Natura ed effetti dell’abbandono del fondo servente ex art. 1070 c.c..

Roberta Puglia 15/04/14
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Ai sensi dell’art. 1027 c.c. “la servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo”, denominato fondo servente, “per l’ utilità di un altro fondo appartenente ad altro proprietario”, denominato fondo dominante. Una volta osservato il suddetto schema legale, i privati possono riempire la servitù di un contenuto liberamente determinato, a meno che non vogliano riferirsi integralmente alla regolamentazione dettata dalla legge per una delle servitù tipiche.

In conformità a tale schema legale, a carico del proprietario del fondo servente non possono essere imposti obblighi positivi, bensì esclusivamente obblighi accessori e strumentali che esulino dal contenuto essenziale della servitù, quale, ad esempio, l’ obbligo di pagare le spese necessarie all’uso o alla conservazione della servitù.

L’ operatività dell’art. 1070 c.c., dunque, può prospettarsi relativamente all’ ipotesi in cui il proprietario del fondo servente, per espressa previsione legislativa o sulla base di apposita pattuizione convenzionale, risulti tenuto all’ esecuzione di talune prestazioni accessorie e strumentali al soddisfacimento dell’ utilità del fondo dominante (nel caso di specie, il pagamento delle spese necessarie all’ uso o alla conservazione della servitù), di talché non si prospetta alcuna violazione del principio di derivazione romanistica “nemini res sua servit”.

Le obbligazioni di tale tipologia, che rinvengono un riferimento normativo anche nell’ art. 1030 c. c., sono considerate dalla dottrina maggioritaria alla stregua di “obbligazioni propter rem”. Con tale espressione si fa tradizionalmente riferimento ad obbligazioni il cui soggetto passivo risulta individuabile in virtù della titolarità del diritto di proprietà su di un dato bene, e che sono caratterizzate da ambulatorietà, in quanto obbligato al pagamento delle stesse risulta tenuto l’ eventuale successivo acquirente del bene. Tali vincoli giuridici rappresentano una commistione di elementi obbligatori ed elementi reali,  in quanto ad una struttura tipicamente obbligatoria aggiungono un collegamento particolarmente penetrante con un dato bene.

Tuttavia, la disciplina applicabile risulta pur sempre quella relativa ai vincoli obbligatori; infatti, in ipotesi di eventuale inadempimento, il proprietario del bene cui risulta collegata l’ obbligazione risponderà con tutti i suoi beni presenti e futuri, in conformità alla disciplina contenuta all’ interno dell’ art. 2740 c.c..

Ai sensi dell’art. 1070 c.c., il proprietario del fondo servente, quando è tenuto in forza del titolo o della legge al pagamento delle sopracitate spese, può sempre liberarsene, rinunciando alla proprietà del fondo servente in favore del proprietario del fondo dominante. Nel caso in cui  l’esercizio della servitù sia limitato ad una parte del fondo la rinunzia può limitarsi alla parte stessa.

Il primo comma dell’art. 1070 c.c. ripete quasi alla lettera l’art. 643 cod.civ. 1865. In più vi si dice che il proprietario del fondo servente può rinunziare all’immobile e, con ciò, liberarsi dall’obbligo di pagare le spese anche se gli era tenuto ad esse per legge; invece nel cod. civ. 1865 si parlava soltanto di obbligazione discendente dal titolo e si sarebbe potuto dubitare[1] se l’abbandono liberatorio riguardasse soltano quest’ultima ipotesi. Ad ogni modo i casi cui si riferisce il codice nuovo, quando accenna alla legge, sono evidentemente contenuti negli art. 1030, 1045 ultima parte, 1069 terzo comma e 1091 c.c..

Ciò per quel che attiene alla fonte; quanto poi alla natura delle spese delle quali ci si può liberare con la derelictio del fondo, è chiaro che vi rientrano quelle dell’art. 1030 c.c., il quale le ricomprende implicitamente con la sua dizione generica, dove l’erogazione di somme è diretta “a rende possibile l’esercizio della servitù”, così come quelle dell’art. 1069 c.c. che son necessarie per conservarle: ecco il senso delle parole “per l’uso e per la conservazione”[2].

La natura e gli effetti del c.d. abbandono liberatorio previsto dall’art. 1070 cod.civ. non è pacifica. 
Se infatti è chiaro che per effetto della rinunzia il bene viene posto a disposizione del titolare del fondo dominante, non è altrettanto certo che cosa accada qualora costui non tenga un contegno in qualche modo espressivo della volontà di appropriarsene.

Secondo una prima opinione[3], la rinunzia ha quale effetto l’immediata liberazione del debitore e la altrettanto subitanea perdita della proprietà da parte del titolare del fondo servente. Il titolare del fondo dominante potrebbe, nel termine di dieci anni a far tempo dalla dichiarazione di abbandono, acquistare il fondo all’esito di una manifestazione di volontà in tal senso. In difetto di essa si potrebbe fare ricorso al modo di disporre dell’art. 827 cod.civ.: la proprietà passerebbe allo Stato[4].

Considerando, dunque, l’abbandono come una normale rinunzia, il fondo servente, in base all’art. 827 c.c., diventerebbe di proprietà dello Stato e quindi resterebbe da spiegare come tale proprietà, invece, possa essere acquistata successivamente dal titolare della servitù.

Si è, allora proposto di considerare l’abbandono come un atto unilaterale, che è rivolto alla controparte, non in forma di una promessa di contrattare, ma che tuttavia è tale da potersi convertire, una volta che il titolare della servitù, abbia accettato, in una proposta vera e propria. A favore di tale costruzione viene invocata la formulazione dell’articolo 1070 c.c..[5]

L’atto di abbandono costituirebbe una rinunzia irrevocabile che, appena emessa ed indipendentemente dall’accettazione o meno del vicino, libera il rinunciante dall’obbligo di pagare le spese[6]. Il titolare della servitù, se vuole, diventa proprietario del fondo, ma con un atto formale di accettazione, che dovrà essere scritto, e nei confronti dei terzi, trascritto: i due atti messi insieme, anche se sono indipendenti tra loro e se il primo, fino ad un certo segno, ignora, per così dire, il secondo, danno vita a posteriori ad un vero contratto di alienazione della proprietà, che appunto per questo abbisogna nei due momenti dei requisiti di forma normali. La rinunzia, benchè irrevocabile, non priva del diritto di proprietà sull’immobile che ad essa ha ricorso; ciò accadrà solo ad accettazione avvenuta da parte del titolare della servitù; in tal modo non vi sarebbe soluzione di continuità tra il momento dell’abbandono e quello del nuovo acquisto, nel senso che non vi sarebbe seppure un istante in cui il fondo diventi res nullius e quindi la sua proprietà venga acquistata dalo Stato.

Se si può concordare sul fatto che dall’abbandono non può derivare senz’altro la perdita della proprietà del proprio fondo da parte del soggetto gravato dalla servitù, tale costruzione comporta, tuttavia, la anomalia di una proposta che non sarebbe tale nel momento in cui viene emessa, ma lo diventerebbe solo dopo la sua accettazione, e di due atti indipendenti tra loro, che, però, a posteriori danno vita ad un contratto, in deroga al principio generale secondo il quale la conclusione di un contratto presuppone lo scambio di proposta e accettazione. Sembra, pertanto, preferibile ritenere che a seguito dell’abbandono nasce a favore del proprietario del fondo dominante il diritto potestativo di appropriarsi del fondo servente per effetto di un atto unilaterale[7].

Un’altra tesi ritiene che, invece, quello previsto dall’art. 1070 c.c. sia un atto unilaterale che produce l’effetto di dismettere immediatamente la proprietà del fondo abbandonato, offrendola contestualmente a titolo gratuito al titolare di quello dominante. Nel caso in cui quest’ultimo non aderisca all’offerta non rimane che applicare l’art. 827 c.c.,  con conseguente acquisto da parte dello Stato[8].

Ad ogni modo il proprietario del fondo servente potrebbe rinunciare al suo diritto sul bene anche per ragioni diverse dalla semplice liberazione dagli obblighi ad esso inerenti,  ad esempio dietro pagamento di un corrispettivo. E’ chiaro che, in un caso del genere, collocandosi la rinuncia in un piu ampio regolamento di interessi, non potrà più parlarsi di rinuncia meramente abdicativa bensì di rinuncia a contenuto contrattuale[9].

E’ tuttavia prevalente il parere secondo il quale la proprietà non venga immediatamente perduta dal titolare del fondo servente, permanendo per la durata di dieci anni la possibilità dell’apprensione da parte del titolare del fondo dominante. Decorso il decennio il fondo rimarrebbe definitivamente in capo all’antico titolare, il quale viene tuttavia liberato dalle obbligazioni accessorie[10].

Durante il periodo in cui, in ragione della rinunzia, il bene è messo a disposizione del titolare della servitù, il rinunziante non può compiere alcun atto di disposizione[11].

L’abbandono ha efficacia liberatoria anche per quanto riguarda le spese che dovevano essere fatte e non solo per quelle future: l’abbandono, infatti, ha un senso proprio in quanto libera il soggetto da un’obbligazione già sorta. Una conferma di tale conclusione è desumibile dall’art. 1070 c.c. (“è tenuto”), la quale non potrebbe riferirsi ad un vincolo puramente eventuale, non ancora maturato, per il quale, del resto, sarebbe stata superflua la previsione: è intuitivo il principio per cui una volta sciolto il rapporto con il fondo, non si è più obbligati iure servitutis per le necessità insorte successivamente.

L’abbandono può avvenire in qualunque momento, anche quando sia intervenuta una condanna alle spese. In tal senso, depongono da un lato la formulazione dell’art. 1070 c.c., secondo il quale il proprietario del fondo servente può “ sempre liberarsi dalle spese, e, dall’altro, la considerazione intuitiva che non può esservi differenza tra il momento in cui l’obbligo c’è, ma non è ancora accertato, e quello in cui sia anche dichiarato dal giudice. In tale prospettiva l’abbandono può essere efficace anche quando il credito per spese sia accertato con sentenza passata in giudicato.

La rinuncia, però, non produce effetti per le spese venute in essere per fatto del medesimo proprietario del fondo servente[12].

Ugualmente la rinunzia non produce effetti per il risarcimento da danni che derivano dall’inadempimento o dal ritardo; al risarcimento l’inadempiente è sempre tenuto, in quanto il danno deriva dal non avere né eseguito né fatto l’abbandono[13].

Il secondo comma dell’articolo in commento prevede che in caso in cui l’esercizio della servitù sia limitato ad una parte del fondo, la rinunzia può limitarsi a tale parte.

L’ipotesi in questione riguarda sicuramente l’ipotesi in cui in base al titolo la servitù grava soltanto su una parte determinata del fondo ( ad ex. servitù di passaggio o di acquedotto col tracciato specificato nel titolo).

In dottrina si ritiene, peraltro, che l’abbandono liberatorio è configurabile anche quando, pur dovendosi ritenere gravato l’intero fondo, il luogo di esercizio della servitù risulta posseduto da più di dieci anni o fissato dal giudice in base all’art. 1065 c.c.[14], oppure che se risulta individuato un luogo di normale esercizio della servitù, salvo sempre l’esercizio sulle altre parti nel caso che quello si renda malagevole, potrebbe esservi liberazione dall’obbligo con abbandono della parte su cui normalmente si esercita la servitù, almeno se l’obbligo di riparazioni si limita a questa parte[15].

L’abbandono liberatorio si deve distinguere tanto dalla mera derelictio, in quanto questa, quale atto giuridico in senso stretto, è unicamente idonea a produrre la perdita del possesso, tanto dalla rinuncia in senso tecnico, dal momento che, a differenza dell’abbandono, questa è in grado unicamente di liberare il debitore dalle obbligazioni che sorgeranno successivamente alla rinunzia[16].

Secondo la giurisprudenza, la rinunzia produce in via immediata l’estinzione dell’obbligazione in capo al rinunziante indipendentemente dall’accettazione del proprietario del fondo dominante[17], mentre l’effetto traslativo è subordinato al consenso del beneficiario da manifestarsi con atto formale di accettazione che dovrà essere scritto e trascritto.

La rinunzia e la dichiarazione di appropriazione del fondo, che in quella ha il suo presupposto, devono farsi con atto scritto a norma dell’art. 1350 n.5, ed essere trascritte a norma dell’art.2643, n. 5[18].

La rinunzia al fondo comporta la liberazione del proprietario dalle obbligazioni assunte per titolo o per legge. Tale possibilità sussiste, tuttavia, solo per le obbligazioni aventi ad oggetto spese necessarie per l’uso e la conservazione della servitù. Pertanto, ad esempio, non può aversi abbandono liberatorio quando l’obbligazione sia sorta in forza di un fatto illecito del proprietario del fondo servente, perché l’obbligo è personale e trasmissibile soltanto agli eredi, oppure quando sia posta in essere una violazione dei doveri di cui all’art. 1067, 2° comma[19], cod.civ, o ancora per spese non necessarie aventi il carattere dell’accessorietà[20].

 

2.CONCLUSIONI

 

Occorre considerare che per l’intelligenza dell’art.1070 c.c., l’effetto liberatorio della obbligazione propter rem, costituita dal carico della spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù, non è legato all’acquisto della proprietà da parte del proprietario del fondo dominante, cioè a questa particolare conseguenza dell’abbandono; talchè, ove si ritenga che l’abbandono a “favore” del proprietario del fondo dominante non preveda un obbligo di acquisto da parte di costui, giudizialmente coercibile ovvero una obbligazione propter rem di contrarre, resterà comunque fermo che la notificazione della dichiarazione di abbandono, al proprietario del fondo dominante, realizza l’effetto liberatorio. Per quanto riguarda la conseguente e possibile perdita della proprietà, la derelictio nel nostro ordinamento non è configurabile per i beni immobili e per i mobili soggetti a trascrizione, né si può ammettere una derelictio “a favore” di qualcuno che non sia atto traslativo in itinere, un’offerta di acquisto che, nel caso di rifiuto o soltanto mancata accettazione, non realizza il contratto proposto, lasciando proprietario il proponente.

Se l’abbandono “ a favore” non giova parlare di rinuncia al diritt a favore di qualcuno, perché la rinuncia ad un diritto opera “ a favore” quando si risolve nella liberazione della obbligazione altrui, ovvero nel campo dei diritti reali, alla liberazione della compressione del diritto altrui. Ma la rinuncia alla proprietà, cioè la liberazione dell’obbligazione di non facere gravante erga omnes, se non è abdicativa, quando è fatta a favore di una persona determinata, può avere solo il valore di proposta di trasferimento del dominio, per la quale sarà necessaria l’accettazione. E qui delle due l’una: o la proposta deve essere accettata, talchè l’accettazione è un atto dovuto, o può essere rifiutata. Nella prima ipotesi, che lascia perplessi, dovrebbe propendersi per un effetto traslativo immediato e coattivo del dominio; nel secondo caso, che appare più aderente all’intento normativo, il rifiuto lascerà immutato il dominio ma farà salvo l’effetto liberatorio conseguente all’offerta in “favore”. Quanto al termine non fissato dalla legge, potrà essere fissato dal giudice su richiesta dell’offerta[21].

Roberta Puglia

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