Lex mercatoria: un diritto a la carte

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E’ convincimento comune che la rivoluzione capitalistica dettata dalla globalizzazione, a sua volta generata dall’innovazione scientifico – tecnologica, ridefinendo i rapporti tra la politica e l’economia abbia favorito il sorgere – ma sarebbe meglio dire il rinascere – di un fenomeno giuridico non statale, la lex mercatoria, dibattuto come nuovo, ma in realtà antichissimo.
 
Mutuando la definizione datane da Guenther Teubner, secondo il quale la lex mercatoria, quale “diritto trasnazionale delle transazioni economiche, è il più riuscito esempio di diritto globale senza Stato”, la stessa può considerarsi un corpo di norme di diritto commerciale che, creato senza la mediazione del potere legislativo degli Stati, presenta i caratteri di un diritto universale dei mercati.
 
Diffusamente si legge che la lex mercatoria nasce nel medioevo per regolare i rapporti commerciali dei mercanti con la finalità principe di derogare al diritto civile e, quindi, al diritto romano che non era più in grado di far fronte alle nuove istanze “internazionalistiche” del mondo mercantile.
 
Infatti, le fonti della lex mercatoria, quale diritto oggettivo non statuale ma sovranazionale, riconosciuto ed applicato dai privati, si fanno comunemente rinvenire negli statuti delle corporazioni mercantili, nelle consuetudini mercantili e nella giurisprudenza delle curiae mercatorum. In tale contesto storico un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella affermazione degli usi normativi mercantili deve riconoscersi proprio alla comunità mercantile italiana, come affermato da Bianca Cassandro Sulpiano la quale, nella sua presentazione al libro “Il diritto commerciale del terzo millennio”, scritto daSir Roy Goode, Professore Emerito dell’Università di Oxford[1], ricorda che “il modello che ha contribuito allo sviluppo del diritto commerciale trasnazionale è costituito ….. dagli usi della comunità mercantile italiana da cui l’Inghilterra, come il resto dell’Europa, ha tratto ispirazione per i propri documenti commerciali come la cambiale e la polizza di carico e le basi dell’assicurazione marittima”.
 
Tuttavia, sebbene la nascita della lex mercatoria sia fatta risalire al periodo medioevale, la stessa ha origini più antiche posto che la società (gli uomini) ed il commercio sono elementi permanenti e necessari allo svolgimento della vita sociale. Invero i primi tratti di usi normativi consuetudinari sono rintracciabili nel diritto romano, base della tradizione giuridica occidentale. Cicerone nel De Repubblica (II, 1-2) fa dire a Catone “che il sistema politico romano si era rivelato superiore rispetto a quello degli altri paesi perché questi ultimi erano stati creati con leggi e istituzioni espressi da singoli individui (come Minosse a Creta e Licurgo a Sparta), mentre lo Stato romano era stato fondato da un susseguirsi di generazioni”.
 
Il Professore  Ignazio Musu del Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, in un recente saggio, afferma che “le regole del diritto romano corrispondono alla natura dei rapporti tra gli uomini nel senso che sono regole necessarie per rendere possibili la vita sociale e la sua continuazione. E’ in questo senso che nel diritto romano le regole del diritto possono essere considerate come regole di “diritto naturale”. Ma, secondo il diritto romano, compito del diritto non è inventare le regole, ma piuttosto scoprirle e organizzarle secondo le esigenze di una buona vita della società che può continuare nel tempo”.   
 
Nel Medioevo, l’evoluzione della società da una società feudale ad una comunale, determina una nuova organizzazione della stessa che porta con sé anche una trasformazione del diritto dell’economia. Questo per la prima volta, infatti, si manifesta non solo come un diritto fatto per i mercanti, ma come un diritto dei mercanti in quanto espresso direttamente dai mercanti stessi (ius mercatorum).
 
Nel passaggio dal Medioevo all’età moderna lo sviluppo di una classe di produttori-mercanti, interessata all’espansione del proprio mercato, si accompagna al superamento della forma comunale e ad una evoluzione verso quella che sarà poi il modello “definitivo” degli Stati nazionali. Il diritto dell’economia in questa fase si trasforma da un diritto naturale a un diritto positivo costruito dallo Stato. Ne consegue che il bene comune non è più derivato dalle regole naturali dello svolgimento dei rapporti sociali, bensì è stabilito dalla volontà del sovrano/stato.
 
Così inserita in una struttura politica statale, che fa della protezione e dello sviluppo dei commerci uno dei suoi principali obiettivi, la classe mercantile perde la sua capacità di essere fonte di elaborazione del diritto.   
 
Tale situazione determinò, come osservato da Adam Smith, la crisi del diritto della classe mercantile in quanto la protezione prevalse sull’incentivo e sullo stimolo all’innovazione. I nuovi produttori-mercanti della borghesia sentivano il peso crescente di una regolamentazione che, pur presentandosi protettiva nei loro riguardi, non consentiva loro di perseguire quella funzione economica che pure il diritto “statale” intendeva promuovere. 
 
Il recupero del concetto di diritto naturale, a scapito del diritto positivo imposto dallo Stato, avviene nel diciottesimo secolo durante il quale si afferma il principio dell’interesse individuale e quello della libertà di perseguirlo in modo compatibile con la libertà altrui, in una visione in cui l’individuo prevale sullo Stato.
 
Ed è proprio tale visione che Adam Smith estende al fenomeno della rivoluzione industriale, in cui lo Stato non deve essere più fonte di privilegi che impediscono all’economia di muoversi verso l’ordine naturale di mercato, cui consegue una riaffermazione del diritto romano e della lex mercatoria.
 
Le origini dello Stato moderno sono ancora discusse e relativamente incerte. Solitamente la nascita di questo si fa risalire al periodo successivo alla fine del medioevo identificando una tappa di importante consolidamento nel trattato di Westfalia (1648).
 
A partire da quella data, infatti, si ha la graduale creazione di una “burocrazia” nel senso più ampio del termine, ossia di un insieme di funzionari, direttamente stipendiati e controllati dal potere statale, con il compito di amministrare la comunità e di dirigerne lo sviluppo e l’evoluzione.
 
Successiva tappa dell’evoluzione dello Stato può farsi coincidere con l’avvento delle grandi masse sulla scena politica, databile simbolicamente intorno al 1789, anno di inizio della rivoluzione francese. L’elemento caratterizzante di questo cambiamento consiste appunto nell’identificazione di un nuovo detentore della sovranità, che è proprio il popolo, la cui identità si è creata e consolidata con l’evoluzione e l’espansione degli Stati nazionali.
 
La sovranità popolare si pone da subito come principio di legittimazione molto più forte dei precedenti e più funzionale a quella crescita del ruolo della politica nella vita della società che sembra essere la nota caratterizzante della modernità.
 
Con la prima guerra mondiale lo Stato acquisisce dei compiti di coordinamento e di organizzazione della vita sociale ed economica.
 
L’esasperazione di questa attitudine a gestire l’economia e l’organizzazione della vita sociale in modo “pianificato”, che in alcuni casi ha portato alla nascita dei regimi totalitari, è stata in parte mantenuta dopo la guerra, giustificata con le necessità della ricostruzione.
 
Dopo la seconda guerra mondiale sebbene spariscano, almeno in alcune parti del mondo, i regimi totalitari che avevano teorizzato e praticato l’identificazione tra Stato e individuo, tuttavia il “peso” dello Stato continua ad aumentare praticamente ovunque.
 
Si va verso un sempre maggiore tentativo di regolamentare ogni aspetto della vita dei cittadini che determina la nascita e lo sviluppo dello Stato “sociale” (cui nessuno Stato occidentale, sia pure in maniera diversa, è rimasto estraneo).
 
Lo strumento di attuazione e regolamentazione dello Stato sociale è costituito in primo luogo dalle tasse, e la costante crescita del livello di tassazione e di spesa pubblica in relazione al prodotto interno lordo (PIL) negli Stati occidentali offre evidenza di come sia cresciuto il ruolo degli stessi dopo la seconda guerra mondiale. Infatti la spesa pubblica, in relazione al PIL, è passata da una media del 30% a quella del 40% nei Paesi dell’Europa Occidentale, mentre negli USA è passata dal 23% al 35,8%. A tali indici si associa una crescente “nazionalizzazione” dell’economia.
 
Tali politiche sociali hanno raggiunto il loro apice intorno alla metà degli anni settanta quando è apparsa chiara l’insostenibilità dei loro costi.
 
Dagli anni ottanta si registra, quindi, in particolare nel mondo anglosassone, il tentativo di diminuire il “peso” dello Stato, tentativo favorito anche dal fallimento dei regimi ad economia pianificata.
 
Tralasciando in questa sede le teorie di quegli studiosi che ritengono che da alcuni decenni lo stato-nazione sia soggetto a una profonda decadenza tanto da consideralo quasi un fenomeno politico superato, le nuove scoperte tecnologiche, la diffusione delle loro applicazioni, la fine della guerra fredda e l’internazionalizzazione dell’economia possono farsi coincidere con la nascita di una “società globale”, intesa quale società nella quale è impossibile per gli Stati controllare i processi di produzione e distribuzione della ricchezza.
 
In tale nuova “società” si osserva come lo Stato sia protagonista di un’assorbente incapacità di regolare giuridicamente alcuni aspetti importanti della vita delle comunità nazionali.
 
Invero non si tratta di una crisi del mondo giuridico, ma di un’incapacità dello Stato di far fronte alle sue stesse istanze sociali e di guidare il cambiamento.
 
In tale nuovo contesto le reazioni dello Stato, attraverso le sue lunghe e pesanti braccia mosse dalla politica, sono state le più varie e le più scomposte, dal forum shopping, all’auspicata concorrenza tra ordinamenti giuridici, fino a giungere a suggerire “che le Autorità regolatrici dei diversi Paesi non entrino in concorrenza tra di loro, ma piuttosto collaborino in modo che le politiche convergano”[2].
 
Tuttavia, alla fine sembra che lo Stato abbia trovato una soluzione a tali “incontrollabili” mutamenti cercando un’alleanza con la lex mercatoria anche in tempo di globalizzazione!
 
In Italia, ad esempio, la riforma del codice di procedura civile del 1994, che ha introdotto norme sull’arbitrato internazionale, ha imposto agli arbitri, quale che sia il diritto applicabile al merito, di tenere conto in ogni caso degli usi del commercio (articolo 834, comma 2).
 
Trovato il compromesso tra Stato e lex mercatoria analizziamo come la globalizzazione e i suoi attori hanno influito su questo processo di “deperimento” della sovranità statale.
 
La globalizzazione, demone dei nostri giorni, è stata autorevolmente definita da  Ulrich Beck quale “processo in seguito al quale gli Stati nazionali e le loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori trasnazionali, dalle loro chanches di potere, dai loro orientamenti, identità e reti”.
 
Sia premesso che tale termine comunemente viene usato con riferimento a tre contesti, segnatamente quello economico, quello tecnologico e quello normativo.
 
Il primo contesto sul quale impatta la globalizzazione è quello economico. Istituzioni mondiali come la World Trade Organization per eccellenza, le zone di libero scambio, le unioni economiche, i mercati comuni, hanno come funzione istituzionale quella della promozione del libero scambio e delle attività economiche.
 
Lo sviluppo dell’Infomation technology,secondo elemento su cui la globalizzazione basa la sua forza, per sua stessa natura travalica le dimensioni dei confini territoriali che identificano gli Stati, basti pensare che in qualsiasi hotel, negli angoli più remoti del globo, è possibile effettuare transazioni con la carta di credito.
 
Il terzo elemento, meno evidente ma altrettanto incisivo, è quello regolativo. Le Istituzioni mondiali cui gli Stati partecipano svolgono un ruolo importante nella produzione di norme che trovano applicazione a livello globale.
 
L’insieme di questi elementi definibile come globalizzazione ha sì “fabbricato … un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: “l’uomo a taglia unica” come definito da G. Tremonti nel suo libro “Rischi fatali” ma, allo stesso tempo, gli consente di giocare un ruolo da attore privato accanto all’attore istituzionale – Stato.
 
L’interazione di tali attori, alcuni dotati di poteri normativi, quelli istituzionali, altri no, quelli privati, ha prodotto una maggiore circolazione di modelli giuridici, una maggiore regolamentazione che si diffonde e si impone a livello planetario quale espressione di una nuova volontà sovrana di origine privata. 
 
Ne consegue che la globalizzazione mette in crisi un modello giuridico “chiuso”, non più attuale in quanto non rispondente alla mutata realtà che deve essere collocata in un contesto trasnazionale.
 
Infatti, ad esempio, il cittadino italiano, per via della globalizzazione è divenuto improvvisamente vicino di casa del cittadino americano, del cittadino cinese e del cittadino marziano, e inevitabilmente ha iniziato a fare la spesa al supermarket americano, cinese e marziano.
 
Conseguenze, dovute all’abbattimento delle distanze fisiche, delle barriere tra Stati e dei costi, è la facilità con cui le persone possono servirsi di altri ordinamenti giuridici, soprattutto nei casi in cui quello del proprio paese è eccessivamente oneroso. A ben vedere si tratta di democrazia, soltanto di democrazia. Esattamente come una persona al supermercato sceglie lo spazzolino più funzionale, più economico, più giusto, allo stesso modo può scegliere l’ordinamento giuridico che ritiene più adatto per tutelare i propri interessi.
 
Ma allora viene da domandarsi? Questa pervasiva sensazione di disagio della società verso lo Stato, la Politica, le Istituzioni, che la inducono ad autoregolarsi e che hanno portato alcuni a definirla come “una società senza Stato” e altri “società del mercato” è un fenomeno nuovo, prodotto da una mefistofelica e tentacolare “globalizzazione”, motore di una grandiosa trasformazione del diritto, ovvero una reale necessità mai assopita nel tempo?  
 
 
 


[1] Roy Goode:   “Il diritto commerciale del terzo millennio” Giuffrè editore – 2003
[2]  Roy Goode Libro citato

Nasi Alessandro

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