Maltrattamenti in famiglia, la moglie che vuole lasciare il tetto coniugale

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La presenza di maltrattamenti in famiglia e la sussistenza del reato non fanno perdere il diritto al mantenimento o all’affidamento dei figli.

Quello che conta è la giusta causa dell’allontanamento dal tetto coniugale.

Se un marito non ti rispetta sua moglie, la insulta in continuazione anche in presenza di altre persone, non l’aiuta nella gestione della casa, non le dà i soldi che servono a mandare avanti i figli, si creano  insopportabili condizioni.

In simili circostanze, ci si chiede se le mogli maltrattate possono andare via di casa.

La domanda risulta lecita in relazione al fatto che l’allontanamento dal tetto coniugale costituisce un comportamento vietato dalla legge, che potrebbe costare alla moglie il cosiddetto “addebito”, vale a dire la responsabilità per la fine del matrimonio.

Le mogli in questione, non vogliono correre il rischio di perdere il mantenimento in caso di separazione, oppure l’affidamento dei figli.

Il ricatto del marito si potrebbe rivolgere ai figli.

Potrebbe intimare alla moglie che se se ne va le porta via i figli e non glieli fa più vedere.

In merito a simili scenari ci sono tre recenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione pubblicate che chiariscono in che modo ci si deve comportare in frangenti delicati come questi.

In questa sede si prenderanno in considerazione quali siano i consigli forniti dalla giurisprudenza.

Convivenza insopportabile: legittimo l’allontanamento da casa?

Il matrimonio si fonda sulla convivenza, di conseguenza l’abbandono del tetto coniugale fa scattare una responsabilità sul coniuge colpevole di un simile comportamento.

In caso di separazione, il giudice dichiara il cosiddetto “addebito”, vale a dire la perdita dei diritti di successione e del diritto all’assegno di mantenimento.

Le condizioni per le quali si possano configurare simili circostanze sono:

L’allontanamento definitivo

Il coniuge deve andare via di casa con l’intenzione di non ritornare mai più.

Sono escluse le crisi provvisorie, come la pausa di riflessione di qualche giorno.

L’allontanamento deve essere immotivato

In presenza di motivi gravi, come la tutela della incolumità personale o dei propri figli,  l’allontanamento non viene più considerato una colpa.

Le motivazioni che possono portare il coniuge a lasciare la casa devono essere valide e non si devono basare sul semplice litigio, tipico di qualunque convivenza.

L’allontanamento si deve porre come il mezzo per sottrarsi a una sofferenza peggiore, che sfociare in maltrattamenti, violenze, vessazioni morali e materiali, ingiurie, intimidazioni e simili.

In presenza di simili eventi, si comprende che la moglie maltrattata possa decidere di andare via di casa e, oltre a questo, potrebbe decidere di denunciare il marito senza paura di perdere l’affidamento dei figli o l’assegno di mantenimento nell’ipotesi nella quale il suo reddito non fosse sufficiente a garantirle la sua indipendenza economica.

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Il reato di maltrattamenti in famiglia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza numero 761 del 9 gennaio 2019, ha stabilito che il reato di maltrattamenti in famiglia scatta in presenza di una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro della vittima nei confronti della quale viene posta una sopraffazione sistematica, tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza.

Il colpevole deve avere agito con la volontà di avvilire e sopraffare l’altro coniuge, o anche il convivente.

Non rileva che durante il periodo di tempo considerato siano stati riscontrati periodi di normalità e di accordo tra le mura domestiche.

Se nonostante le vessazioni e le violenze, la moglie ha spesso perdonato il marito, non prendendo in considerazione i sui suoi comportamenti aggressivi,lo  può denunciare lo stesso.

In un precedente della Corte si può comprendere, attraverso il racconto fatto dalla donna, quando si configura il reato di maltrattamenti in famiglia.

Lei aveva sostenuto che nell’ambito di un rapporto conflittuale, all’inizio ha tentato, per esasperazione, di reagire ai comportamenti oltraggiosi, violenti e prevaricatori del marito, ma con il passare del tempo gli abusi compiuti dall’uomo avevano assunto un carattere di sistematica ed abituale sopraffazione, e lei si era in questo modo trovata in una situazione di sostanziale sudditanza rispetto a un uomo dal quale non era stata in grado, per lungo tempo, di separarsi, perché le aveva fatto diverse intimidazioni, tra le quali perdere i figli ed essere ridotta sul lastrico.

Secondo i Giudici della Cassazione non si deve mettere in discussione il reato di “maltrattamenti”, che erano ripetuti nel tempo.

Non assume significato il richiamo difensivo a eventuali «periodi di normalità, e persino di apparente accordo nei rapporti tra i coniugi.

I magistrati tengono a sottolineare che sono gravi e punibili anche quei comportamenti violenti che si verificano a intervalli di tempo e sono anche contrastate in modo infruttuoso dal coniuge.

Quello che conta è che abbiano finito per concretizzare una stabile alterazione delle relazioni di coppia, così da comportare una compromissione della dignità morale e fisica del coniuge vittima.

Sempre la Suprema Corte con la sentenza numero 12196 del 19 marzo 2019, ha spiegato che esistono due sono presupposti del reato di maltrattamenti in famiglia:

Più atti vessatori che causano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, anche se in un limitato contesto di tempo.

La coscienza e la volontà dell’attività vessatoria da parte del responsabile, tale da ledere la personalità della vittima.

La remissione della querela

Nella terza sentenza, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che neanche la remissione di querela può essere sufficiente a salvare il marito aggressivo dalla condanna se lo stesso, in seguito alla remissione, ha ripreso a porre in essere gli stessi comportamenti ai danni della moglie.

In simili ipotesi è evidente che la remissione della querela rappresenta esclusivamente un tentativo della moglie di riportare il sereno nel clima familiare, che non ha modificato la sua condizione di debolezza e di soggezione psichica rispetto al marito autore dei comportamenti vessatori.

Maltrattamenti in famiglia tra conviventi

Secondo la giurisprudenza (sent. n. 6506/19 dell’11/02/2019) il reato di maltrattamenti in famiglia si realizza anche tra coppie di fatto o tra coniugi che convivono più insieme.

Secondo la Corte, il reato di maltrattamenti in famiglia si può anche essere in danno della persona non convivente o non più convivente con chi lo pone in essere, quando costui e la vittima siano legati da vincoli di matrimonio, questo perché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie di reato.

 

 

Dott.ssa Concas Alessandra

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