Prova testimoniale e contratti in forma scritta: il punto delle Sezioni Unite

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Massima

Cass., Sez. Un., 5 agosto 2020, n. 16723 – Pres. G. Mammone; Rel. A. Scarpa

L’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto ai sensi dell’art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l’eccezione d’inammissibilità, la prova sia stata egualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione

I fatti di causa

Con ricorso fondato su fattura commerciale, un produttore richiedeva l’emissione di un decreto ingiunto per il pagamento della somma pattuita a titolo di corrispettivo per la vendita del proprio prodotto.

Avverso l’emesso provvedimento, l’acquirente proponeva opposizione deducendo che il contratto di vendita, per il quale era stato già versato un acconto, era poi stato risolto consensualmente, con contestuale riduzione del corrispettivo ancora dovuto, a causa della cattiva qualità della merce e per evitare l’insorgere di un contenzioso. In ragione della somma già corrisposta assumeva quindi l’assoluta infondatezza del credito.

Espletata prova testimoniale su tali circostanze, il Tribunale riteneva mancante la prova del credito azionato ed accoglieva l’opposizione al decreto ingiuntivo.

Il gravame proposto contro la sentenza cosi pronunciata veniva tuttavia accolto in forza della considerazione per cui l’allegata risoluzione – per cattiva qualità del prodotto – del contratto di vendita intercorso tra le parti, con rideterminazione in riduzione del prezzo, integrando verosimilmente un atto di transazione con effetto novativo del rapporto giuridico preesistente, avrebbe dovuto essere provata per iscritto ai sensi dell’art. 1967 cod. civ. e non per testimoni, come invece avvenuto nel caso.

In Cassazione, tra gli altri motivi, la ricorrente deduceva che, essendo quella di cui all’art. 1967 cod. civ. forma scritta richiesta dalla legge ad probationem e non ad substantiam, il giudice – in assenza di iniziativa delle parti, che nulla avevano eccepito al riguardo né al momento dell’ammissione della prova testimoniale, né al momento del suo espletamento, né dopo l’assunzione, né con l’atto di appello – non avrebbe potuto rilevare d’ufficio la relativa carenza.

La sezione assegnataria – ravvisando sul regime della rilevabilità della inammissibilità della prova testimoniale dei contratti da redigersi per iscritto ad substantiam vel probationem difformità delle pronunce nelle sezioni semplici e, in ogni caso, evidenziando la massima importanza della medesima questione – disponeva (con ordinanza interlocutoria n. 30244 del 20 dicembre 2019)([1]) la trasmissione al Primo Presidente per la rimessione alle Sezioni Unite.

 La questione giuridica

Le Sezioni Unite sono plastiche nell’evidenziare, sin dal principio del proprio argomentare, che l’esistenza del contrasto interpretativo utile a giustificare l’intervento nomofilattico è da circoscrivere alla questione del regime della rilevabilità della violazione del divieto della prova testimoniale, non estendendosi invece anche a quella della inammissibilità della testimonianza vertente sull’esistenza e/o sul contenuto di un contratto da provarsi per iscritto.

Per essa, infatti, è chiaro il dettato dell’art. 2725 cod. civ., quale disposizione fondamentale ed espressiva di una generale preferenza per la prova documentale([2]).

Le ragioni che hanno giustificato la previsione di una regola che riecheggia l’adagio lettres passent témoins – elaborato per la prima volta con l’ordonnance de Moulins del 1566 e poi raccolto nell’art. 1341 del Code civil francese – risalgono all’epoca rinascimentale e risiedono in un presuntivo giudizio di maggiore affidabilità della prova documentale, costruito essenzialmente sull’esigenza di assicurare un procedimento più veloce, di evitare il rischio di testimonianze false rese da soggetti corrotti e che altresì si ricollega pure alla comparsa di nuove figure professionali con ruoli certificativi([3]).

L’art. 2725 cod. civ., come noto, unisce sotto il divieto della prova testimoniale (con la sola eccezione del documento incolpevolmente smarrito) sia i contratti per i quali la forma scritta è richiesta ad substantiam sia quelli per cui essa è invece prevista ad probationem.

La distinta previsione delle due ipotesi impone tuttavia pure una verifica della rintracciabilità di una differenziazione di regime alle medesime applicabile.

Limitando l’esame a quanto oggetto della pronuncia segnalata, la giurisprudenza ha ritenuto che il divieto fissato dal secondo comma dell’art. 2725 cod. civ. per i contratti per cui la forma scritta è prevista a pena di nullità – in quanto posto a tutela dell’ordine pubblico – è soggetto al regime proprio delle nullità assolute, con la conseguenza che la sua violazione è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado([4]). A tale conclusione è giunta anche valorizzando il dato per cui nei casi del secondo comma la forma scritta è elemento essenziale del contratto ai sensi dell’art. 1325, n. 4, cod. civ.

La possibilità che pure il divieto di cui al primo comma dell’art. 2725 cod. civ. possa essere ricondotto ad interessi generali e non disponibili – con i corollari già esposti in punto di rilevabilità della sua pretesa violazione – è invece proprio quanto oggetto di chiarimento da parte delle Sezioni Unite con la pronuncia in commento.

Il contrasto interpretativo

Già l’ordinanza interlocutoria aveva dato atto della prevalenza dell’orientamento secondo cui per gli atti e i contratti per i quali la forma scritta è richiesta ad probationem, l’inammissibilità della prova testimoniale è prevista a tutela di interessi solo privati. Pertanto, la relativa eccezione non può essere rilevata d’ufficio e, in caso di prova comunque assunta, deve essere tempestivamente seguita da iniziativa di parte ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c., dovendosi altrimenti ritenere rituale l’acquisizione istruttoria([5]).

Da tale impostazione deriva quindi che, laddove l’eccezione di inammissibilità non sia stata accolta e, del pari, la parte interessata non abbia eccepito la nullità della prova testimoniale comunque assunta secondo le modalità di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c., riproposto la questione in sede di precisazione delle conclusioni([6]) ed eventualmente in appello, dovrà considerarsi sanata la pretesa nullità e preclusa al giudice dell’impugnazione dinanzi al quale sia stata censurata la valutazione della testimonianza la possibilità di valutare d’ufficio il profilo della sua ammissibilità.

Sul fronte opposto a quello appena accennato, però, la Cassazione ha pure offerto una diversa interpretazione e soluzione della questione([7]), in particolare sostenendo che l’inammissibilità della prova testimoniale per gli atti e i contratti con forma scritta ad probationem non può dirsi sanata dalla mancata tempestiva eccezione della parte interessata, atteso che il sistema della sanatoria per acquiescenza riguarda soltanto le decadenze e le nullità previste dall’art. 244 c.p.c. (in punto di modalità di deduzione e assunzione della prova, indicazione dei testimoni e loro capacità a testimoniare) e non anche la testimonianza illegittimamente ammessa. Il vizio, quindi, ben potrebbe essere fatto valere anche dopo l’assunzione della prova e/o con i motivi di impugnazione.

L’esposta ricostruzione poggia sull’idea che la tesi dell’esistenza di un differente regime processuale tracciabile per le ipotesi di contratti a forma scritta ad substantiam vel probationem non si confronterebbe con i prevalenti indici ermeneutici di tipo sistematico e letterale, “agganciandosi piuttosto a considerazioni metagiuridiche in ordine alla natura degli interessi coinvolti che, a bene vedere, nulla hanno a che vedere con lo stesso criterio teleologico”.

Tale assunta distinzione, in particolare, sarebbe contrastante con l’intento legislativo di dettare per entrambe le ipotesi una disciplina del tutto sovrapponibile, e quindi unitaria. Ciò sarebbe infatti direttamente ricavabile dall’art. 2725 (il quale fissa in termini generali, estendendolo ad entrambi i propri commi, il principio della inammissibilità della prova testimoniale e ammette una deroga a tale divieto solo a fronte della perdita incolpevole del documento) e troverebbe conferma pure nel dettato dall’art. 2729 cod. civ.

È però proprio muovendo da tale considerazione che le Sezioni Unite separano concettualmente la regola (condivisa) della inammissibilità della testimonianza per i contratti a forma scritta da quella in punto di rilevabilità dell’eventuale violazione di tale divieto.

La soluzione offerta dalle Sezioni Unite

A trovare avallo nella decisione delle Sezioni Unite è il primo degli orientamenti sopra riportati.

La Cassazione, innanzitutto, evidenzia la diversa funzione della forma scritta prevista dall’art. 2725 cod. civ. per le due fattispecie considerate nel suo primo e nel suo secondo comma.

In effetti, nei casi di cui al secondo comma la forma scritta è condizione per la stessa validità dell’atto e in questo senso incide anche ai fini della prova del negozio, atteso che la mancanza del requisito formale, nella misura in cui rende l’atto nullo, non può che privarlo anche di valore sul campo della prova.

La forma scritta ad probationem, invece, non tocca i profili della forma dell’atto, piuttosto impattando su quelli della “forma della prova”. La mancanza della forma scritta, in altri termini, in questi casi non rende l’atto nullo ma solo contrae gli strumenti probatori a disposizione della parte che, privata della testimonianza (e ferma l’ipotesi dell’art. 2724, n. 3, cod. civ.), può comunque accedere a mezzi diversi – in ogni caso particolarmente efficaci – quali la confessione o il giuramento.

E’ in questo senso che le Sezioni Unite affermano che “la forma prescritta in funzione soltanto della prova è estranea alla disciplina della fattispecie contrattuale e fa riferimento esclusivamente al giudizio in cui le parti vogliano far valere il negozio”.

Da ciò, però, deriva pure un’ulteriore conseguenza in punto di natura degli interessi sottesi.

Se, infatti, il limite alla prova testimoniale fissato dall’art. 2725, comma 1, cod. civ. presenta, per le ragioni appena dedotte, una dimensione processuale e non riguarda quindi gli effetti sostanziali dell’atto, allora deve concludersi che esso è posto nell’interesse delle parti coinvolte nel giudizio nel quale l’atto o il contratto dovrebbe essere provato con la testimonianza, sicché il medesimo risulta rinunciabile anche per comportamento concludente.

Questo è, quindi, l’argomento considerato dalle Sezioni Unite dirimente e prevalente anche su quello della unitarietà della disciplina della prova testimoniale dei contratti a forma scritta (come contenuta, sia per l’ipotesi della forma ad substantiam sia per quella della scrittura ad probationem, nell’art. 2725 cod. civ.), ovvero della comunanza della deroga della perdita incolpevole del documento ad entrambi i commi dalla predetta disposizione; e che, anzi, proprio nel suo essere riferibile a tutti i limiti di ammissione della prova per testi dei contratti trova nell’iter motivazione della Corte conferma dell’opportunità di una non esasperata valorizzazione contraria.

Il passaggio logicamente successivo alle ricostruite premesse è la riconduzione della violazione dell’art. 2725, comma 1, cod. civ. rispetto alla prova testimoniale assunta nonostante la preventiva eccezione di inammissibilità alla categoria della nullità relativa e, quindi, al regime delineato in particolare dall’art. 157, comma 2, c.p.c. Ciò in linea con l’insegnamento per cui il vizio di nullità è rilevabile d’ufficio quando (almeno tendenzialmente)([8]) l’interesse protetto dalla norma formale violata ha natura pubblicistica([9]).

La conclusione raggiunta dalle Sezioni Unite si pone dunque in linea di continuità con la giurisprudenza che da tempo ha chiarito che i limiti alla prova testimoniale di cui agli artt. 2721 ss. cod. civ. (con la sola eccezione di quello di cui all’art. 2725, comma 2, cod. civ.) non derivano da norme di valenza pubblicistica immaginate nell’ottica della garanzia della celerità e della concentrazione del processo, come quelle che introducono preclusioni assertive ed istruttorie nel processo di cognizione([10]).

Esse, piuttosto, hanno carattere dispositivo, sono poste nell’interesse delle parti e pertanto da queste derogabili anche implicitamente per mancata eccezione([11]). E ciò rende ragionevole affidare il rilievo della loro violazione al meccanismo delineato dall’art. 157, comma 2, c.p.c.

D’altronde, al regime di cui agli artt. 156 ss. c.p.c. – e in particolare dell’art. 157, comma 2, c.p.c. – è stata ricondotta anche in dottrina la violazione delle norme procedurali in tema di prove, e quindi pure di quelle che fissano i limiti alla testimonianza per i contratti per i quali però la forma scritta non sia richiesta a pena di nullità([12]).

E’ in questo contesto che, con un formalismo probabilmente anche eccessivo([13]), la Cassazione ha negli anni stabilito che per evitare la sanatoria della nullità l’eccezione deve essere articolata prima dell’assunzione, riproposta dopo di essa (tranne che il difensore della parte interessata non fosse presente) o comunque con la prima difesa/istanza utile successiva e in ogni caso rinnovata in sede di precisazione delle conclusioni, risultando altrimenti rinunciata tacitamente([14]).

Non difformemente le Sezioni Unite chiariscono che “poiché gli artt. 2721 c.c. e ss. sono accomunati dal prevedere i divieti […] stabiliti nell’esclusivo interesse delle parti private, […] il regime di rilevabilità della eventuale deviazione dal modello legale non è officioso, ma viene lasciato alla disponibilità dei contendenti.

[…] qualora, nonostante la preventiva eccezione di inammissibilità, la prova testimoniale sia stata egualmente assunta, la correlata nullità deve essere opposta dalla medesima parte nel cui interesse sostanziale è stabilito il requisito inosservato, secondo la scansione articolata dall’art. 157 c.p.c., comma 2, in funzione del corretto sviluppo dei poteri dei contendenti, verificandosene, in difetto, la sanatoria […]. Se l’interessato non abbia eccepito dapprima l’inammissibilità della deduzione istruttoria e poi la nullità della prova per testimoni comunque assunta, tale nullità non potrà più essere rilevata o eccepita per la prima volta in appello, e, tanto meno, in sede di legittimità […]”.

Fuori dai casi del contratto con forma scritta ad substantiam (per i quali va invece valorizzato il dato della rilevabilità d’ufficio della nullità derivante dalla mancanza di uno dei requisiti richiesti dall’art. 1325 cod. civ.), è quindi da riconoscere e valorizzare il principio della disponibilità e della derogabilità dei limiti oggettivi della prova testimoniale. Lo stesso che, nell’applicazione giurisprudenziale([15]), ha giustificato pure l’operatività della regola della non contestazione, quale meccanismo utile a ritenere raggiunta la prova di un contratto per il quale sarebbe stata necessaria la forma scritta ad probationem laddove manchi la produzione del documento sottoscritto dai contraenti e, tuttavia, sia pacifico tra le parti (in quanto non contestato) il fatto della sua stipula e del suo contenuto.

E’ su queste basi, d’altronde, che le Sezioni Unite osservano che “così come la non contestazione della stipula e del contenuto di un contratto scritto ad probationem, pur non surrogando la prova di tali fatti, rende la stessa superflua, può avvenire che le parti di un simile contratto, per quanto in disaccordo sui diritti e sugli obblighi da esso derivanti, non si oppongano al ricorso alla prova testimoniale, non facendo valere il limite di ammissibilità di cui all’art. 2725 c.c., comma 1”.

Considerazioni conclusive

Nell’iter motivazionale sommariamente ripercorso c’è un passaggio meritevole di riflessione.

Resta fermo quanto già da altri osservato in merito al fatto che la rigidamente assunta differenza concettuale – su cui è invero adagiata sia la pronuncia delle Sezioni Unite sia, ancor prima, l’ordinanza interlocutoria – tra eccezione di inammissibilità del mezzo istruttorio ed eccezione di nullità della prova comunque espletata([16]) non risulta totalmente convincente nella misura in cui non considera, da un lato, che nell’eccezione di inammissibilità è “implicita” quella successiva di nullità([17]) e, dall’altro, che la mancata eccezione di inammissibilità non implica necessariamente tacita rinuncia a far valere successivamente la predetta nullità([18]).

In aggiunta, ma seguendo lo stesso criterio logico, occorre osservare anche che secondo le Sezioni Unite il principio della sottoposizione al regime di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c. della nullità per violazione dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale sanciti dagli artt. 2721 ss. cod. civ. (con la sola eccezione del disposto dell’art. 2725, comma 2, cod. civ.) “non interferisce con il generale potere giudiziale di revoca delle ordinanze istruttorie […] né con il controllo affidato al collegio in sede di decisione della causa […], non essendo comunque tali strumenti esercitabili al fine di rilevare inammissibilità o nullità di cui il giudice non può disporre”.

Il ragionamento della Corte – che porta ad escludere che il giudice istruttore possa sempre revocare l’ordinanza ammissiva della prova per testi ai sensi dell’art. 177 c.p.c., ovvero che la questione possa essere direttamente sottoposta al collegio ex art. 178 c.p.c. quando a questo la causa è rimessa per la decisione – pare quindi poggiare sulla riconosciuta disponibilità della materia alle sole parti.

In particolare, con riferimento al regime della irrevocabilità e della immodificabilità delle ordinanze istruttorie, l’art. 177, comma 2, n. 1, c.p.c. lo prevede – come noto – quando queste siano “pronunciate sull’accordo delle parti, in materia della quale queste possono disporre”.

Dalla norma affiora un legame stretto tra accordo e disponibilità, perché se è vero che la possibilità stessa dell’accordo presuppone la disponibilità astratta della materia, è vero pure (per logica conseguenza) che, posta una materia come astrattamente disponibile, perché possa dirsi che di essa le parti hanno disposto è necessario il raggiungimento di un accordo tra le stesse.

Ciò posto, anche in questa prospettiva sembra ragionevole affermare che perché possa considerarsi raggiunto un accordo tra le parti non dovrebbe poter bastare la mancata eccezione della controparte costituita, né dovrebbe essere possibile rintracciare un equivalente dello stesso nella contumacia della parte che avrebbe potuto avere interesse all’eccezione relativa alla violazione dei limiti di ammissibilità della prova per testi dei contratti a forma scritta.

Così ragionando, pertanto, in difetto di una comune esplicita volontà, potrebbe giungersi anche alla conclusione della conservazione in capo al giudice del potere di revocare l’ordinanza ammissiva e, di converso, della possibilità per la parte di sottoporre al collegio la questione ai sensi dell’art. 178, comma 1, c.p.c. proprio in quanto risolta con ordinanza revocabile.

Ciò in quanto in difetto di un accordo espresso, e a fortiori in caso di contumacia, il giudice deve comunque assolvere al suo “potere/dovere di valutare se sussistano i presupposti per la deroga al divieto offrendo la motivazione della decisione prescelta”([19]).

In sintesi, aderendo a tale impostazione del discorso, la ricostruzione delle Sezioni Unite sembrerebbe richiedere un aggiustamento nella misura in cui afferma la disponibilità alle sole parti delle disposizioni che pongono limiti alla prova testimoniale dei contratti a forma scritta (diversa da quella prevista a pena di nullità), conseguentemente ricavandone l’irrilevabilità d’ufficio della loro violazione e la necessaria, unica e rigida applicazione dell’art. 157, comma 2, c.p.c.

E, d’altro canto, non è nuova nel panorama degli studi offerti alla questione la tesi che invece, sul presupposto che si tratti comunque di norme (vale a dire, quelle sui limiti alla prova testimoniale) che – limitando i mezzi con cui il giudice può formare il proprio convincimento – impattano sull’esercizio della funzione giurisdizionale, afferma che la loro violazione possa essere rilevata anche d’ufficio([20]).

Si è consapevoli, ovviamente, che l’esposta alternativa ricostruttiva si pone in contrasto con la giurisprudenza di legittimità. E ciò, guardando non solo a quella, confermata dalle Sezioni Unite con la decisione in commento, che considera ritualmente acquisita la prova ammessa oltre i limiti fissati dagli artt. 2721 ss. cod. civ. ove la parte interessata non ne abbia tempestivamente eccepito l’inammissibilità (prima) e la nullità (poi), così precludendo ogni possibilità di censura in appello finanche al contumace nel giudizio di primo grado([21]), ma pure a quella che si colloca nel più ampio solco della sanzionabilità della parte che abbia omesso di attivarsi prontamente in relazione alle proprie vicende processuali([22]).

Tuttavia, essa sembrerebbe comunque funzionale – se non altro – ad un’ulteriore riflessione su una questione che lega a sé il delicato tratto di confine tra la condotta processuale delle parti (con gli interessi ad essa sottesi) e l’ordinato e corretto svolgimento del processo.

 

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([1]) Annotata da Asprella, Prova per testi ed efficacia probatoria: tra forma scritta ad substantiam e forma scritta ad probationem, in ilprocessocivile.it.

([2]) Cfr., senza pretesa di completezza, Taruffo, Prova testimoniale, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 746; Dondi, Prova testimoniale nel processo civile, in Dig. civ., XVI, Torino, 1996, 55; Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 571 ss.

([3]) Amplius, anche per ulteriori riferimenti v. Carnelutti, La prova civile, Roma, 1947, 123 ss.; id., Diritto e processo, Napoli, 1958, 129 ss.; Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I-II, Milano, 1962; Andrioli, Prova, in Nss. dig. it., XIV, Torino, 1967, 329; Gibiino, La prova testimoniale nel processo civile, Napoli, 1970; Cordopatri, Testimonianza e prova nel processo civile, in Riv. dir. civ., 1973, 437 ss.; Taruffo, Il diritto alla prova nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1984, 82 ss.; id., Prova testimoniale, cit., 741; Laudisa, Prova testimoniale, in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, 1 ss. Sul tema v. anche Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, IV ed., Napoli, 1966, 827 s. che, invece, ricollega tale diffidenza per la prova testimoniale alla macchinosità del processo del parlamento parigino (e alla conseguente necessità di attuare una forte opera di semplificazione) piuttosto che ad una effettiva ed intrinseca sua inattendibilità. In questo senso già sollecitando la costruzione di un modello più elastico e sottoposto al controllo diretto del giudice. Concorde, Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Vallardi Ed., Milano, s.d., 606, secondo cui la testimonianza è in effetti tra gli strumenti di indagine “il più antico e il più naturale, e talvolta il solo che possa venire adoperato”. Per un esame più approfondito del tema dei margini di recupero del ruolo della testimonianza per la prova dei contratti v., tra gli altri, Taruffo, Problemi e linee evolutive nel sistema delle prove civili in Italia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 1558 ss.; id., Il diritto alla prova, cit., 80 ss.

([4]) Ex multis, Cass. 24 novembre 2015, n. 23934; Cass. 15 marzo 2006, n. 5786; Cass. 8 gennaio 2002, n. 144.

([5]) V. Cass. 3 giugno 2015, n. 11479; Cass. 25 giugno 2014, n. 14470; Cass. 30 marzo 2010, n. 7765; Cass. 30 maggio 2005, n. 11389; Cass. 20 febbraio 2004, n. 3392; Cass. 8 gennaio 2002, n. 144; Cass. 12 maggio 1999, n. 4690; Cass. 16 marzo 1996, n. 2213; Cass. 1° ottobre 1991, n. 10206; Cass. 10 aprile 1990, n. 2988; Cass. 12 luglio 1979, n. 4047; Cass. 25 maggio 1979, n. 3053; Cass. 24 novembre 1969, n. 3814; Cass. 22 giugno 1968, n. 2095; Cass. 29 aprile 1965, n. 772.

([6]) Per la giurisprudenza di legittimità, infatti, equivale a rinuncia la mancata reiterazione dell’eccezione di nullità in sede di precisazione delle conclusioni; v. Cass. 17 maggio 2002, n. 7256.

([7]) Cfr., in particolare, Cass. 14 agosto 2014, n. 17986. V. anche Cass. 8 marzo 1997, n. 2101.

([8]) La precisazione appare opportuna se solo si considera che pure le nullità rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado, una volta rese oggetto di pronunciamento espresso da parte del giudice, si trasformano in ragioni di impugnazione e, se non elevate a motivi di censura, non possono essere riesaminate dal giudice dell’impugnazione in ragione dell’avvenuta formazione del giudicato interno esplicito; cfr. Cass., Sez. Un., 13 marzo 2014, n. 5804; Cass., Sez. Un., 13 maggio 2013, n. 11340. Per una completa ricostruzione della questione, oltre che delle diverse posizioni, v. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2006, 101 ss.

([9]) Martinetto, Della nullità degli atti processuali, in Commentario del codice di procedura civile (a cura di Allorio), I, 2, Torino, 1973, 1596; Oriani, Nullità degli atti processuali, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, 10.

([10]) Tra le altre, v. Cass., Sez. Un., 11 maggio 2006, n. 10831.

([11]) V. Corte cost. 2 aprile 2009, n. 95; Cass. 30 marzo 2010, n. 7765; Cass. 28 aprile 2006, n. 9925.

([12]) Cfr. Comoglio, Le prove, in Trattato di diritto privato (diretto da Rescigno), IXX, Torino, 1985, 303; Conte, Le prove civili, Milano, 2009, 398; Poli, Sub art. 157, in Codice di procedura civile. Commentario (diretto da Consolo), I, Milano, 2018, 1858.

([13]) Così, Crevani, La prova testimoniale, in La prova nel processo civile (a cura di Taruffo), Milano, 2012, 296, nota 72.

([14]) Cass. 15 luglio 2008, n. 19435; Cass. 30 marzo 1995, n. 3773.

([15]) Tra le altre, Cass. 19 ottobre 2006, n. 22395; Cass. 12 dicembre 2003, n. 19052.

([16]) La prima, operante ex ante e funzionale ad impedire un atto invalido; la seconda, agente ex post per evitare che si consolidino gli effetti di questo; cfr. anche Cass. 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. 30 marzo 2010, n. 7765; Cass. 8 gennaio 2020, n. 144.

([17]) Sicché non sarebbe necessario delineare un doppio onere di eccezione, atteso che pure a guardare all’ipotesi in cui la parte si avveda di avere tratto vantaggio dalla prova assunta nonostante l’eccezione di inammissibilità, il sopravvenuto interesse di questa a conservare l’esito della testimonianza potrebbe dirsi garantito semplicemente considerando rinunciata l’eccezione non riproposta in sede di precisazione delle conclusioni; cfr. Tota, Le Sezioni unite sul regime di rilevabilità dei vizi derivanti dall’inosservanza del divieto di prova testimoniale di cui all’art. 2725, comma 1, c.c., in judicium.it.

([18]) Montanari, Sul regime della rilevabilità dei vizi conseguenti alla violazione dei divieti di prova testimoniale ex art. 2725 c.c., in eclegal.it, che, in particolare, ai fini della dimostrazione della irrilevanza, nell’ottica dell’art. 157, comma 3, c.p.c., di comportamenti meramente omissivi, richiama Oriani, Nullità, cit., 12. Concorde, Tota, op. cit.

([19]) Andrioli, Prova testimoniale, in Nss. dig. it., XVI, Torino, 1967, 346.

([20]) Cfr. Micheli, Corso di diritto processuale civile, II, Milano, 1960, 153. Sul tema v. anche le osservazioni di Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1981, 164.

([21]) Oltre alle pronunce già richiamate, ex multis, v. Cass. 19 febbraio 2018, n. 3956; Cass. 18 luglio 2008, n. 19942.

([22]) Di recente, v. Cass. 19 febbraio 2019, n. 4868, che ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non opponibile, ad opera del procuratore costituito di una delle parti, la nullità derivante dalla mancata comunicazione del differimento d’ufficio di un’udienza già fissata, sul presupposto che egli avrebbe potuto agevolmente avvedersi dell’errore di inserimento del proprio nome di battesimo nel registro informatico della cancelleria, che tale nullità aveva determinato.

Alessio Bonafine

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