Patrocinio infedele ex art. 380 c.p.: delitto integrato anche in caso di perdita di chances da parte dell’assistito

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Il caso di specie

Con la sentenza 3 marzo 2020 n. 8617, la VI Sezione Penale della Corte di Cassazione ha chiarito i confini di applicabilità dell’art. 380 c.p., rubricato “Patrocinio o consulenza infedele”.

Occorre innanzitutto prendere le mosse dal caso che ha condotto alla pronuncia della Suprema Corte. Il Tribunale di Torino, Sezione Riesame, accoglieva l’appello del Pubblico Ministero procedente e riformava l’ordinanza di rigetto emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il medesimo Tribunale, applicando la misura interdittiva del divieto di esercitare la professione per un anno nei confronti di un avvocato per il reato di cui all’art. 380 c.p..

All’avvocato era contestato di aver formato un atto di precetto avente la falsa sottoscrizione della propria assistita, con autentica attestata dallo stesso avvocato.

Il nocumento derivante dalla condotta dell’agente si era poi concretizzato nella declaratoria di inefficacia da parte del Tribunale di tale atto di precetto, che accoglieva sul punto l’opposizione all’esecuzione proposta dal debitore.

Il Tribunale, infatti, diversamente dal G.i.p., aveva ritenuto che il termine di prescrizione del predetto reato non fosse ancora maturato, individuando come dies a quo da cui calcolare il suddetto termine la data della pronuncia della sentenza che dichiarava l’inefficacia del precetto per mancanza di sottoscrizione della procura, e non invece la data in cui l’atto di precetto era stato notificato alla controparte debitrice.
La pronuncia del Tribunale di Torino è stata poi impugnata con ricorso in Cassazione. La doglianza del ricorrente si incentrava unicamente sul termine di prescrizione del reato di cui all’art. 380 c.p., che secondo la tesi difensiva sarebbe dovuto decorrere dallo spirare del termine previsto dalle disposizioni del rito civile per l’opposizione all’atto di precetto.

Secondo il ricorrente, infatti, con la presentazione dell’opposizione al precetto è stato recato un nocumento alla parte creditrice, poiché si è frapposto un ostacolo alla prosecuzione della procedura esecutiva proprio a causa della presentazione dell’atto di opposizione, che come unica ragione  giustificatrice aveva il vizio formale del titolo esecutivo opposto. Dunque, ad avviso del difensore dell’imputato il dies a quo rilevante ai fini della consumazione del reato, nonché per la prescrizione, nel caso di specie doveva individuarsi o nello spirare del termine previsto per l’opposizione al precetto o in alternativa dalla data di presentazione dell’opposizione.

Tale tesi era suffragata dalla considerazione secondo cui l’opposizione costituirebbe il primo atto con cui si produce il danno, consistente in un procedimento civile, che la parte assistita deve subire in virtù della condotta infedele del proprio patrocinatore.

Il vero nocumento per la parte assistita sarebbe dunque l’inizio di un procedimento civile evitabile, non la pronuncia della sentenza all’esito del giudizio.

Art. 380 c.p.: breve inquadramento

Prima di addivenire alla decisione oggetto della recente pronuncia della Suprema Corte, giova delineare brevemente la fattispecie di reato in esame.

Collocata nel Titolo III del Libro II del Codice Penale, tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia, la disposizione in parola è ritenuta dagli interpreti un esempio di reato plurioffensivo, in quanto la condotta dell’agente, oltre a ledere il corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, risulta lesiva anche degli interessi processuali della parte assistita dal patrocinatore inadempiente verso i propri doveri professionali.

La questione più dibattuta in giurisprudenza in merito all’art. 380 c.p.  ruota intorno all’elemento oggettivo della fattispecie della pendenza di un procedimento.

Secondo un primo prevalente orientamento giurisprudenziale, infatti, per la configurazione del delitto in esame, come anche per quello previsto dall’art. 381 c.p., è “strutturalmente necessaria la instaurazione di un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria[i] come elemento costitutivo del reato, con la conseguente irrilevanza delle attività preliminari o estranee alla fase del contenzioso.

Occorre tuttavia segnalare la presenza di un altro orientamento di legittimità di senso contrario a quello appena esposto, che ha affermato invece come presupposto del delitto ex 380 c.p. “l’esercizio del diritto di difesa, rappresentanza e assistenza davanti all’autorità giudiziaria, intese come oggetto del rapporto di partecipazione professionale e non come estrinsecazione effettiva dell’attività processuale[ii].

Tale impostazione si riflette necessariamente sull’elemento oggettivo del reato, che si rinviene in questo caso nella mera infedeltà verso i doveri inerenti l’incarico ricevuto dal patrocinatore di difendere taluno dinanzi all’autorità giudiziaria, indipendentemente dallo svolgimento di attività di natura processuale e dalla pendenza di un giudizio.

Il delitto di patrocinio o consulenza infedele, peraltro, si configura secondo il dettato della legge come reato d’evento, in quanto per il suo perfezionamento  non è sufficiente la mera infedeltà ai doveri professionali da parte del soggetto agente, occorrendo altresì la verificazione di un evento implicante un nocumento agli interessi della parte assistita[iii]. Tale nocumento inoltre non si identifica unicamente nel danno patrimoniale di natura civilista, potendo ben consistere anche nel mancato conseguimento di benefici giuridici o anche morali[iv].

La decisione della Corte

Venendo ora alla decisione sul caso di specie, preliminarmente la Corte di Cassazione ha precisato che il perfezionamento del delitto in esame si concretizza con la sussistenza di due elementi: una condotta del patrocinatore contraria ai doveri professionali stabiliti a tutela della parte assistita, e un evento che implichi un nocumento agli interessi di questa.

La verificazione di tale evento comporta la consumazione del reato, momento dal quale decorre di conseguenza il termine di prescrizione dello stesso.

Il suddetto evento, come peraltro precisato in precedenza, ben può concretizzarsi in termini di mancati vantaggi giuridici oggetto di decisioni del giudicante in ogni fase del contenzioso, anche intermedia o incidentale.

A questo punto il ragionamento svolto dalla Corte si snoda attraverso un iter logico che comprende due argomentazioni.

La prima è di natura eziologica: in tutti i reati d’evento la legge richiede ai sensi dell’art. 40 c. 1 c.p. la sussistenza di un rapporto di causalità tra la condotta dell’agente (commissiva od omissiva) e l’evento che ne è conseguenza.

Pertanto, considerando il reato di cui all’art. 380 c.p., pare evidente che non possono considerarsi condotte eziologicamente legate all’evento del nocumento patito dalla parte assistita tutte quelle che esulano dalle violazioni deontologiche cui fa riferimento la citata disposizione.

In aggiunta a ciò occorre considerare che il tenore letterale della legge nello stabilire un rapporto di causa ed effetto tra la violazione dei doveri professionali ed il nocumento, non impone che tale violazione debba essere l’unica causa del nocumento, ben potendo aggiungersi all’infedeltà ai doveri professionali anche altre concause indipendenti e autonome che contribuiscono a determinare il pregiudizio subito dalla parte.

La seconda linea argomentativa della Corte prende le mosse dalla peculiarità del nocumento patito dalla parte assistita, che scaturisce nell’ambito del rapporto professionale col patrocinatore e durante lo svolgimento di un procedimento giudiziario.

Questo, infatti, sviluppandosi in differenti fasi e gradi, risulta idoneo a cagionare alla parte assistita  eventi pregiudizievoli anche indipendenti dalla definizione del procedimento stesso, quali ad esempio una preclusione processuale che impedisce alla parte un’allegazione probatoria o l’esercizio di una facoltà a causa dello scadere di un termine, o anche la perdita di chances, ovvero la perdita di una concreta occasione per il conseguimento di un determinato vantaggio o beneficio (nel caso di specie, il soddisfacimento del diritto vantato oggetto del precetto).

La Suprema Corte sottolinea, inoltre, che nell’alveo del reato di cui all’art. 380 c.p. possono prodursi plurimi esiti sfavorevoli a seguito di una medesima condotta infedele del patrocinatore, posto che dalla lettera della legge non può desumersi che l’azione penale per il delitto ex art. 380 c.p. sia condizionata all’esito del procedimento giudiziario a cui si riferisce, e quindi ad un unico nocumento.

Peraltro, nel caso in cui vi siano plurimi nocumenti sfavorevoli di natura giudiziaria, come nell’esempio, proposto dalla Corte, del caso di un’istanza istruttoria rigettata perché proposta tardivamente a cui segue una sentenza sfavorevole per la parte, occorre operare una valutazione unitaria e conclusiva del nocumento subito dalla parte , che si compone necessariamente di tutte le decisioni sfavorevoli che sono derivate dalla condotta infedele.

In tal caso la Corte pare suggerire che in presenza di plurimi nocumenti legati ad una condotta infedele del patrocinatore, il momento di consumazione slitta conseguentemente in corrispondenza dell’ultimo pregiudizio subito, con evidenti ricadute in punto di prescrizione.

Le suesposte argomentazioni hanno condotto la Suprema Corte a rigettare il ricorso proposto, che non coglie nel segno né quando imputa il nocumento patito dalla parte assistita con la presentazione dell’opposizione al precetto, in quanto totalmente indipendente dalla condotta dell’agente e che tutt’al più può assurgere a concausa fisiologica del procedimento civile, né quando individua il dies a quo rilevante ai fini della prescrizione del reato nel termine previsto dal codice di procedura civile per l’opposizione al precetto, mancando di considerare in modo unitario  tutti gli effetti sfavorevoli patiti dalla parte assistita, che nel caso di specie sono culminati con la sentenza contenente la declaratoria di inefficacia del precetto.

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Note

[i] Cass., Sez. VI, 27 aprile 1995, n. 4668, in Cass. Pen., 1996, p. 1809.

[ii] Cass., Sez. VI, 18 gennaio 2005, n. 856, in CED Cass., n.  230877.

[iii] Cass., Sez. VI, 24 giugno 2015, n. 26542, in CED Cass., n. 263919.

[iv] Sul punto cfr. Cass., Sez. VI, 13 marzo 1996, n. 2689, in Cass. Pen., 1997, p. 1378.

Jacopo Scarpellini

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