Maternità e lavoro: discriminazione per stato di gravidanza

Erika Borria 13/04/21
Ai sensi dell’art. 37 della Costituzione italiana: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Nel nostro ordinamento giuridico il D.Lgs. 11 aprile 2006 n. 198, c.d. Codice delle Pari opportunità tra uomo e donna, si è specificamente occupato di riunire tutte le disposizioni vigenti in materia di pari opportunità, al fine di una loro coordinazione, per prevenire e rimuovere ogni forma di discriminazione basata sul sesso.

I primi due commi dell’art. 25 del suddetto decreto legislativo disciplinano tanto le c.d. discriminazioni dirette quanto quelle indirette, laddove con le prime si fa riferimento a comportamenti esplicitamente pregiudizievoli per un sesso piuttosto che per un altro, e con le seconde a condotte che, seppur apparentemente neutre, pongono una delle parti in una situazione di particolare svantaggio.

Con il D.Lgs. 25.01.2010 n. 5 (c.d. di rifusione) di attuazione della direttiva 2006/54/CE è stato introdotto il comma 2bis all’articolo in esame, il quale dispone: “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni   trattamento   meno   favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.

Il principio di non discriminazione nell’ordinamento UE

Il quadro normativo europeo in materia di lotta alle discriminazioni di genere è molto vasto. In particolare, ai sensi dell’art. 157 TFUE: “Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”.

Inoltre, nel corso degli anni, la Comunità europea ha adottato diverse direttive volte a promuovere l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento in materia di occupazione tra uomo e donna, tra le ultime ricordiamo la direttiva 2010/18/UE che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale.

Grazie a molteplici pronunce da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea, la normativa in esame ha goduto di un certo sviluppo interpretativo mediante il quale, oggi, è possibile beneficiare di una maggior tutela dinanzi a discriminazioni che, in passato, non meritavano lo stesso tipo di considerazione.          

Tra le più importanti, si citano in questa sede, le decisioni CGUE, C-177/88, Dekker del 14 Novembre 1989 e CGUE, C-179/88 Hoejesteret dell’8 novembre 1990 le quali hanno stabilito che, laddove il datore di lavoro dovesse rifiutare di assumere o addirittura licenziare una donna poiché in stato di gravidanza, la condotta costituirebbe una discriminazione diretta basata sul sesso poiché solo le donne sono in grado di rimanere incinte. La Corte di Giustizia, inoltre, ha sottolineato che tale tipo di discriminazione non può essere giustificata neppure sulla base dell’interesse economico del datore di lavoro.

Il mancato rinnovo del contratto a termine e il procedimento applicabile

 

Lo scorso 26 febbraio 2021 la Cassazione civile, sezione lavoro, con sentenza n. 5476 ha definito come discriminatoria la condotta del datore di lavoro che abbia concesso il rinnovo dei contratti di lavoro a tutti i colleghi aventi le medesime condizioni della ricorrente e non, invece, a quest’ultima, la quale si trovava in stato di gravidanza.

È bene precisare, in virtù di un’analisi più dettagliata del caso de quo, che il mancato rinnovo di un contratto a termine da parte del datore di lavoro non può certamente essere equiparato ad un licenziamento. Infatti, il datore di lavoro ha il diritto di non procedere con il rinnovo di un contratto a termine al momento della sua scadenza; tuttavia, laddove tale rinnovo fosse intervenuto in assenza dello stato di gravidanza della lavoratrice, si instaurerebbero i requisiti per una discriminazione di genere.

Il D.Lgs. 1° settembre 2011 n. 150 ha ricondotto il procedimento contro le discriminazioni di genere al modello del rito sommario di cognizione ex art. 702bis c.p.c..

In merito all’onere della prova, il Codice delle Pari Opportunità ha stabilito, all’art. 40, che questo grava sulla parte convenuta la quale deve dimostrare l’insussistenza della discriminazione, dovendo invece la parte ricorrente fornire “elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso”.

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Erika Borria

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