Nei maltrattamenti in famiglia non hanno importanza le differenze di religione e di cultura 

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Secondo la Suprema Corte di Cassazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o la famiglia non potrà invocare come scriminanti le differenze culturali e religiose.

Simili comportamenti non sono compatibili con il diritto italiano.

Il cittadino straniero non potrà invocare, i connotati della cultura o religione del suo paese, come causa di giustificazione per il reato di maltrattamenti commesso ai danni della compagna, perché compiendo la scelta di vivere in Italia, non è possibile e il rispetto della persona umana, ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione, assume un posto centrale, in modo che sia possa essere consentito instaurare una società civile multietnica.

Prima di parlare della questione specifica, scriviamo qualcosa sul reato di maltrattamenti in famiglia.

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Il reato di maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti in famiglia è previsto e punito dall’articolo 572 del codice penale, e ha come fine la tutela della la salute  e dell’integrità psico-fisica di persone appartengono a un contesto familiare o para familiare.

La formulazione attuale della norma è dovuta alla riforma del 2012, che ha trasformato i maltrattamenti in famiglia o verso bambini nel reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, modificandone la disciplina e conferendo al delitto in questione una portata più ampia.

Attualmente, in particolare, il reato conosciuto come maltrattamenti in famiglia si configura ogni volta che qualcuno maltratta una persona che appartiene alla sua famiglia o che convive con lui o una persona sottoposta alla sua autorità o che gli è stata affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

A  differenza di quello che accadeva in passato, si considerano delle persone di famiglia non esclusivamente il coniuge, i consanguinei, gli affini, gli adottati e gli adottanti.

Il concetto è stato esteso anche al convivente more uxorio, e a coloro che sono in qualche modo legati da un rapporto di parentela con il maltrattante e ai domestici  che convivono con lui.

In relazione alle persone che di questi tempi possono essere vittima del reato in questione, si può dire che, come la giurisprudenza di legittimità (sent. Cass. n. 31121/2014) ha avuto modo di precisare, “sussiste il delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. ogni volta che la relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà”.

In relazione alla portata del termine maltrattamenti, stando all’avviso della dottrina e la giurisprudenza consolidate si può classificare come “maltrattante” qualsiasi complesso di atti prevaricatori, vessatori e oppressivi reiterati nel tempo, tali da produrre nella vittima un’apprezzabile sofferenza fisica o morale, o anche da pregiudicare il pieno e soddisfacente sviluppo della personalità della stessa.

Alcuni anni fa fece molto scalpore la sentenza della Suprema Corte di cassazione numero 36503/2011, che ha confermato la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti di una madre e di un nonno che, per “eccesso di protezione e attenzioni”, avevano impedito un armonico sviluppo psico-fisico del figlio/nipote.

Da quello che è stato scritto in precedenza, si possono dedurre le caratteristiche del reato di maltrattamenti in famiglia.

Si tratta di un reato perché non può essere integrato da chiunque ma esclusivamente da coloro che si trovano in una determinata posizione rispetto alla vittima.

Oltre a questo, si deve sottolineare che è un reato abituale, perché i comportamenti posti in essere dal soggetto attivo possono non avere rilievo giuridico se vengono considerate in modo singolo, ma diventano illecite in seguito al loro protrarsi nel tempo.

Al fine della configurazione dei maltrattamenti in famiglia, è richiesto il dolo generico, vale a dire, la coscienza volontà di generare nella vittima, con quel determinato comportamento, una serie di conseguenze negative.

La pena base per il reato di maltrattamenti in famiglia è quella della reclusione da due a sei anni di reclusione, che può essere aggravata se dal fatto deriva una lesione personale grave edè prevista la reclusione da quattro a nove anni.

Se dal fatto deriva una lesione personale gravissima è prevista la reclusione da sette a quindici anni.

Se dal fatto deriva la morte è prevista la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

La giurisprudenza della Corte di cassazione ha avuto a che fare con il reato di maltrattamenti in famiglia diverse volte.

In relazione alle specifiche circostanze, sono state pronunciate le relative sentenze.

Ritorniamo all’articolo.

La condanna per violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia

La terza sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, lo ha messo in evidenza con la sentenza n. 8986/2020 pronunciandosi sul ricorso di un uomo condannato per violenza sessuale e per i reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate in danno della convivente more uxorio.

La difesa dell’imputato lamenta che, in relazione a questi reati, non sia stata attribuita importanza scriminante o anche esclusivamente preminenza ai fini della dosimetria della pena, alle particolari connotazioni culturali e religiose dell’imputato.

La Suprema Corte, da parte sua, ha respinto con fermezza questa doglianza.

La decisione della Suprema Corte di Cassazione

Secondo i Giudici Supremi, è “apodittica” la conclusione per la quale i comportamenti  molto gravi di maltrattamento e lesioni descritte nelle sentenze di merito si dovrebbero dire scriminate,  a norma dell’articolo 51 del codice penale, attribuendo importanza alle “differenze culturali e religiose dell’imputato” è incomprensibile prima che in diritto in fatto.

Si è ribadito il principio secondo il quale, in tema dì cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia, ad esempio, maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare, non può invocare, neanche in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto legata a facoltà riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, se il diritto in questione, si debba ritenere non compatibile in modo oggettivo, con le regole dell’ordinamento italiano, nelle quali l’agente ha scelto di vivere.

Il perché risiede nel fatto che l’esigenza di valorizzare, in linea con l’articolo 3 della Costituzione, la centralità della persona umana, come principio capace di armonizzare le culture individuali che rispndono a culture diverse, e di consentire di instaurare una società civile multietnica.

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