Mobbing: elementi costitutivi e onere della prova

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MOBBING: una serie di atti vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione e di emarginazione, finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Si distinguono in dottrina e giurisprudenza due forme di mobbing:

verticale discendente o bossing, in cui la prevaricazione e la violenza vengono esercitate dal superiore gerarchico verso l’inferiore o più debole; ascendente quando esercitato in danno del superiore gerarchico;

orizzontale, applicato tra persone di pari grado.

Per poter parlare di mobbing, devono esserci le caratteristiche di sistematicità e durata: deve essere giornaliero, con una durata di sei mesi almeno; espletato attraverso angherie, vessazioni, demansionamento lavorativo, emarginazione, insulti, maldicenze, aggressioni fisiche e verbali, ostracizzazione, privando la vittima della possibilità di esprimersi in azienda, isolandola e escludendola dalle informazioni aziendali; screditandola attraverso dicerie e pettegolezzi; assegnando mansioni inutili e insignificanti; esasperandola con forme di controllo ripetute e ingiustificate o attraverso molestie sessuali. […] I singoli atteggiamenti molesti (o emulativi) possono anche non raggiungere necessariamente la soglia di reato né sono o possono essere di per sè illegittimi, ma nell’insieme sono suscettibili di produrre danni (essenzialmente a livello biologico ed esistenziale), con gravi conseguenze quindi sulla salute della vittima, sulla sua esistenza, e anche sul patrimonio, convincendola di cose non veritiere inerenti alla propria persona.[1]

 

Corte appello L’Aquila, sez. lav., 04/06/2015, n. 685

Fonti: Ilgiuslavorista.it 2015, 7 settembre

In termini di ripartizione dell’onere della prova in materia di mobbing, stante la natura contrattuale dell’illecito, grava sul lavoratore l’onere di provare tutta la serie di circostanze e accadimenti storici, poiché occorre che sia necessariamente che sia dimostrato l’intento persecutorio che avrebbe permeato le condotte datoriali. (Nella specie si è nel merito negato l’asserito demansionamento del lavoratore, in quanto le mansioni svolte dal dirigente medico – pur quantitativamente ridotte – non assumevano un contenuto professionale qualitativamente inferiore rispetto a quelle espletate in precedenza).

 

T.A.R. Roma, (Lazio), sez. II, 02/03/2015, n. 3421

Fonti: Foro Amministrativo (Il) 2015, 3, 902 (s.m)

La dequalificazione (o cd. demansionamento) si distingue da fenomeni piuttosto similari ad essa e, tra questi, spiccano principalmente le cd. vessazioni sul lavoro e cioè il cd. “mobbing” e il cd. “bossing”. Infatti, mentre “mobbing” e “bossing” rappresentano condotte datoriali illecitamente finalizzate a mortificare il lavoratore al di là di qualunque ragionevole misura con lo scopo, rispettivamente, di farlo sentire colpevolmente o incolpevolmente amareggiato (“mobbing”) e di allontanarlo dall’ambiente lavorativo (“bossing”), la dequalificazione professionale si estrinseca fondamentalmente nel denegato riconoscimento della qualifica impiegatizia acquisita dal prestatore di lavoro, previo affidamento, allo stesso, di incarichi che presentino un minor grado di responsabilità e di rilevanza all’interno dell’ufficio, incarichi che dovrebbero essere affidati al personale collocato nelle qualifiche inferiori. Ed è proprio la detta componente che vale a distinguere l’aspetto dequalificatorio da qualsiasi altro atteggiamento che non sia direttamente collegato alla qualifica rivestita dal soggetto dequalificato o in via di dequalificazione.

L’adibizione del dipendente a mansioni inferiori comporta, di regola, la sua dequalificazione professionale, ma se all’assegnazione si accompagna una condotta datoriale lesiva e denigratoria, cioè se l’attribuzione dei compiti di minore qualità si palesa quale pretesto finalizzato a vessare il dipendente, verrà a configurarsi un vero e proprio “mobbing”.

 

Corte appello Potenza, sez. lav., 08/07/2014, (ud. 12/06/2014, dep.08/07/2014), n. 454.

In linea generale, va detto che la negazione o l’impedimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, integrano una lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione sia patrimoniale sia, a prescindere dalla configurabilità di un reato, non patrimoniale, che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento (Cass. Sez.3 n. 7980/2004; n. 10/2002; n. 8828/2003; n. 8904/2003).

Viene, in tal modo, recepita una definizione “dinamica” del concetto di professionalità del lavoratore, intesa come combinazione tra il bagaglio di conoscenze, acquisite dalla persona operando nel settore di inquadramento e progressivamente affinate in ragione del trascorrere del tempo e la professionalità potenziale, che corrisponde, invece, a quanto il prestatore di lavoro può apprendere in relazione al contesto, organizzativo e di lavoro, che quotidianamente lo circonda.

Costituisce, quindi, demansionamento qualsiasi condotta datoriale che, per effetto del cattivo esercizio dello jus variandi, ossia in conseguenza dell’adibizione del lavoratore a mansioni qualitativamente inferiori a quelle contrattuali, rallenti o blocchi del tutto il processo evolutivo geneticamente impresso nel concetto di professionalità appena illustrato.

La violazione del diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione lavorativa è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicchè, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa- oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost. ovvero di poteri disciplinari, anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 c.c. la prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore (Cass. Sez.1 n. 17564/2006; n. 4766/2006; n. 13580/2001).

Tale pronuncia richiama perfettamente la fattispecie de quo, caratterizzata anche dal mancato riconoscimento del titolo di studio e della conseguente qualifica impiegatizia cui avrebbe diritto il sig. ****, anche a seguito del mancato invito a ricoprire il ruolo da ultimo assegnato ad un soggetto esterno, senza che il sig. ***** fosse stato informato.

Il risarcimento del danno da perdita di chance, presente nell’ordinamento francese da cui ha preso spunto l’esperienza italiana, è stato riconosciuto nel nostro Ordinamento da non molto tempo grazie all’opera interpretativa (decisiva) della Cassazione ed ha trovato applicazione in variegati settori, soprattutto quelli relativi alla responsabilità professionale sanitaria e dell’avvocato nonché, in ambito giuslavoristico, da cui, in verità, ha preso le mosse, quelli riguardanti molteplici fattispecie, come a titolo di esempio, il mancato avanzamento di carriera del dipendente nonostante i requisiti posseduti (cfr. Cass. 2013/8443), significandosi che “in tema è necessaria la allegazione e la prova di quegli elementi di fatto idonei a far ritenere che il regolare svolgimento della procedura selettiva avrebbe comportato una concreta, effettiva e non ipotetica probabilità di conseguire la promozione, in forza della quale probabilità si giustifica l’interesse stesso del lavoratore alla pronuncia di illegittimità della procedura selettiva, altrimenti insussistente (v. Cass S.U. 23/09/2013 n. 21678; Cass. 10/01/2014 n. 3771).

Viene meno ogni aspetto di responsabilità qualora il datore di lavoro abbia correttamente ed esaustivamente adempiuto ai suoi obblighi, sicché non sia possibile ravvisare a carico dello stesso alcun margine od elemento di colpa, con rigoroso onere probatorio su di lui incombente, laddove, in ipotesi contraria, la prova del nesso eziologico tra l’evento dannoso ed il danno subito dal lavoratore dipendente viene a gravare, esclusivamente, su quest’ultimo.

Siffatte osservazioni hanno, peraltro, trovato l’autorevole conforto della Corte Costituzionale, la quale, partendo dall’indefettibile presupposto che l’art. 2087 c.c. abbraccia ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo del lavoratore ad operare in un ambiente esente da rischi, ha posto in rilievo come la salute sia un bene primario, che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato, evidenziando, tra l’altro, che, a norma dell’art. 2087 cit., l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (v. Corte Cost., sent. n. 399 del 1996).

Quindi, in adempimento del principio della massima sicurezza “tecnologicamente possibile” vigente nel nostro ordinamento ai sensi del più volte richiamato art. 2087 (riaffermato anche dal D.Lgs. n. 626 del 1994) e non potendo le esigenze di sicurezza essere subordinate a criteri di fattibilità economica o produttiva, il datore di lavoro è tenuto a trovare le misure sufficienti a conseguire il fine della protezione della salute e dell’integrità fisica dei suoi dipendenti in modo conforme al principio direttivo costituzionale dell’art. 32.

E appunto perché norma di chiusura, volta a ricomprendere ipotesi e situazioni non espressamente previste, la disposizione di cui all’art. 2087 c.c., come del resto tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell’ordinamento alla sottostante realtà socio-economica, che possiede una dinamicità ben più accentuata di quella dell’ordinamento giuridico, legato a procedimenti e schemi di produzione giuridica necessariamente complessi e lenti; principio atto a giustificare questa valenza è, nella specie, quello del diritto, di derivazione costituzionale, alla salute ed all’integrità fisica, ormai acquisito per

via di interpretazione giurisprudenziale (da parte del giudice costituzionale, ordinario, amministrativo) in molteplici applicazioni.

[…] Analogo discorso deve farsi anche con riferimento al lamentato danno da mobbing, nel senso del demansionamento come condotta strumentale alla realizzazione del mobbing, precisandosi che quest’ultimo si configura a fronte della reiterazione di comportamenti persecutori e vessatori, posti in essere dal datore di lavoro o dai colleghi e, quindi, si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo dell’equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

  1. a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stai posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio,
  2. b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  3. c) il nesso eziologico tra condotta del datore di lavoro o superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore,
  4. d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cass. Sez. lav. n. 3785/2009).

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, Sentenza 5 ottobre 2009, n. 21223.

Le Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 6572/06, nel comporre il contrasto sorto in senso alla sezione lavoro della Cassazione, hanno sancito che “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.

 

Cass. civ. sez lav 23 maggio 2013, n. 12725

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

 

QUANDO SI ESCLUDE IL MOBBING?

  • Quando manca la sistematicità degli episodi, ovvero i presunti comportamenti lesivi siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all’assetto dell’apparato amministrativo o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (Cons. Stato, sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2015);
  • quando la valutazione complessiva delle circostanze addotte e accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminatorio nei confronti del singolo dal complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (Cons. Stato, n. 4738/2008).

 

LA RILEVANZA PENALE DEL MOBBING

Non essendovi una fattispecie normativa ad hoc, il fenomeno può essere sussunto nell’alveo di diverse figure di reato, ove ne ricorrano i presupposti. In prticolare, Cass. pen. sez. Vi, 20 marzo 2014, n. 13088 ha precisato che il mobbing può integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia qualora le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente capace di assumere una natura parafamiliare in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (…). Con la conseguenza che non è configurabile (…) laddove non siano riconoscibili quelle particolari caratteristiche, ad esempio se la vicenda si è verificata nell’ambito di una realtà sufficientemente articolata e complessa, in cui non è ravvisabile quella stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente”.

 

RIMEDI ESPERIBILE DAL LAVORATORE VITTIMA DI MOBBING.

  • RISARCIMENTO DEL DANNO PATRIMONIALE E NON PATRIMONIALE;
  • DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA;
  • RIFIUTO DI ADEMPIERE la prestazione ai sensi dell’art. 1460 c.c. (eccezione di inadempimento);
  • AZIONE DI ADEMPIMENTO al fine di ottenere la rimozione degli atti persecutori (anche in via cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c.).

 

Per completezza, si ricorda che in seguito alle recenti riforme introdotte con il “Jobs Act”, a partire dal 12 marzo 2016 le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dovranno essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche.

Il lavoratore potrà scegliere tra due opzioni:

inviare il nuovo modulo autonomamente tramite il sito del Ministero del Lavoro. In questo caso è necessario munirsi del Pin INPS Dispositivo, accedendo al portale dell’Istituto o recandosi in una delle sue sedi. Si potrà così accedere al form online che permetterà di recuperare le informazioni relative al rapporto di lavoro da cui si intende recedere dal sistema delle Comunicazioni Obbligatorie. Per i rapporti instaurati precedentemente al 2008, invece, il lavoratore dovrà indicare la data di inizio del rapporto di lavoro, la tipologia contrattuale e i dati del datore, in particolare l’indirizzo email o PEC. Nell’ultima fase dovranno essere inseriti i dati relativi alle dimissioni o alla risoluzione consensuale o alla loro revoca.

rivolgersi ad un soggetto abilitato (patronato, organizzazione sindacale, ente bilaterale, commissioni di certificazione, consulenti del lavoro, sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro) che avrà il compito di compilare i dati e inviarli al Ministero del Lavoro. Ogni modulo salvato, dai soggetti abilitati o dai lavoratori, sarà caratterizzato da due informazioni identificative: la data di trasmissione (Marca temporale) e un codice identificativo coerente con la data. Il lavoratore ha sempre la possibilità di revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale entro 7 giorni successivi alla comunicazione.

 

IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO: a pena di decadenza, entro 60 giorni dal licenziamento, inoltrare al datore di lavoro una comunicazione in qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, nel quale si manifesta la volontà di impugnare il licenziamento; a pena di inefficacia, nei successivi 180 giorni, promuovere ricorso giurisdizionale o procedere al tentativo di conciliazione. Se la conciliazione o l’arbitrato vengono rifiutati, o se non si raggiunge l’accordo, il ricorso deve essere proposto entro 60 giorni dal rifiuto o mancato accordo.

 

INTIMAZIONE DEL LICENZIAMENTO.

– obbligo di forma scritta – motivazione contestuale; requisiti a pena di inefficacia del licenziamento. Se manca la giusta causa (condizione imputabile al lavoratore che renda improseguibile il rapporto[2]) o giustificato motivo (inerente l’organizzazione dell’attività), non essendo applicabile la tutela ex art. 18 St. Lav. (L. 300/1970) trattandosi di “azienda” con meno di 15 dipendenti, né la cd tutela crescente introdotta dal jobs act perché il contratto è stato stipulato antecedentemente, rimane l’area di tutela disposta dall’art. 8 L. 604/1966:

Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro e’ tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”.

Qualora venisse intimato il licenziamento, senza giustificato motivo o in assenza di giusta causa, si avrebbe pertanto diritto, alternativamente a:

– ricostituzione ex novo del rapporto di lavoro;

– risarcimento del danno, attraverso un’indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, fino a 10 mensilità per chi abbia un’anzianità di servizio superiore a 10 anni.

 

RAPPORTI TRA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA/COMMISSARIAMENTO DA PARTE DELLA BANCA D’ITALIA E DIMISSIONI VOLONTARIE

Da un punto di vista normativo, non esiste una specifica norma di legge che regoli le conseguenze della dichiarazione di fallimento sul rapporto di lavoro subordinato. La norma che più si avvicina ad una regolamentazione diretta è l’art. 2119 II comma c.c.: non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. La cessazione del rapporto di lavoro, dunque, nel segno della spersonalizzazione dell’azienda (come si esprime efficacemente Cass. n. 8617/2001) non deriva automaticamente dal fallimento dell’imprenditore o dalla liquidazione coatta dell’azienda, ma può aversi solo a seguito del licenziamento intimato dal curatore o, naturalmente, in caso di dissoluzione della realtà aziendale.

Questo principio è perfettamente applicabile all’ipotesi della liquidazione coatta amministrativa della *** o eventuali procedure interdittive/sanzionatorie che potrebbe disporre la Banca d’Italia in seguito ad ispezioni che accertino irregolarità o sofferenze dell’istituto. Non sarebbero, pertanto, circostanze valevoli come “giusta causa” delle dimissioni che il lavoratore volesse rassegnare.

 

 

[1] Fornari, Trattato di psichiatria forense, IV ed., Torino, 2010, cit. in TOPPETTI, Il danno psichico e la prova nel processo, 2016, Maggioli editore, p. 218.

[2] La Corte Suprema con sentenza n. 24260 del 29 novembre 2016: alla stregua del principio secondo cui, l’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore, che non si contenga entro i limiti del rispetto della verità oggettiva e si traduca in una condotta lesiva del decoro dell’impresa, costituisce violazione del dovere di fedeltà ex art. 2105 c.c. ed è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, tale da integrare una giusta causa di recesso datoriale.

Avv. Manisi Antonella

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