Nullità tra rilevabilità d’ufficio e principio della domanda

Paola Marino 17/10/23
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Si raffrontano, per sostanziale somiglianza rispetto agli esiti applicativi, l’ordinanza n. 10233 del 18 aprile 2023 e l’Adunanza Plenaria 16 ottobre 2020, n. 22.
Nella prima, la Corte di Cassazione ha stabilito che nel caso in cui il giudice sia stato investito non di una domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità di una delibera societaria, ma di una domanda di annullabilità della stessa, la rilevabilità d’ufficio della nullità da parte del giudice dev’essere coordinata con il principio della domanda, di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c.
In maniera simile, l’Adunanza Plenaria 16 ottobre 2020, n. 22, ha statuito che la nullità della clausola escludente per difetto di tipicità non onera l’operatore economico della sua immediata impugnazione (in quanto atipica) e, tuttavia, i successivi atti del procedimento, inclusi quelli di esclusione e di aggiudicazione, pur basati sulla clausola nulla, conservano il loro carattere autoritativo e sono soggetti al termine d’impugnazione previsto dall’art. 120 c.p.a.
Nel primo caso la decadenza opera a monte, nel secondo caso opera ex post.
Nel primo caso ha l’evidente scopo di salvaguardare la certezza dei rapporti giuridici, instaurati sulla base delle deliberazioni assembleari.
Nel secondo caso, la nullità della clausola escludente si coordina con il principio della certezza dei rapporti giuridici, a cui è sistematicamente legata l’adozione degli atti amministrativi e, quindi, l’efficienza dell’agire amministrativo, che, per questa via, tutela anche l’affidamento dei privati, che riposi sulla intangibilità degli atti amministrativi, una volta intervenuto il termine di decadenza per impugnarli.
Queste due pronunce, apparentemente così diverse per natura (ordinanza e sentenza), per plesso giurisdizionale che le ha rese (Cassazione e Consiglio di Stato), diversità della rilevanza del momento decadenziale (antecedente nell’un caso, susseguente nell’altro), sembrerebbero destinate a costituire due rette parallele destinate a non incontrarsi mai.
Eppure, nella loro essenza più profonda, sovvertono la regola desunta dalla geometria euclidea, facendo comprendere come, in certuni casi, sia il legislatore quanto l’interprete del diritto sentano l’esigenza non certo di scalfire il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità (già ridimensionato, peraltro, dal c.p.a.), ma di adeguarlo in base alla sedes materiae e alle circostanze in cui esso opera, in nome della certezza dei rapporti giuridici.

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Indice

1. Delibera assemblea dei soci: rilevabilità d’ufficio della nullità e limiti temporali

L’art. 2379 c.c. stabilisce che la delibera delle società per azioni è nulla quando l’oggetto è impossibile o illecito, oppure quando vi sia mancanza assoluta della convocazione dell’assemblea o del verbale.
In questo caso, la deliberazione può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla sua iscrizione o deposito nel registro delle imprese, se la deliberazione vi è soggetta, o dalla trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea, se la deliberazione non è soggetta né a iscrizione né a deposito.
Occorre precisare, tuttavia, che la deliberazione proclamata e verbalizzata in un’assemblea convocata, anche se irregolarmente, non è nulla, ma solo annullabile, se per l’invalidità di singoli voti o per il loro indebito computo non risulti raggiunta la necessaria maggioranza.
Possono darsi quindi casi, in cui il socio abbia interesse a far valere l’annullabilità della delibera piuttosto che la nullità della stessa.
L’articolo aggiunge che possono essere impugnate senza limiti di tempo le deliberazioni, che modifichino l’oggetto sociale, prevedendo attività illecite o impossibili.
Nei casi e nei termini previsti dalla norma, l’invalidità può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
La dottrina ha notato che, con riguardo alle ipotesi di mancata convocazione dell’assemblea e assenza del verbale, il legislatore ha inteso tutelare i soci di minoranza contro possibili abusi a loro danno ed eliminare ogni riferimento allo scomodo concetto di inesistenza, che può condurre a risultati incompatibili con l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti societari.
Nell’art. 2379 c.c., con riferimento alla disciplina della nullità, il legislatore non si è limitato a rinviare ai principi del diritto comune, ma ha delineato i contorni distintivi di una particolare forma di nullità.
Nei casi sopra richiamati, la legittimazione ad impugnare spetta a chiunque vi abbia interesse, ovvero può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Il termine di decadenza di tre anni coinvolge anche la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice.
Nel caso specifico, tuttavia, di deliberazioni, che modificano l’oggetto sociale, prevedendo attività illecite o impossibili, nessun termine è stabilito per l’impugnazione, rimanendo pur sempre legittimato chiunque vi abbia interesse.
Nello spirito della norma, si ritiene che, pur in presenza di una pronuncia di nullità della delibera, restino salvi i diritti dei terzi in buona fede.
Nel caso affrontato dall’ordinanza n. 10233 del 18 aprile 2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibilità per il giudice di rilevare d’ufficio la nullità di una delibera assembleare, decorso il termine triennale di decadenza ex art. 2379 c.c., nonostante in primo grado sia stata proposta domanda di annullamento della stessa.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte, in breve, è il seguente.
Il socio di una s.p.a. conviene in giudizio la medesima società, ai fini dell’annullamento di una delibera assembleare.
Soccombente in prime cure, propone appello, deducendo la nullità della delibera, poiché, a suo dire, l’assemblea dei soci si sarebbe illecitamente attribuita la competenza a deliberare su materie riservate per legge al consiglio di amministrazione.
Il giudice di secondo grado, poiché la domanda di nullità è proposta per la prima volta in appello, la ritiene nuova ex art. 345 c.p.c., pertanto inammissibile.
Aggiunge che la delibera non può essere messa in discussione per decorso del termine triennale, di cui all’art. 2379, comma 1, c.c.
La controversia approda in Cassazione: secondo il ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe potuto rilevare d’ufficio la nullità della delibera emergente dagli atti ritualmente acquisita al processo, nonostante la parte avesse proposto domanda di annullamento.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza testé richiamata, si è allora espressa sulla rilevabilità d’ufficio della nullità di una delibera assembleare e sul decorso del termine triennale, stabilendo il seguente principio di diritto: “il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato; se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda ”.
In base all’art. 2379, comma secondo, c.c., la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Tale assunto si pone in linea di continuità con la pronuncia delle S.U. n. 26242/2014, secondo cui spetta al giudice accertare tutte le possibili ragioni di nullità, anche se diverse da quelle indicate dall’attore e anche dedotte per la prima volta in grado d’appello, purché, in tal caso, sia stata sollevata domanda di nullità in primo grado (Cass. civ., 20170/2022).
Tale principio è applicabile anche in ambito societario, ancorché le delibere non possano essere assimilate ai contratti e nonostante la formale espunzione dal novellato articolo 2379 c.c. del richiamo espresso agli articoli 1421 e 1423 c.c. (Cass. civ., 8795/2016).
Analogo principio è dettato anche in materia di proprietà e diritti reali, identificati sulla base del contenuto e non del titolo, che ne costituisce la fonte (contratto, successione ereditaria, etc.). Pertanto, non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore (o il rilievo d’ufficio del giudice) di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. civ.  23565/2019).
La Suprema Corte, in maniera coerente con i propri precedenti giurisprudenziali, ha sancito, dapprima, il principio in base al quale il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato.
Nel caso in esame, tuttavia, la domanda di annullamento avanzata dal socio presuppone che l’atto non sia nullo e, in ogni caso, la rilevabilità d’ufficio della nullità nel corso del processo deve essere coordinata con il principio della domanda ex artt. 99 e112 c.p.c.
Pertanto, ai fini del rigetto della domanda, il giudice può sempre rilevare la nullità del contratto, anche in grado d’appello.
Ma, ai fini dell’accoglimento della domanda, il giudice non può dichiarare in dispositivo la nullità del contratto in mancanza di una domanda ritualmente proposta (anche nel corso del giudizio, a seguito della sua rilevazione) dalla parte interessata (S.U. 26242/2014), rimanendo in ogni caso esclusa la proponibilità di tale domanda per la prima volta in appello (Cass. civ., 28377/2022).
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha affermato che la domanda di nullità della delibera assembleare proposta per la prima volta in grado d’appello è inammissibile, in quanto domanda nuova.
Con riguardo al termine triennale di decadenza sancito dall’art. 2379 c.c., la Cassazione ha chiarito che esso è previsto non solo in relazione all’impugnazione da parte degli aventi diritto, ma anche con riguardo al rilievo ufficioso dell’invalidità da parte del giudice.
In ogni caso, tale potere di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza pari a tre anni, come sopra specificato, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte.

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2. Nullità clausole di esclusione del bando e onere d’impugnazione degli atti conseguenti

Con la decisione n. 22 del 2020, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sulle conseguenze della nullità della clausola del bando di gara per violazione della tassatività delle clausole di esclusione e sul relativo regime processuale, enunciando le seguenti massime:
–                la nullità della clausola, ai sensi dell’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016 (precedente codice dei contratti pubblici rispetto al d.lgs. 36/2023) configura un’ipotesi di nullità parziale limitata alla clausola, da considerare non apposta, che non si estende all’intero provvedimento, il quale conserva natura autoritativa;
–                i provvedimenti successivi adottati dall’amministrazione, che facciano applicazione o comunque si fondino sulla clausola nulla, ivi compresi il provvedimento di esclusione dalla gara o la sua aggiudicazione, vanno impugnati nell’ordinario termine di decadenza, anche per far valere l’illegittimità derivante dall’applicazione della clausola nulla.
Nello specifico, il bando di gara, che subordinava l’avvalimento dell’attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, di quella stessa attestazione propria dell’impresa ausiliata, era da ritenersi illegittima, perché integrante un requisito ulteriore rispetto a quelli espressamente previsti dagli artt. 80 e 83 del precedente codice dei contratti pubblici.
In siffatta circostanza, l’ordinamento prevede la sanzione massima della nullità.
Stante la nullità della clausola, di carattere parziale, questa non si estende al provvedimento nel suo complesso (vitiatur sed non vitiat).
La nullità, d’altro canto, impedisce all’amministrazione di porre in essere atti ulteriori, che si fondino su quella clausola, rendendoli altrimenti illegittimi, attesa l’autoritatività di tali atti applicativi, annullabili secondo le regole ordinarie.
Ne consegue che, al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara, non vi è l’onere per l’impresa di proporre alcun ricorso: la clausola è inefficace, improduttiva di effetti; pertanto, deve considerarsi non apposta.
Gli atti successivi sono invece annullabili, secondo le regole generali.
Secondo la Plenaria, non possono considerarsi applicabili l’art. 21 septies della legge 241 del 1990 e l’art. 31 del codice del processo amministrativo, i quali si riferiscono ai casi in cui un provvedimento sia nullo ed integralmente improduttivo di effetti: la clausola escludente affetta da nullità, in base al principio vitiatur sed non vitiat, già affermato dalla sentenza della Plenaria n. 9 del 2014, non incide sulla natura autoritativa del bando di gara quanto alle sue ulteriori determinazioni.
Come anticipato, i successivi atti del procedimento basati sulla clausola nulla, inclusi quelli di esclusione di aggiudicazione, sono soggetti al termine d’impugnazione previsto dall’art. 120 c.p.a., entro il quale si può chiedere l’annullamento dell’atto di esclusione (e degli atti successivi) per illegittima applicazione della clausola escludente nulla.
Se ci pensiamo bene, la ratio di questa decisione è la medesima che è stata assunta dalla Cassazione, al fine di conferire certezza ai rapporti della stessa società con i terzi.
Allo stesso modo, nel diritto amministrativo, la certezza delle situazioni giuridiche ormai cristallizzate e non contestate, non opera certo un ridimensionamento della portata imperativa della nullità, ma si coniuga con un principio fondamentale del nostro sistema amministrativo (la tendenziale incontrovertibilità degli atti della p.a., a vantaggio di chi vi faccia affidamento).
D’altra parte, anche nel più generale quadro civilistico, l’azione di nullità rischia di rimanere priva di effetti, ove non coniugata con altri rimedi processuali (in questo caso, si verifica una sorta di decadenza ex post rispetto alla possibilità di far valere un diritto).
Si pensi al pagamento eseguito sulla base di un contratto nullo, che dà luogo a un’azione di ripetizione dell’indebito finalizzata a ottenere la condanna alla restituzione della somma versata, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data di pagamento.
Com’è noto, se da un lato l’azione di accertamento della nullità è imprescrittibile, ai sensi dell’art. 1422 c.c., dall’altro, l’azione di ripetizione delle prestazioni effettuate in forza del contratto dichiarato nullo resta soggetta, ex art. 2033 c.c., al termine ordinario di prescrizione decennale.
Tale termine, in conformità a quanto statuito dalla Suprema Corte, inizia a decorrere dalla data in cui è stata eseguita la prestazione derivante dal negozio nullo, vale a dire dalla data del pagamento della somma della quale si chiede la restituzione.
Se, quindi, l’investitore potrà sempre invocare la nullità di un investimento in strumenti finanziari, non potrà più ottenere la restituzione dell’importo corrisposto per l’investimento, decorsi 10 anni dal pagamento.
L’interrelazione tra nullità ed effetti della decadenza si possono evidenziare, in una prospettiva rovesciata, anche in ipotesi di mancata trascrizione del contratto definitivo entro un anno dalla data convenuta dalle parti per la sua stipulazione (o, in ogni caso, nell’ipotesi in cui, entro tre anni dalla trascrizione del preliminare non sia stato trascritto anche il definitivo).
In siffatta evenienza, i tre anni (decadenziali) passati indarno producono l’inefficacia totale, la cessazione degli effetti della trascrizione (in termini di opponibilità ai terzi), che si considerano mai prodotti (in maniera analoga a quanto avviene con la nullità, che opera ex tunc).
In questo particolare frangente, la nullità (o comunque la cessazione degli effetti oppositivi della trascrizione) è un effetto dell’intervenuta decadenza dall’onere di esercitare il diritto in tempi dati.
Nullità, decadenza e prescrizione hanno, quindi, su più terreni di collegamento giuridico, intrapreso una partita doppia, a volte in contrapposizione, altre volte, dandosi la mano, secondo una logica di continuità, sul piano delle conseguenze giuridiche, come si è tentato di rappresentare, sebbene sinteticamente, in questo breve scritto.

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Paola Marino

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