegua al monito della consulta in tema di incompatibilità del giudice ex art. 51 n. 4 cod. proc. civ. V. anche, in precedenza, Cass. 23 ottobre 1998 n. 10527, Pres. Rocchi, Est. Criscuolo, P.M. (conf.) Frazzini (in Foro it. 1998, I, c. 3033); b) nella norma di cui all’art. 98 l. fall., in punto di attribuzione al giudice delegato al fallimento delle funzioni di istruttore della causa di opposizione allo stato passivo (Cass. 7 marzo 2001, n. 2372; 15 marzo 2001 n. 3753 in Il fallimento 2002, fasc. 4, p. 376 ss. con commento di IANNELLO, Opposizione allo stato passivo e imparzialità del giudice al vaglio della Suprema Corte; Cass. 27 aprile 2001 n. 6113 in Guida al Diritto 2001, fasc. 29, pag. 42 s.; c) nella partecipazione  del giudice delegato, quale relatore, al collegio del  tribunale  fallimentare  che  decide  su  reclami contro i provvedimenti del  medesimo giudice delegato (Cass. Civ. Sez. I, 16.3.2001, n. 3831, Pres. Reale – Rel. Panebianco – Pm (conf) Schirò, in Il fall. 2001, 1011, con commento di MINUTOLI, Reclamo endofallimentare e giusto processo ex art. 111 Cost. ;  Cass. Civ. Sez. I, 25.1.2001, n. 1072 Pres. Losavio; Rel. Celentano; Pm (conf) Cinque; 4.1.2001, n. 70, Pres. Reale; Rel. Plenteda; Pm (conf) Apice, entrambe in Il fall. 2001, 1005 ss., con commento di FINARDI, Giusto processo fallimentare: attesa o scelta?). Su questi stessi temi in piena sintonia anche la Corte Costituzionale che, infatti: a) con ordinanze n. 202 del 19 marzo 2002 e n. 167 del 28 maggio 2001 (In Giust. Civ. 2001, fasc. 6, parte I, p. 1441 con nota di TISCINI, Nuove  conferme  della (immutata) giurisprudenza costituzionale in tema di terzietà e imparzialita’ del giudice; in  Foro it. 2001, fasc. 12, parte I, c. 3450 ss. con nota di COSTANTINO, «Giusto processo» e procedure concorsuali; in Giur. it., 2001, con nota di DIDONE, Giusto processo, imparzialità del giudice e opposizione allo stato passivo: la Consulta non ci ripensa)  ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale  degli artt. 98 e 99 l. fall.; b) con ordinanza n. 176 del 31 maggio 2001 (in Foro it. 2001, fasc. 12, parte I, c. 3450 ss., anch’essa annotata da COSTANTINO, «Giusto processo» e procedure concorsuali) ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che il giudice delegato al fallimento, il quale abbia autorizzato il curatore a promuovere contro gli amministratori della società fallita azione di responsabilità nonché il sequestro dei beni degli amministratori medesimi, debba astenersi dal giudicare nella causa medesima, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost.

[21][21] Al riguardo v. FABBRINI, voce Potere del giudice, in End. del dir., vol. XXXIV, Milano 1985, p. 721 ss., citato da PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, cit., c. 243 e p. 321; CIVININI, Poteri del giudice e poteri delle parti nel processo ordinario di cognizione. Rilievo ufficioso delle questioni  e contraddittorio, in Foro it. 1999, V, 1 ss., spec. 5 ed ivi ult. riff.; ID., Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “giusto processo civile”, Le garanzie, cit. p. 275 ss. PROTO PISANI, Usi e abusi, cit., p. 435

[22][22] COSTANTINO,op. cit., p. 261, nota 10

[23][23] V. da ultimo Cass. 8 marzo 1999, n. 1947 in Foro it. Rep. 1999, voce Camera di consiglio, n. 9

[24][24] PUGLIATTI, voce Conoscenza, in Enc. del dir. vol. IX, Milano 1961, pagg.50, 106-107, alle cui intensissime pagine richiama CIVININI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione, cit. p. 275, nota 16.

[25][25] Così CIVININI, op. loc. ult. cit.

[26][26] V. ancora CIVININI, op. ult. cit., p. 276 ss.; PROTO PISANI, Procedura camerale e tutela dell’interesse dei minori, in Foro it., 1996, V, 65; ID., Per un nuovo modello di processo minorile, ivi, 1998, V, 124; ID., Garanzia del giusto processo e tutela degli interessi dei minori, in Questione Giustizia 2000, p. 467 ss.; ID., Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, ibidem., c. 242 e p. 320. A difesa invece del modello camerale e, comunque, di un ruolo più penetrante del giudice nella ricerca della verità, a tutela di interessi sopraordinati e non compiutamente tutelabili in un procedimento affidato esclusivamente all’impulso di parte, v. in materia minorile, DUSI, L’artitolo 111 della Costituzione e le procedure minorili in camera di consiglio, in CIVININI – VERARDI  (a cura di), Il nuovo articolo 111, cit., pagg 298 ss.; ID., Procedura camerale e tutela degli interessi dei minori: ansie ed attese per un nuovo modello di processo minorile (relazione  svolta  nell’incontro di studi  C.S.M. in tema di Diritto minorile – Frascati 29 novembre – 1 dicembre 1999), con incisive osservazioni circa la presenza, nei processi minorili, “non tanto di parti contrapposte, ma di relazioni familiari tra il bambino e l’adulto, che vanno affrontate con l’obiettivo – e, comunque, con l’impegno – di cogliere la realtà nella sua “verità”, facendola emergere dalle pieghe più nascoste e dalle motivazioni più profonde e contraddittorie; una relazione che ai suoi due poli ha non tanto l’uno e l’altro genitore, ma ognuno di essi ed il figlio”; F. TOMMASEO, Processo minorile,  forme camerali e mistica del giusto processo, in Famiglia e diritto, n. 3/2001; CECCARELLI, La giustizia  minorile dopo  la legge n. 149/2001, in Questione Giustizia 2001, fasc. 5, p. 874 ss., la quale tuttavia osserva che “se  la giustizia minorile non può essere neutra rispetto al valore fondamentale che è chiamata a tutelare, deve tuttavia porsi il problema di comporre in un modello unitario le sue diverse funzioni di efficiente tutela del bene oggetto di protezione da parte dell’ordinamento e di garanzia di un altro bene che pure gode di protezione legale e cioè il diritto dei genitori a non vedersi limitati, senza gravi e comprovati motivi, nell’esercizio della potestà. In questa complessa e difficile impresa la giustizia minorile è esposta al rischio di cedere a tentazioni autoritarie e sostanzialistiche in nome dell’interesse del minore e talora non ha saputo sufficientemente sottrarvisi … . I giudici minorili … non possono far a meno di tenere conto a pieno delle ragioni di tutti i soggetti coinvolti poiché, essendo chiamati a incidere sulle relazioni interpersonali ed in particolare su quella primaria tra figli e genitori, non dare ascolto a ciascun attore del dramma potrebbe significare raggiungere risultati pericolosi per lo stesso minore, quali sarebbero ad esempio decisioni basate su scelte ideologiche o convinzioni personali dei giudici o degli operatori dei servizi di tutela dell’infanzia, anziché su un esame spassionato e rigoroso delle singole realtà personali e familiari. In questo senso il processo minorile non può che essere “giusto” se non vuole fallire il suo obiettivo e questo vale da sempre, ben prima dell’entrata in vigore del nuovo art. 111 della Costituzione”. In materia fallimentare v. ABETE, Brevi note a difesa dell’iniziativa d’ufficio ex art. 6 legge fall.in Fallimento e giusto processo” Atti del Convegno nazionale di studi – Alba, 24 novembre 2001, in http://www.fallimentonline.itsecondo il quale l’iniziativa d’ufficio nella dichiarazione di fallimento, e quindi l’evidente  sacrificio in tale fondamentale aspetto della disciplina, della terzietà del giudice, in quanto strumento di effettiva tutela della par condicio creditorum, è non solo da mantenere ma è espressione essa stessa di un ruolo autenticamente neutro  della giurisdizione e ossequioso del principio cardine di cui all’art. 3, comma 2, della Costituzione. L’indisponibilità della materia e degli interessi coinvolti, giustificherebbe pertanto la deroga al principio della domanda nella fase anteriore all’apertura della procedura concorsuale. Dello stesso A., v. pure Spunti a sostegno della lettura «costituzionale» delle norme «incriminate» (commento a Corte Cost. ord. 23 maggio 2001 n. 167 e 31 maggio 2001, n. 176), in Il fall. 2002, fasc. 4, p. 359 ss..Molto più cauto FABIANI (Giusto processo e ruolo del giudice delegato, ibidem, cui pure si rimanda per la completa analisi di tutti gli aspetti, sia sostanziali che processuali, e le contraddizioni della crisi in atto della disciplina concorsuale dell’insolvenza), secondo il quale l’esigenza di tutela, innegabile in ambito fallimentare, di interessi superindividuali, non necessariamente comporta deroga al principio di terzietà e imparzialità e può trovare un adeguato impulso nel pubblico ministero,  escamotage questo che potrebbe risolvere tecnicamente il problema della neutralità del giudice. Possibilista ma sostanzialmente critico sul punto CHIARLONI (Giusto processo e fallimentocit. ), che rileva come “la dichiarabilità d’ufficio rappresenta un’opportuna semplificazione quando si tratti di estendere il fallimento per esempio al socio tiranno o a quello illimitatamente responsabile. Ma, se la cosa non piace nei minimi termini in cui viene praticata, o se si temono abusi che forse potrebbero verificarsi togliamola pure di mezzo. Avremo un giro di carte tra giudice fallimentare e P.M. che ritornerà al giudice la richiesta di estensione del fallimento e qualche ora di (inutile) impegno lavorativo in più. Pazienza, ma almeno il formalismo delle garanzie avrà segnato un punto a favore”. Più in generale, sul ruolo del giudice civile e  sul reale valore del concetto di imparzialità come garanzia delle regole del processo, si rimanda a CIVININI, Il nuovo articolo 111, cit. p. 272 ss.

[27][27] Al riguardo v. COSTANTINO, Il nuovo articolo 111, cit. p. 268.

[28][28] Con efficace metafora ferroviaria è stato osservato che “un conto … è far viaggiare su un binario privilegiato soltano alcuni treni, così da levarli adlla congestione del traffico ordinario; un altro è convogliare tutti i treni su queste nuove rotaie. Tutto lascia supporre che, in questo secondo caso, si riprodurrebbe sulla nuova linea la medesima situazione che si aveva precedentemente sui binari  consueti”: RONCO, op cit. p. 256.

[29][29] La dottrina ha di ciò ormai acquisito piena consapevolezza. “È opinione diffusa che solo facendo in modo che ogni giudice non abbia più di cinquecento processi a cognizione piena sul ruolo, è pensabile che possa assicurare lo svolgimento dei relativi processi anche cautelari in tempi ragionevoli; sono poi da considerare i processi esecutivi, i procedimenti per ingiunzione, i procedimenti camerali, ecc. per la cui trattazione, almeno nei grossi uffici giudiziari, devono essere designati magistrati ulteriori. … I procedimenti a cognizione piena pendenti innanzi ai giudici togati di tribunale nell’ultimo anno di riferimento (luglio 2000 – giugno 2001) erano però circa 2.200.000 (dedotte le pendenze innanzi ai g.o.a.). Ciò significa che – senza considerare gli ulteriori compiti in materia esecutiva, cautelare, sommaria, volontaria, ecc. – ciascuno dei 2.200 giudici  togati di primo grado è chiamato a gestire un ruolo di oltre 1.000 processi a cognizione piena” (così PROTO PISANI, Attualità e prospettive per il processo civile, in Foro it. 2002, V, c. 3, con conseguenti proposte di tipo organizzativo e ordinamentale). V. anche VERARDI, Articolo 111 della Costituzione e tempi del processo civile, in CIVININI –VERARDI (a cura di), Il nuovo articolo 111, cit., p. 113 ss.; CIPRIANI-CIVININI-PROTO PISANI, Una strategia per la giustizia civile nella XIV legislatura, in Foro it. 2001, fasc. 4, parte V, c. 81; LAZZARO, La ragionevole durata del processo civile e la terzietà del giudice nella riforma dell’art. 111 della Costituzione, in Giust. Civ. 2000, fasc. 6, parte II, p. 293 ss

[30][30] CIVININI, Il nuovo art. 111 della Costituzione, cit., p. 278

[31][31] Secondo Cass. 23 novembre 1994, n. 9913, l’art. 82 c.p.c. fissa i requisiti di idoneità delle parti a stare in giudizio e, pertanto, regola in via generale le condizioni per l’inserimento delle parti stesse in relazione a qualsiasi tipo di processo, cognitivo, esecutivo o camerale

[32][32] Cass. 30 dicembre 1989, n. 5831 in Foro it., 1990, I, 1238; Cass. 16 maggio 1990, n. 4260 in Giust. Civ., 1991, 111; Cass. Sez. unite 1 marzo 1988, n. 2146

[33][33] Trib. Monza 23 aprile 1990 in Nuova giur. civ. comm. 1991, I, p. 84 e in Foro it.1991, I, c. 628, con nota critica di CIPRIANI . V. anche dello stesso A., Ostracismo per il procedimento camerale di divorzio, in Giur. It. 1989, I, 2, p. 53

[34][34] Cass. 24 giugno 1989, n. 3099, in Foro it., 1989, I, 2138; Cass. 29 maggio 1990, n. 5026, in Dir. fam. e pers., 1990, 1152. V. anche App. Firenze 24 marzo 1994 in Fam. Dir. 1994, p. 538 con nota di CARBONE

[35][35] In argomento v. OBERTO, Sulla necessità del patrocinio legale nei ricorsi congiunti per separazione e divorzio, in Fam. dir. 2001, 336 e ss.

[36][36] V. Cass. 30 luglio 1996, n. 6900 secondo cui  “qualora il procedimento camerale tipico, disciplinato dagli art. 737 ss. c.p.c., sia previsto per la tutela di situazioni sostanziali di diritti o di status – come avviene, ex art. 5, comma 4, legge n. 117 del 1988 per il procedimento di ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie – esso deve essere completato con le forme adeguate all’oggetto, tra le quali rientra il patrocinio di un procuratore legalmente esercente; con la conseguenza che il reclamo avverso provvedimento in camera di consiglio sottoscritto da procuratore esercente extra districtum e da altro abilitato nel distretto ma indicato solo come domiciliatario, se non è seguito dalla costituzione in giudizio di procuratore esercente nel distretto e menzionato nella procura, è affetto da nullità insanabile”.

[37][37] Cass. 27 giugno 1997, n. 5770 in Giust. Civ., 1998, I, 839;

[38][38] V. Cass., 1^ sez. civ., 16.5.1990 n. 4260; Cass., 1^ sez. civ., 29.5.1990, n. 5025; Cass., 1^ sez. civ., 30.12.1989 n. 5831, in Foro it. 1990, I, c. 1238 ss.

[39][39] App. Firenze 31 marzo 2000 in Dir. eccl. 2000, II, 244

[40][40] Cfr. Trib. Busto Arsizio 31 marzo 1999 in Giur. Merito 1999, 708

[41][41] PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano 193, p. 114; contra MONTESANO-ARIETA, Trattato, cit., I, 2, cap. 137, par. 901.

[42][42] Trib. Milano, 18 febbraio 1991 in Giur. It. I, 2, p. 359 con nota di MONTANARI

[43][43] Ex multis Trib. Torino 10 febbraio 1990 in Il fall. 1990, p.752

[44][44] “L’iniziativa del creditore costituisce, infatti, solo una delle possibili fonti di impulso, anche se largamente prevalente rispetto a quelle concorrenti del debitore, del pubblico ministero o d’ufficio dallo stesso tribunale fallimentare, per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore commerciale (non piccolo) insolvente. Il creditore che chiede la dichiarazione di fallimento non assume, d’altro canto, il ruolo  di  parte in senso pieno, ma esprime una sorta di legittimazione minore, che non consente di ritenere che la procedura sia un vero e proprio processo di parti, come tale dominato da un rapporto di causalità necessaria tra la domanda della parte e la pronuncia del giudice: e ciò in quanto il creditore non è al riguardo titolare di una posizione di diritto soggettivo”: PATTI A., L’istanza di fallimento nella prospettiva di recupero del credito, in  Il fall. 1998, p. 1201. V. anche, da ultimo, con ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza, ORIFICI, L’istruttoria prefallimentare: l’iniziativa, il contraddittorio, l’organizzazione dell’udienza, i decreti di rigetto(relazione svolta all’incontro di studi CSM tenuto a Roma dal 21 al 23 ottobre 2002

[45][45] Secondo Trib. Roma 19 agosto 1998, in Giur. it. 1999, 2084

[46][46] Cass. 4 febbraio 1999, n. 972, in Il fall. 1999, fasc. 12, p. 1337, con riferimento a ricorso per la dichiarazione di fallimento; Cass. 10 maggio 1995, n. 5119, con riferimento a giudizio possessorio; Cass. 16 giugno 1987 n. 5310, con riferimento al processo del lavoro. Critico verso tale orientamento PROTO PISANI (In tema di disciplina delle nullità causate da difetto (o da vizi) della difesa tecnica, in Foro it. 1990, I, c. 1240 ss.), secondo il quale “la lacuna costituita dalla mancanza di disciplina della nullità causata dal difetto del requisito extraformale della difesa tecnica dovrà essere colmata (in via di analogia legis, o, più probabilmente, di analogia iuris) ai sensi dell’art. 12 preleggi tramite l’applicazione del principio generale della sanabilità in via retroattiva anche di vizi di tale specie ove l’atto nullo (per difetto o vizio nella difesa tecnica) sia rinnovato entro il termine perentorio all’uopo fissato dal giudice”.

[47][47] Cass. 23 luglio 1997, n. 6894; Cass. 9 luglio 1993, n. 7569

[48][48] Cass. 11 dicembre 1980, n. 6388 in Giust. civ. 1981, I, 489

[49][49] Cass. 27 marzo 1998 n. 3222; 28 marzo 1997, n. 2797; 7 febbraio 1995, n. 1401; v. anche Cass. 4 febbraio 2000, n. 1213; Cass. 10 maggio 1999, n. 4631

[50][50] V. Cass. sez. un. 16 febbraio 2001, n. 2263; 28 settembre 2000, n. 1045

[51][51] Cass., sez. un. civili, 14 giugno 2000, n. 434; v. anche Cass., sez. un. penali, 6 dicembre 1999, n. 25, Di Dona; Cass., 1^ sez. pen., 11 novembre 1999, n. 5568, Tambara, in Cass. Pen. 2000, fasc. 5, p. 1167

[52][52] In questo senso Cass. 8 novembre 1997, n. 11022, in Fam. dir. 1998, 180; v. anche Cass. 7 luglio 2001, n. 9266; Cass. 15 marzo 1996, n. 2184; Cass. 10 aprile 1995, n. 4143;

[53][53] Ex multis Cass. 16 luglio 2002, n. 10293

[54][54] Cass. 16 luglio 1997, n. 6493

[55][55] Sentenza n. 9322 del 18 settembre 1998, inedita

[56][56] Cfr. Cass. 15 luglio 1980, n. 4546, Foro it., Rep. 1980, voce Matrimonio n. 199, secondo la quale “qualora il procedimento (per la revisione dell’assegno di divorzio) si sia svolto con il rito ordinario, anziché con quello camerale, le parti non possono dolersi della mera diversità del rito, qualora non specifichino le violazioni dei loro diritti so@stanziali e processuali che da ciò siano loro derivate,  come, ad es.,  quando la difformità del rito abbia inciso sulla determinazione della competenza o sul regime delle prove”. V. anche, con riferimento alla domanda di modifica  delle condizioni di separazione ex art. 710, Trib. Monza, 11 settembre 1989 in Foro it. 1990, I, c. 2638; Trib. Monza 19 dicembre 1981, Foro it., Rep. 1983 voce Matrimonio, n. 281 e Giur. merito, 1983, 359; ancora nello stesso senso, v. Trib. Monza 19 novembre 1986, Foro it., Rep. 1987, voce cit., n. 214 e Dir. famiglia, 1987, 275. V. anche, con riferimento a controversia per la designazione del successore o del subentrante all’assegnazione di terre di riforma agraria ex art. 7 l. 3 giugno 1940 n. 1078, Cass. 3 giugno 1991, n. 6254, in Giust. Civ., 1991, I, 2957, secondo cui “ove il tribunale, invece che con il procedimento in camera di consiglio, previsto espressamente dalla legge  … venga adito con il rito ordinario e il procedimento venga concluso con sentenza, nessuna nullità è ipotizzabile, sia perché non sancita da alcuna norma, sia perché le parti non vedono sminuiti né le proprie garanzie di difesa, né il diritto ad un completo contraddittorio

[57][57] Trib. Messina, ord. 15 luglio – 11 agosto 1999, inedita

[58][58] CIVININI, I procedimenti in camera di consiglio, Torino 1994, p. 109

[59][59] Cass. 25 luglio 1997, n. 6951; Cass. 4 maggio 1991, n. 4924.

[60][60] Per il rito del lavoro v. Cass., sez. un., 25 ottobre 1996 n. 9331 e successive conformi.

[61][61] In tal senso, con riferimento al procedimento camerale di appello avverso la sentenza di divorzio, v. Cass. 15 settembre 2000, n. 12182 in Dir. e giust. 2000, 25, con nota di Dosi. V. anche Cass. 22 aprile 1981 n. 2383, in Giust. Civ. 1982, I, p. 1025. L’interpretazione è stata avallata anche da Corte Cost. 23 dicembre 1989, n. 573 in Foro it 1990, I, c. 365. Ma v., in senso parzialmente difforme, con riferimento allo stesso procedimento, Cass. 21 novembre 1998, n. 11774, secondo cui la  natura ordinatoria del termine presidenziale fissato, ex art. 154 c.p.c., per  la  notificazione  del ricorso  e del pedissequo decreto (sul presupposto del tempestivo deposito del ricorso in appello nella cancelleria del giudice “ad quem”, ex art. 8 l. n. 74 del 1987, 324 e   325  c.p.c.)  non legittima  la parte a disattenderlo tout court, con  conseguente ingiustificata e pregiudizievole dilatazione dei tempi di  instaurazione  del  contraddittorio e di definizione del giudizio. Ne  consegue  che   la  disposizione   di cui   all’art. 154   c.p.c. va  interpretata  nel senso che l’inutile decorso del termine fissato dal  giudice  ha gli stessi effetti preclusivi di un termine perentorio, e  che risulta  del  tutto illegittima ogni eventuale proroga (richiesta  e) concessa solo dopo la sua scadenza. V. anche, nello stesso senso, App. Roma 28 marzo 1995 (in Foro it. 1996, I, 697) secondo cui l’inutile scadenza del termine, assegnato al ricorrente per la notifica alla controparte del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, costituisce inosservanza di termine ordinatorio, il quale, ai sensi dell’art. 154 c.p.c., può essere prorogato dal giudice che l’ha emesso solo a condizione che non sia ancora scaduto, che la proroga non superi la durata del termine originario e che ricorrano motivi particolarmente gravi; per ciò, l’illegittimità della proroga del termine ordinatorio inutilmente scaduto, implicita nella successiva fissazione di nuova udienza e nuovi termini, non è sanata dalla costituzione dell’appellato e, al pari dell’inutile decorrenza di un termine perentorio, è rilevabile d’ufficio. Analoghe oscillazioni si registrano in giurisprudenza con riferimento alla notifica del reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c, che com’è noto, richiama la disciplina del reclamo camerale (art. 739, 2° comma). Secondo una parte della giurisprudenza di merito, infatti, alla radicale omissione della notifica dovrebbe conseguire l’inammissibilità (Trib. Trani 6 settembre 1995 in  Foro it. 1995, I, c. 2989; Trib. Roma 23.8.1994 ibidem, 1654) o l’improcedibilità del reclamo (Trib. Salerno 8 aprile 1995). In tal senso v. anche DE PAULI, Il regime di stabilità del provvedimento : reclamo – revoca e modifica – inefficacia (relazione svolta all’incontro di studi C.S.M. sul tema “La tutela cautelare” – Roma, 14 – 16 giugno 2001). Nella giurisprudenza di merito, adesiva al primo orientamento (prorogabilità del termine anche in caso di omessa notifica e dopo la sua scadenza) v. Trib. Messina, 8 novembre 2001, Circolo c/ Chirieleison, inedita), con riferimento ad un reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., che, com’è, noto richiama l’art. 739, secondo comma.

[62][62] Da un ricerca condotta dal consiglio nazionale dei dottori commercialisti emerge che alla notifica del ricorso provvede il creditore istante in 85 casi su 133, in vista della fissazione di una udienza di comparizione, con possibilità di rinnovazione in 87 casi su 133, anche per più di una volta in 77 casi su 133 (v. ORIFICI, cit., p. 38).

[63][63] Per tali notazioni v. ORIFICI, cit. p. 39. Per un’ampia panoramica sulle conseguenze derivanti dalla omessa notifica di credito e ricorso qualora l’onere sia posto a carico del creditore, v. FERRO, L’istruttoria prefallimentare, Torino 2001, pag. 104; da ultimo v. App. Roma 8 novembre 2001 (in Dir. Fall. 2002, n. 1, II, pag. 120, con nota adesiva di DI GRAVIO) secondo cui, qualora il creditore istante ometta di notificare ricorso per fallimento e decreto del tribunale di fissazione dell’udienza di comparizione e di nomina del giudice delegato, il tribunale deve limitarsi a dichiarare il non luogo a provvedere (sul presupposto evidente della mancata instaurazione della procedura prefallimentare)

[64][64] SCHIAVON, La convocazione e l’audizione del debitore in “La dichiarazione dello stato di insilvenza e la dichiarazione di fallimento: prassi, questioni dibattute, novità legislative”, incontro di studi del CSM, Frascati 17-19 aprile 2000, di prossima pubblicazione su “Quaderni CSM” sottolinea che tale prassi, ormai quasi generalizzata, non presta il fianco ad alcuna censura, atteso che l’art. 151 cpc consente al giudice di prescrivere, con decreto in calce all’atto, che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge, quando lo consigliano circostanze particolari od esigenze di maggiore celerità. Cass. 8 gennaio 1997, n. 73, in Il fall. 1997, n. 4, pag. 406 ritiene valida la convocazione del debitore a mezzo di verbale di udienza notificato dal creditore

[65][65] V. in termini, da ultimo Cass. 26 agosto 2002, n. 12490 secondo cui neiprocedimenti in camera di consiglio, qual è quello “ex” art. 814, secondo comma, cod. proc. civ.  per la determinazione del compenso spettante agli arbitri, ove sia prevista l’audizione delle parti, tra la data di noti ficazione del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione e quella dell’udienza stessa non debbono necessariamente intercorrere i termini fissati dall’art. 163 – bis cod. proc. civ. per il procedimento contenzioso di primo grado; in tali procedimenti, il termine da assegnare al resistente per la comparizione resta affidato al prudente apprezzamento del giudice, con il solo limite dell’osservanza di modalità  minime indispensabili per il rispetto della garanzia costituzionale del diritto di difesa, sì che il resistente stesso  sia posto in grado di conoscere l’iniziativa assunta nei suoi confronti e di difendersi, in rapporto, peraltro, alle finalità  ed alle particolari ragioni di speditezza ed informalità  del procedimento, alle  quali  la fissazione del detto termine deve conformarsi, irrilevanti essendo le circostanze del caso concreto che potrebbero con- trastare con quelle esigenze

[66][66] Cassazione civile sez. I, 4 agosto 1988, n. 4824 in Il fall. 1989, n. 1, pag. 13, ha ritenuto congruo un termine di tre giorni – ma nella giurisprudenza di merito si trovano ammessi anche termini più brevi (un giorno) – dalla notifica della istanza alla udienza in camera di consiglio fissata per l’audizione, rilevando che il termine da assegnare al debitore perché compaia in camera di consiglio in sede di istruttoria prefallimentare resta affidato al prudente apprezzamento del giudice, sempre che siano osservate le modalità minime indispensabili per il rispetto della garanzia costituzionale del diritto di difesa, ed il debitore sia posto in grado di conoscere l’iniziativa assunta nei suoi confronti e di difendersi nei limiti delle finalità e delle speciali ragioni di urgenza e tempestività del procedimento, cui la fissazione del detto termine deve conformarsi restando irrilevanti le circostanze del caso concreto che potrebbero contrastare con quelle esigenze. Giova notare in proposito che l’art. 15 della legge fallimentare, come modificato dal disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri in data 1 marzo 2002, fissa un termine a comparire di quindici giorni, preoccupandosi però di garantire eventuali ragioni di particolare urgenza, con la concessione al giudice del potere di abbraviare il detto termine

[67][67] Trib. Busto Arsizio 18 ottobre 1996 in Foro it. 1997, I, c. 3000; Trib. Imperia 4 marzo 1995 in Fam. Dir. 1995, p. 473; Trib. Verona 2 aprile 1988 ivi 1988, I, c. 2390, cui adde Trib. Messina 17 aprile 2001, I^ sez. civ., inedita

[68][68] Trib. Messina, II^ sez. civ., 5 febbraio 2001, in Foro it. 2001, I, 1761, ove si rileva che è bensì vero “che la natura costitutiva della pronuncia di divorzio sottende certamente una verifica del tribunale sulla sussistenza dei presupposti di proponibilità della domanda e del venir meno della comunione spirituale e materiale dei coniugi, ma nulla autorizza a ritenere che, nel caso di divorzio congiunto, il legislatore abbia inteso tipizzare quale strumento indefettibile di tale verifica l’esame personale dei coniugi. … nulla autorizza a interpretare il ruolo del collegio come finalizzato ad invitare al ripensamento o a mettere alla prova la serietà e attendibilità di quella manifestazione. … vero è infatti che il nostro ordinamento non conosce un modello di “divorzio consensuale”, fondato cioè sul mero “mutuo consenso” dei coniugi, ma ciò dipende da norme di carattere sostanziale e non da una poco plausibile enfatizzazione dei poteri d’indagine o, per così dire, d’interdizione dialettica del Collegio in sede di comparizione delle parti”. V. anche Trib. Potenza 28 febbraio 1996, in Giust. civ. 1996, I, 2709; Trib. Trani 8 ottobre 1996 in Foro it. 1997, I, c. 3000. In dottrina v. CIPRIANI, Sull’audizione dei coniugi nel procedimento camerale di divorzio, in Foro it. 1988, I, c. 2391.

[69][69] CIVININI, op. cit.; v. anche Cass., 15 gennaio 2000, n. 424, in materia di procedimento ex art. 274 c.c., secondo cui il giudice ha una facoltà e non un obbligo di assumere informazioni e può decidere sulla base delle sole dichiarazioni delle parti.

[70][70] Cass. 11 gennaio 2002, n. 298

[71][71] Cass. 9 maggio 1996, n. 4349 in Fam. Dir.1996 con nota di CARBONE

[72][72] Cass. 25 ottobre 2000, n. 14022 in Fam. dir. 2001, 393, con commento di A. CARRATTA

[73][73] In tal senso MONTESANO-ARIETA, Trattato, cit. cap. 149, par. 1009.2

[74][74] Cass. 24 novembre 1999, n. 13055

[75][75] V. ad es. artt. 268, 277, 333 c.c.

[76][76] Ai sensi dell’art. 155, 7° comma c.c.(provvedimenti riguardo ai figli nella separazione dei coniugi): “nell’emanare i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli e al contributo al loro mantenimento, il giudice deve tener conto dell’accordo fra le parti: i provvedimenti possono essere diversi rispetto alle domande delle parti o al loro accordo ed emessi dopo l’assunzione di mezzi di prova dedotti dalle parti o disposti d’ufficio dal giudice”. V. CIVININI, I procedimenti, cit. p. 186

[77][77] CIVININI, op. cit., p. 184. V. anche PENTANGELO,  L’istruttoria nei procedimenti sommari, relazione tenuta nell’ambito dell’incontro di studio organizzato dal CSM sul tema Le prove nel processo civile, Frascati, 8-10 maggio 2000

[78][78] Così COMOGLIO, L’attuazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa nei procedimenti in camera di consiglio , Relazione tenuta  in occasione dell’Incontro di studio sul tema “I procedimenti sommari non cautelari”, organizzato dal C.S.M. in Frascati nei giorni 13-15 marzo 1997.(ora in Quaderni del C.S.M. n. 106, vol. II)

[79][79] Si è affermato al riguardo che “nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore lo svolgimento di indagini e l’assunzione di informazioni tramite i servizi Sociali non comporta nè una alterazione della regola del contraddittorio, stante la possibilità per le parti di controdedurre ed offrire ogni prova contraria nel giudizio di opposizione, nè una anomala delega a terzi di poteri decisori, poichè le risultanze di dette indagini ed informazioni sono rimesse alla valutazione del giudice procedente nel quadro delle complessive emergenze istruttorie, fra cui quelle acquisite anche su istanza delle parti” (Cass. 29 dicembre 1999, n. 14675). Con riferimento al procedimento di cui all’art. 274 c.c. (giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale), il quale prevede che l’istruttoria si svolge senza pubblicità e deve essere mantenuta segreta con facoltà per le parti di prenderne visione degli atti e documenti, da depositarsi in cancelleria, solo al termine dell’istruttoria medesima, si è precisato in giurisprudenza che “la segretezza dell’inchiesta preliminare non comporta che le parti non abbiano il diritto di assistere alla escussione dei testi e, in genere, al compimento dell’attività istruttoria da esse sollecitata, fermo l’obbligo del segreto per tutti coloro che siano, comunque, venuti a conoscenza di elementi di valutazione concernenti l’inchiesta e restando, in ogni caso, escluso, in ossequio all’inderogabile principio della <<parità delle armi>> tra le parti del processo (artt. 3 e 24Cost.), che alle indicate attività possa assistere soltanto una delle parti in contesa, senza che il diritto della controparte d’interloquire a posteriori sulle informazioni raccolte elimini la descritta disparità di trattamento e il relativo vizio del procedimento” (Cass. 13 dicembre 1999, n. 13923)

[80][80] COMOGLIO, Garanzie costituzionali e prove atipiche nel procedimento camerale, in Riv.Trim.Dir.Proc.Civ., 1976, 1150ss

[81][81] In tal senso, sul problema delle prove atipiche (maggiormente avvertito, ovviamente, nell’ambito del processo ordinario di cognizione), V. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 1996, p. 480;  MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, II, Torino 1997, p. 158

[82][82] PENTANGELO, cit., p. 10

[83][83] Nella prassi, molte volte, anche per acquisito abito mentale, un po’ enfatizzando tale aspetto del tutto marginali della disciplina del mezzo tipico di prova, si raccoglie l’assunzione d’impegno dei testimoni. È stato al riguardo condivisibilmente osservato che “qualora il giudice per sua scelta ritenga di applicare all’istruttoria del procedimento sommario le norme proprie del processo ordinario di cognizione, tale applicazione non può essere parziale (ad esempio far rendere la dichiarazione d’intenti ai testimoni ma non far dedurre alle parti la prova diretta e contraria a norma degli artt. 244 ss.); infatti un’applicazione dimezzata si tradurrebbe in un aggravio di forme senza attuare quella complessità cui in questo momento storico il legislatore ha affidato le forme della cognizione ordinaria; in particolare l’assunzione di testi disposti d’ufficio, al di fuori di deduzioni di parte di capitoli specifici a prova diretta e contraria, previa dichiarazione d’intenti serve solo a paludare di una forma vuota un atto che il legislatore ha voluto semplice ed informale, non conferisce all’atto il rango di testimonianza e al massimo può rendere più solenne l’escussione” (PENTANGELO, op. ult. cit. p. 30 s.).

[84][84] Come chiarito da Cass., sez. un., 14 ottobre 1998 n. 10153 (Giust. Civ., 1998, I, 2725) “la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà prevista dall’art. 4 legge n. 15 del 1968 ha attitudine certificativa e probatoria, fino a contraria risultanza, nei confronti della PA ed in determinate attività o procedure amministrative, ma, in difetto di diversa, specifica previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche indiziario, può essere ad essa attribuito nel giudizio civile caratterizzato dal principio dell’onere della prova, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del soddisfacimento dell’onere di cui all’art. 2697 c.c., da proprie dichiarazioni” .Vds. tuttavia App. Firenze 3 febbraio 1994 (In Fam. dir. 1994, 429, con nota di Cei) che  ha accolto la richiesta congiunta di divorzio fondata su pregressa separazione di fatto dimostrata tramite atto notorio

[85][85] C. Cost  sent. n. 22 del 1973 e n. 573 del 1989

[86][86] v. Cass. 29 maggio 1971 n. 1616, secondo cui “le dichiarazioni rese dalle parti in sede di audizione per la concessione di un sequestro, al pari delle risposte date in sede di interrogatorio non formale, non possono essere considerate come confessioni e di esse il giudice ha soltanto facoltà di avvalersi, come fonti sussidiarie di convincimento, per corroborare le prove già acquisite al processo o per disattenderle, o come presunzioni semplici nei limiti di legge

[87][87] v. Cass. 10 aprile 1990, n. 3035; Cass. 7 gennaio 1983, n. 122

[88][88] v. supra par. 6.6

[89][89] Cass. 23 agosto 1990, n. 8609.  In senso parzialmente contrario Trib. Genova 28 dicembre 1994 (in Giust. Civ. 1996, I, 547, con nota di AULETTA), che, con riferimento al processo cautelare, ha escluso che la scrittura privata disconosciuta possa essere posta a fondamento del provvedimento

[90][90] Trib. Messina, ord. 19 luglio 2000, D’Amico c/ Ferlazzo, inedita; in tal senso anche Trib. Genova, 28 dicembre 1994, cit.

[91][91] “In via di eterointegrazione dai canoni della logica e dai modelli delle scienze empiriche”, secondo la definizione di prudente (o libero) apprezzamento proposta da PROTO PISANI, Lezioni, cit. p. 458, 480.

[92][92] In tal senso v. da ultimo Cass. 25 settembre 1999, n. 10615 (C.E.D., Arc. Civile, rv. 530257)

[93][93] V. al riguardo ORIFICI, Relazione, cit.

Redazione

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