Il principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali e la riforma penale

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L’esigenza di chiarezza e sinteticità dei provvedimenti giurisdizionali, e degli atti del processo in genere, è sempre più avvertita negli ultimi anni, non solo a livello interno  ma anche negli ordinamenti  sovranazionali.

Nel nostro ordinamento tale esigenza ha trovato espressione, in primo luogo, nella riforma del processo civile approvata con la legge n. 69/2009: il legislatore ha dettato nuove disposizioni in tema di redazione delle sentenze al fine di ridurre l’ampiezza delle motivazioni, escludendo la necessità che la decisione contenga l’esposizione dello svolgimento del processo, preliminare all’enunciazione dei motivi della decisione, e disponendo che l’esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione sia “concisa” e “succinta”, anche attraverso il “riferimento a precedenti conformi” (art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e  art. 118 disp. att. c.p.c.).

In analoga direzione si è mosso il legislatore con riferimento al processo amministrativo.

L’art. 3 del codice del processo amministrativo (d. lgs. n. 104 del 2010) stabilisce – nell’ambito del titolo “Dovere di motivazione e sinteticità degli atti” – che “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera sintetica”. Nel successivo art. grazie 74 (Sentenze in forma semplificata) si statuisce che “nel caso in cui si ravvisino la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata. La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”.

 

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Il 22 marzo del 2011 fu emanato dal Primo Presidente della Corte di cassazione (************) il decreto n. 27 che prevedeva, con riferimento alle sentenze e ordinanze civili, il ricorso alla motivazione semplificata,  ma il provvedimento ha avuto applicazione del tutto limitata.

Il 17 dicembre 2015 è stato firmato dalla Presidenza della Corte di cassazione e dal Consiglio Nazionale Forense un Protocollo di intesa sulle regole redazionali dei ricorsi in materia penale, civile e tributaria.

Il Ministero della giustizia, con decreto ministeriale del 9 febbraio 2016 ed ulteriori decreti, ha costituito un Gruppo di lavoro sulla sinteticità  degli atti processuali,  che ha elaborato una relazione ampia (ben 47 pagine, relazione tutt’altro che sintetica!), contenente anche proposte di modifica normativa  sia in ambito civile che penale.

Sempre nell’anno 2016, di fondamentale importanza sono i due decreti del Primo Presidente della Corte di cassazione (***************) sulla motivazione semplificata delle sentenze penali e di quelle civili: per le prime, il decreto presidenziale n. 68 del 28 aprile 2016, per le seconde il decreto n. 136 del 14 settembre 2016.

Tali decreti si caratterizzano per il carattere cogente, a differenza del decreto **** del 22.3.2011.

Infatti impongono la motivazione semplificata per gran parte delle sentenze della cassazione (essenzialmente  quelle a valenza non nomofilattica), facendo carico in modo stringente ai presidenti di sezione di attuare  le disposizioni ivi contenute. Altra novità di grande rilievo dei due decreti consiste nel fatto che i presidenti di sezione dovranno indicare nell’ambito dei rapporti informativi per la valutazione di professionalità del magistrato, tra i dati che assumono rilievo positivo, la capacità del magistrato di redigere sentenze in forma semplificata.

Il Primo Presidente della cassazione non si è limitato a dare precise disposizioni sulle sentenze semplificate nei riguardi dei giudici della cassazione, si è anche rivolto a tutti i giudici di merito: con circolare del 7 ottobre 2016, indirizzata ai Presidenti delle Corti di appello, ha infatti espresso “l’auspicio che tali modelli possano dare un concreto contributo anche all’opera dei magistrati degli Uffici di merito, in modo da consentire non solo l’accelerazione dei tempi della giustizia, ma anche una migliore comprensione delle sentenze di tutti giudici da parte dei cittadini”.

Solo la prassi dei prossimi anni ci dirà se questi due decreti del Primo Presidente della cassazione avranno larga applicazione e se i giudici di merito accoglieranno la “sfida della sinteticità” inverando così l’auspicio espresso dal Primo Presidente  nella circolare del 7.10.2016.

 

Si deve constatare che se nel settore civile e penale il principio di chiarezza e sinteticità muove faticosamente i primi passi, nell’ambito della giustizia amministrativa esso trova già avanzata applicazione.

Come sopra ricordato, nel codice del processo amministrativo è posta la norma basilare, contenuta nell’art. 3, comma 2,  che stabilisce che “il giudice e le parti redigono gli atti maniera chiara e sintetica”.

Il principio di chiarezza e sinteticità  ha visto la fissazione di precisi limiti dimensionali, per gli atti  di parte, dapprima per il solo rito appalti (con il d.l. n. 90/2014) e successivamente per tutti i riti del processo amministrativo (con la legge n. 197/ 2016, di conversione del d.l. n. 168/2016, che ha introdotto l’articolo 13-ter nelle disposizioni di attuazione del c.p.a.).

Con il decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 40/2015 furono fissati i limiti dimensionali agli atti processuali di parte nel rito dei pubblici appalti. Con un nuovo recente decreto, n. 167 del 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3/1/17, decreto previsto dall’articolo 13-ter citato, il Presidente del Consiglio di Stato ha fissato limiti dimensionali agli atti di parte in tutti i riti davanti al giudice amministrativo.

Tale decreto opera sui due piani della chiarezza redazionale e dei limiti massimi dimensionali degli atti di parte.

Sotto il profilo della chiarezza, si dispone, ad esempio, che si riportino i motivi e le specifiche domande in paragrafi numerati e muniti di titolo, si articolino in distinti paragrafi, specificamente titolati, le eccezioni di rito e di merito, si evitino il più possibile le riproduzioni mediante la tecnica del “copia e incolla” di parti del provvedimento amministrativo o giurisdizionale impugnato, etc.

Per quanto riguarda i limiti dimensionali vi è una disposizione di grandissimo impatto innovativo: questi vengono fissati per tutti gli atti processuali con l’indicazione del numero massimo di caratteri calcolato senza contare gli spazi vuoti. Per esempio, relativamente ad alcuni riti (accesso, silenzio, decreto ingiuntivo, etc.) non si possono superare i 30.000 caratteri, per altri riti (ordinario, abbreviato comune, appalti, etc.) il  limite è quello dei 70.000 caratteri. Trattasi di  limiti non inderogabili ma che necessitano per il loro superamento di apposita autorizzazione del giudice.

Con nota del 22/12/16 il Presidente del Consiglio di Stato (****************) si è indirizzato ai giudici amministrativi rivolgendo loro un invito ad essere chiari e sintetici. D’altronde -ricorda il Presidente del Consiglio di Stato -il dovere di chiarezza e semplicità vale non solo per le parti (che ora  devono sottostare a tassativi limiti dimensionali per i loro scritti) ma anche per i giudici: questi sono pertanto invitati a redigere provvedimenti che non superino le 20 pagine o comunque, nei casi di particolare complessità, le 40 pagine.

 

La recentissima legge di riforma penale (n. 103 del 2017) nulla dice materia di chiarezza e sinteticità degli atti processuali.

L’unica norma che potrebbe (il condizionale è d’obbligo) incidere in termini di sinteticità è quella che sostituisce integralmente la lettera e) del comma primo dell’art. 546 c.p.p.. Tale lettera prevede ora specificamente i contenuti della motivazione, costituiti da: ”la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione  delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo: 1) all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’articolo 533, e della misura di sicurezza; 3) alla responsabilità civile derivante dal reato; 4) all’accertamento di fatti dei quali dipende l’applicazione di norme processuali”.

Si deve ritenere che il legislatore della riforma, indicando ora in modo analitico il contenuto della motivazione, abbia voluto, da un lato, che la motivazione del giudice sia specifica e non viziata da genericità, dall’altro che il giudice si soffermi nella motivazione solo su quei tassativi e determinati punti indicati alla citata lettera e), senza  divagare in altri ambiti, intendendosi così bandire il fenomeno delle cd. sentenze-fiume caratterizzate da motivazioni ipertrofiche.

Ma, al di là di questa singola innovazione legislativa, la recentissima legge di riforma del processo penale – si ripete – nulla  dice in modo esplicito in materia di chiarezza e sinteticità, mentre avrebbe potuto recepire almeno alcune delle proposte di modifica normativa elaborate dal Gruppo di lavoro insediatosi presso il Ministero della giustizia o, quanto meno, recepire una sola di queste modifiche, quella che ritengo fondamentale dell’articolo 109-bis del codice procedura penale che recita così: “Principio di sinteticità degli atti. Il giudice e le parti redigono gli atti in  maniera chiara sintetica, inserendo in essi soltanto le informazioni e gli argomenti necessari al loro scopo”.

Questa norma – che è l’omologa di quella di cui all’art. 3, comma 2, c.p.a.-, una volta introdotta avrebbe potuto fungere da pietra angolare su cui si è costruire nel settore penale l’intero edificio della chiarezza e sinteticità, che, nell’ambito della giustizia  amministrativa, si trova già in fase di avanzata costruzione.

 

Napoli, luglio 2017

Giovanni Carbone

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