Libertà di autodeterminazione e tutela della vita umana

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Il comunicato della Corte Costituzionale sul caso Cappato

In data 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale ha emesso un comunicato stampa dal titolo “in attesa del Parlamento la Consulta si pronuncia sul fine vita”, restando fedele a quanto affermato con l’ordinanza 207/2018. In attesa che venga depositata l’attesa sentenza, è possibile ricavare alcune considerazioni dal comunicato pubblicato dalla Corte a fronte dei principali orientamenti sorti in dottrina e giurisprudenza.

Con l’ordinanza 207/2018 la Corte aveva rinviato al 24 settembre 2019 la trattazione della questione di legittimità sollevata dalla Corte d’assise di Milano, auspicando un intervento del legislatore sul punto necessario per non creare un vuoto legislativo a seguito di una pronuncia di illegittimità.

La tecnica del rinvio utilizzata dalla Consulta per offrire al Parlamento il tempo per modificare la normativa in materia non è una novità nel panorama mondiale, essendo già stata utilizzata dalla Corte canadese e inglese per casi particolarmente delicati. Nel rispetto della separazione dei poteri e del ruolo attribuito al Parlamento, pertanto, il giudice delle leggi in un primo momento si è astenuto dal pronunciare l’illegittimità dell’art.580 c.p. in parte già evidenziata con l’ordinanza di rinvio.

La continuata inerzia del legislatore che si è astenuto dal modificare la disciplina ha, dunque, oggi reso indispensabile la pronuncia di illegittimità della Corte, annunciata dal comunicato stampa del 25 settembre nei seguenti termini: la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Appare opportuno descrivere i termini della vicenda al fine di delineare le prospettive della materia e le conseguenze che deriveranno da tale pronuncia.

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Il caso

Nel caso di specie la vittima, rimasta tetraplegica e affetta da cecità permanente, a seguito di un grave incidente stradale, aveva liberamente maturato la volontà di porre fine alla sua esistenza comunicandola in più occasioni ai familiari e dichiarandola pubblicamente tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica. Il soggetto versava in una situazione di invalidità permanente che ne inibiva qualsiasi forma di autonomia (nella respirazione, alimentazione ed evacuazione) ma conservava intatte le facoltà intellettive. Era dunque assolutamente capace di intendere e volere.

All’agente era stato prospettata la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale, così come previsto dalla l.219/2017. Il soggetto, tuttavia, preso contatti con una struttura in Svizzera, era intenzionato a porre fine alla sua esistenza tramite il c.d. suicidio assistito (pratica non prevista dall’ordinamento italiano) in quanto desiderava una morte veloce, dignitosa e meno dolorosa per sé e per la propria famiglia. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, l’interruzione del trattamento sanitario avrebbe portato alla morte solo dopo alcuni giorni, modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo.

La Corte d’assise di Milano aveva sollevato questione di legittimità rispetto al reato di istigazione o aiuto al suicidio, di cui all’art.580 c.p., oggetto di imputazione. I motivi di censura esposti nell’ordinanza della Corte d’assise riguardavano sia la condotta di agevolazione punita sia la mancata differenziazione del trattamento sanzionatorio tra l’agevolazione e l’istigazione.

In particolare si riteneva che la fattispecie di agevolazione al suicidio fosse incompatibile con gli artt.2, 13, 117 cost. in riferimento agli artt. 2 e 8 della CEDU, e se ne chiedeva la censura.

Da rilevare come la Corte remittente abbia invocato una sentenza di tipo ablativo, idonea a escludere la punibilità del mero aiuto al suicidio, restando punibile la sola istigazione.

Leggi l’articolo:” Caso Cappato: la Corte Costituzionale ritorna sul tema del fine vita”

La ratio dell’art.580 c.p. e la l.219/2017

L’ordinamento punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio al fine di tutelare in modo pieno la vita umana, bene indisponibile. Il valore attribuito a tale bene giuridico si ricava anche dall’incriminazione dell’omicidio del consenziente ex art.579 c.p., in cui il consenso della vittima incide sul disvalore della condotta, attenuandolo, ma non ne esclude la punibilità.

Allo stesso modo il legislatore prevede una pena più lieve per l’aiuto o l’istigazione al suicidio rispetto a quanto previsto per l’omicidio, senza però escludere l’antigiuridicità di una condotta conforme o incidente sulla volontà della vittima. Ad essere punito non il suicidio in sé a cui può associarsi un disvalore al più morale e etico, libero esercizio dell’autodeterminazione umana, ma la condotta di colui che agevoli o istighi il suicida. L’ordinamento, infatti, mira così a tutelare la vita umana in modo pieno vietando che soggetti estranei si intromettano in una decisione definitiva come è quella del suicidio.

Il problema di tali fattispecie, allora, sembra essere quello del corretto bilanciamento tra l’autodeterminazione del singolo e la tutela della vita e della salute umana. L’ordinamento sembra sopportare il suicidio ma non lo tutela, dovendosi escludere in generale il riconoscimento del c.d. diritto a morire.

Interessante la pronuncia della Corte Costituzionale che sul punto ha evidenziato che al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimuovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana.

La necessaria ponderazione tra diritti fondamentali ha portato il legislatore a inserire una normativa sulle disposizioni anticipate di trattamento con la l.219/2017. La disciplina prevede la possibilità per il singolo di mettere per iscritto le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, tutelando il diritto alla salute del singolo, nonché il diritto al rifiuto ad essere curato. La legge prevede inoltre l’esenzione da alcun tipo di responsabilità per il medico che rispetti la volontà espressa dal paziente. Si riconosce in tal modo non un diritto a morire quanto il diritto a interrompere le cure che tengono in vita il singolo[1]. Ad essere tutelato è, pertanto, il diritto a concludere la propria esistenza in maniera dignitosa e senza atroci sofferenze, in breve si tutela la vita umana stessa.

La pronuncia della Corte Costituzionale

“In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.

La Corte sottolinea che l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018.

Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate.”

Da quanto pubblicato appare evidente come seppur la Corti giustifichi l’incriminazione dell’aiuto al suicido per tutelare i soggetti più deboli ravvisi profili problematici e di censura nella disciplina. L’ordinamento italiano, nello specifico, presenterebbe una lacuna nella parte in cui non prevede la possibilità di un trattamento che ponga fine alle sofferenze di un soggetto in stato di invalidità permanente. A norma della l.219/2017 è attribuita al singolo il solo diritto all’interruzione del trattamento con somministrazione di cure palliative.

Sarebbe stato auspicabile un intervento del legislatore atto a colmare tale vuoto, intervento che la Corte ritiene tutt’ora necessario e indispensabile, essendo il Parlamento l’organo preposto al potere normativo. In tale stato di stallo e inerzia, tuttavia, la Corte Costituzionale ha dovuto prendere una posizione chiara escludendo la punibilità dell’agevolatore in determinati casi. Nello specifico la Consulta al fine di definire i casi di esclusione della punibilità sembra porre l’accento in primis sulla volontà del singolo e sulla corretta modalità con cui questa sia stata raccolta. Si fa espresso riferimento alla disciplina sul consenso informato (articoli 1 e 2 della legge 219/2017).

Preliminare appare quindi la valutazione sulla corretta formazione del consenso del singolo, da effettuarsi guardando al singolo caso. In particolare a norma dell’ordinanza dovrebbero essere considerate quali circostanze legittimanti l’irreversibilità della patologia,  la presenza di sofferenze fisiche e psichiche, intollerabili per il singolo, l’utilizzo di trattamenti di sostegno vitale e la capacità di intendere e volere. La valutazione deve effettuarsi a livello concreto, guardando al singolo caso e alla percezione che ha il malato del proprio stato e della malattia. Il concetto di intollerabilità che spinge il singolo a voler porre fine alla propria esistenza, infatti, presenta una forte connotazione soggettiva e deve essere calato sul singolo caso.

I suddetti elementi, oggi dedotti dalla giurisprudenza, dovrebbero essere fissati e tipizzati a livello normativo al fine di dare delle linee guida fisse all’operatore sanitario, nonché a quello giuridico.

Da quanto preannunciato dalla Corte, andrebbe posta particolare attenzione oltre che al consenso del singolo al luogo e alla modalità di esecuzione di tali pratiche, da effettuarsi in strutture pubbliche del SSN con il parere del comitato etico territorialmente competente. Trattamenti così delicati dovrebbero essere effettuati, pertanto, solo in strutture pubbliche che lo Stato può controllare e governare, in cui la sfera della morale non deve entrare se non nei limiti previsti per gli obiettori di coscienza. L’attribuzione alla struttura pubblica della competenza esclusiva su tali pratiche è giustificata dalla stessa ratio incriminatrice dell’aiuto al suicidio, ossia la tutela di soggetti vulnerabili da interferenze esterne e da speculazioni di privati che lucrino sulla sofferenza altrui. L’intervento del legislatore dovrebbe riguardare anche tale profilo.

La Corte Costituzione, come sempre più spesso avviene, si è trovata a dover ottemperare alle lacune dell’ordinamento e all’inerzia di un legislatore poco attento ai diritti civili. Il tempo mostrerà se le “linee guida” enucleate dal Giudice delle leggi verranno seguite e tramutate in norme scritte o se la legge rimarrà silente di fronte a questioni importanti di civiltà.

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Note

[1] Il legislatore, in conformità con la giurisprudenza più recente, ha di fatto inserito una causa di esclusione della responsabilità del medico che nulla aggiunge alla generale scriminante dell’adempimento del dovere ex art.51 c.p. Nel caso Welby, infatti. la Corte aveva escluso l’antigiuridicità della condotta del medico ai sensi proprio dell’art. 51 c.p. per l’agente posto in essere la condotta in adempimento del dovere del medico. Il rispetto della volontà del paziente e del suo diritto a rifiutare le cure rientra tra i doveri del medico, a cui lo stesso deve attenersi.

Dott.ssa Sonia Sasso

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