Le nuove prove in appello: la prova indispensabile

Redazione 06/02/19
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di Martina Mazzei

Sommario

L’appello come revisio prioris instantiae

Il divieto di ius novorum

L’inammissibilità di nuovi mezzi di prova e di nuovi documenti in appello

La prova indispensabile

La giurisprudenza e la dottrina sul concetto di indispensabilità della prova

L’indispensabilità della prova secondo le Sezioni Unite: la sentenza n. 10790 del 2017

L’appello è il più ampio mezzo di impugnazione ordinaria e costituisce l’unico gravame in senso stretto idoneo ad investire la decisione, oggetto di impugnazione, attraverso un nuovo esame della causa in fatto e in diritto.

Secondo l’opinione prevalente, oggetto della cognizione del giudice d’appello è la controversia già decisa dal giudice di primo grado e non soltanto la sentenza da questi emessa.

L’appello, infatti, rappresenta una fase del processo nella quale il giudizio può essere rinnovato, non con il semplice e globale riesame della sentenza di primo grado ma con un nuovo esame della causa nei limiti delle specifiche censure contenute nella domanda d’appello o meglio – a seguito delle modifiche apportate all’art. 342 c.p.c. dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012 n. 83 – nei limiti dei motivi specifici.[1]

Per effetto di diversi interventi normativi (in particolare la L. n. 353 del 1990, la L. n. 69/2009 e il D.L. 83 del 2012 convertito in L. n. 134 del 2012) e grazie ad alcune fondamentali sentenze della Corte di Cassazione si è ormai concretato il passaggio definitivo dell’appello da novum iudicium a revisio prioris instantiae.

La Suprema Corte[2], infatti, tenendo debitamente conto della struttura del giudizio di secondo grado, così come riformato dalla legge n. 353 del 1990 (che ha introdotto il divieto di nova in appello) e dalle leggi del 2009 e del 2012 (che hanno modificato l’art. 345 c.p.c.), è intervenuta con una serie di pronunce contribuendo a determinare l’attuale configurazione dell’appello quale revisio prioris instantiae.

Tale nuovo assetto trova il più autorevole riconoscimento nella nota pronuncia a Sezioni Unite del 2005[3] ove si specifica che “l’appello, non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa, ma una revisio fondata sulla denunzia di specifici “vizi” di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata.”

L’appello non rappresentando più come, invece, avveniva nel sistema del codice di rito del 1865 “il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa” non può, quindi, limitarsi ad una denuncia generica dell’ingiustizia dei capi appellati della sentenza di primo grado “ma deve puntualizzarsi all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati ma, comunque, sostituiti dalla sentenza di appello”. Infatti, avendo il giudizio di appello natura di revisio prioris instantiae e non di iudicium novum, non è sufficiente che la sentenza di primo grado sia impugnata nella sua interezza ma è necessario, invece, l’impugnazione specifica dei singoli capi censurati e l’esposizione analitica delle ragioni sulle quali si fonda il gravame.

[1] L’effettiva portata del requisito della specificità dei motivi d’appello – a seguito dell’emanazione del decreto legge n. 83/2012 – è stata oggetto di interpretazioni contrastanti. Con la sentenza n. 27199 del 16 novembre 2017 le Sezioni Unite sono intervenute per dirimere tali contrasti ermeneutici e per chiarire la portata del requisito della specificità del motivi d’appello enunciando il seguente principio di diritto: “gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”.

Per un’analisi della sentenza v. RUSSO, Specificità dei motivi d’appello ex art. 342 c.p.c.: il punto dopo sez. un. 27199/2017, in www.eclegal.it; M. SUMMA, La riforma del 2012 non ha trasformato l’appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata, in www.dirittoegiustizia.it; F. GODIO, Le sezioni unite confermano: l’appello «specifico» non richiede all’appellante alcuna sorta di «progetto alternativo di decisione», in Corriere giur., 2018, 70 ss; BALENA, I rassicuranti chiarimenti delle sezioni unite sul contenuto dell’atto di appello, in Foro it. anno 2018, parte I, col. 988.

[2] . Cfr. Cass. sez. III, 21 maggio 2008, n. 13080; Cass. sez. I, 19 settembre 2006, n. 20261; Cass. sez. III, 24 novembre 2005, n. 24817; Cass.sez. II, 25 luglio 2005, n. 15558; Cass. sez. II, 8 agosto 2002, n. 11935; Cass. sez. II, 7 maggio 2002, n. 6542; Cass. sez. lav., 4 dicembre 2001, n. 15318; Cass. civ. sez. I, 23 marzo 2001, n. 4190; Cass. civ. sez. II, 27 luglio 2000, n. 9867. Qui si innesta la questione dell’onere probatorio dell’appellante, cfr MANDRIOLI -CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol. II, Torino, 2015, pag 499 nota 20.

[3] Cass. SS.UU. civ. 23 dicembre 2005, n. 28498.

Proprio perché l’appello consiste in un riesame della stessa controversia oggetto del giudizio di primo grado, nei limiti dei motivi specifici proposti dall’appellante, le parti, in questa fase del processo, non possono proporre domande nuove.

L’appello, infatti, non consente l’esame dello ius novorum. La ratio del divieto in parola si ricollega al principio del doppio grado di giurisdizione dal quale si trae la regola dell’impossibilità per le parti di ampliare o modificare il tema del contendere discusso in prime cure, dovendo il medesimo costituire oggetto del giudizio d’appello solo quando ha già formato, a sua volta, materia del giudizio di primo grado.[4]

L’art. 345, primo comma, c.p.c. per il rito ordinario, così come novellato dalla legge 353 del 1990 – e l’art. 437, primo comma, c.p.c. per il rito del lavoro – dispongono, infatti, che nel giudizio di appello non sono ammesse domande nuove.

La proposizione di una domanda nuova in appello, ad eccezione di quelle espressamente consentite, porta alla declaratoria di inammissibilità d’ufficio del giudice,[5] rimanendo, quindi, impregiudicata la possibilità di proporla in un successivo giudizio.

Per stabilire quando ci si trova di fronte ad una domanda nuova si deve far ricorso ai principi di identificazione dell’azione.[6]

Alla luce della rivoluzionaria sentenza a Sezioni Unite n. 12310 del 2015[7], che ha mutato i confini dell’emendatio libelli, si verificherà l’ipotesi di mutatio libelli (e quindi, si avrà, di conseguenza, una domanda nuova) col mutamento anche di uno solo degli elementi soggettivi od oggettivi dell’azione (personae, petitum e causa petendi); infatti, in tal modo si introduce nel processo un nuovo tema di indagine che altera l’oggetto sostanziale e quindi i termini della controversia. Si avrà, invece, semplice emendatio, ed in quanto tale ammissibile, col mutamento della sola qualificazione giuridica del fatto o nel caso in cui, pur alterandosi gli elementi oggettivi, la domanda riguarda la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o, comunque, si riconnetta ad essa in tutti i casi di connessione previsti dal codice di rito.

La giurisprudenza, infatti, ha affermato più volte che si ha domanda nuova in appello quando si introduce un diverso petitum[8] o una diversa causa petendi[9] (rispetto a quelli che hanno costituito oggetto del giudizio di primo grado) ma non quando viene richiesta solo una diversa qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio purché essa non comporti l’allegazione di fatti nuovi.[10]

Domande nuove sono, pertanto, quelle che si differenziano dalle domande proposte in primo grado perché cambia uno degli elementi di identificazione o, quelle che, pur essendo relative allo stesso diritto soggettivo della domanda di primo grado, sono rivolte ad ottenere un provvedimento di diverso contenuto. Il raffronto deve essere compiuto tra la domanda così come formulata in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado e quella proposta nell’atto introduttivo del secondo grado.[11]

Al secondo comma dell’art. 345 c.p.c. il divieto dello ius novorum è esteso alle nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio. L’esplicito riferimento normativo alle eccezioni non rilevabili d’ufficio vale a precisare che l’oggetto della preclusione in esame vale solo le c.d. eccezioni in senso proprio o in senso stretto, ossia quelle che il giudice non può esaminare a istanza di parte.[12]

[4] V. Cass. civ, 18 novembre 2000, n. 14930; Cass. civ. 14 luglio 1988, n. 4607.

[5] Il testo dell’art 345 ante riforma prevedeva che le domande nuove dovessero essere rigettate d’ufficio. La previsione dell’inammissibilità ha il vantaggio di aver eliminato l’imprecisione della formulazione precedente, infatti si notava come non si trattasse di rigetto, visto che la domanda non era esaminata nel merito, ma di una declaratoria di incompetenza per inosservanza del principio del doppio grado di giurisdizione.

Cfr. a tal proposito CARNELUTTI, Istituzioni del processo civile italiano, vol. II, Roma, 1956, pag 158; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, vol II, Napoli, 1956, pag. 452. A favore dell’originaria formulazione invece SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. II, Milano, 1962, pag 134 secondo il quale il legislatore del 1990 nel prevedere il rigetto aveva avuto presente l’ipotesi non della domanda radicalmente nuova rispetto a quella formulata in primo grado, ma la domanda che, seppur oggettivamente diversa, era pur sempre finalizzata ad ottenere lo stesso bene. L’eventuale vizio del giudice nel non dichiarare l’inammissibilità, stante il carattere pubblicistico di tale divieto, non è sanabile per effetto dell’accettazione del contraddittorio ad opera della controparte. V. in tal senso VULLO, Le sezioni unite si pronunciano in tema di inammissibilità della domanda nuova, rilevabilità d’ufficio del vizio e accettazione del contraddittorio, in Giur. it., 1996, II, 1, pag. 1449; MONTESANO-ARIETA, Il nuovo processo civile: legge 353/1990, Napoli, 1991, pag. 48. In giurisprudenza in tal senso si veda: Cass. civ, 27 febbraio 1998, n. 2157, in (www.dejure.com), secondo cui il divieto di ius novorum in appello è un divieto di ordine pubblico, come tale rilevabile d’ufficio in sede di legittimità ed è irrilevante l’eventuale accettazione del contraddittorio sul merito. Si vedano inoltre: Cass. civ, 26 agosto 1997, n. 7996 (in www.dejure.com); Cass. civ, 23 febbraio 1983, n. 1358 (in www.dejure.com).

[6] Che cosa debba intendersi per domanda nuova infatti è un’indagine che va fatta, secondo l’opinione maggioritaria in dottrina, sulla base dei principi che regolano l’identificazione dell’azione, cfr. in tal senso MANDRIOLI – CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol. II, Torino, 2015, pag. 504; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, vol. II, Napoli, 1956, pag 452; COMOGLIO – FERRI- TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1988, pag 816; C. CANOVA, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Comm. c.p.c., Allorio II, Torino, 1980, pag. 77.

[7] Per un’analisi della sentenza Cass. SS.UU. civ. 15 giugno 2015, n. 12310 v. in dottrina MOTTO, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale, in Foro it. anno 2015, parte I, col. 3190 e M. CEA, Tra «mutatio» ed «emendatio libelli»: per una diversa interpretazione dell’art. 183 c.p.c., in Foro it. anno 2016, parte I, col. 255.

[8] Riguardo al petitum, si configura un mutamento di domanda non consentito, a norma dell’art. 345 cod. proc. civ., solo quando venga innovato l’oggetto della pretesa inteso non come petitum immediato (vale a dire come provvedimento richiesto) bensì come petitum mediato (ossia come richiesta di attribuzione di un determinato bene). Si veda, ad esempio, Cass. civ, 20 aprile 1995, n. 4465.

[9] In particolare, il mutamento della causa petendi, comporta la proposizione di una domanda nuova perché implica il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio. Così Cass. civ. Sez. III, 17 luglio 2003, n. 11202. Per citare alcuni esempi: proposta in primo grado domanda di risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale, non si può domandare in appello il risarcimento anche a titolo di responsabilità contrattuale (Cass. civ., sez. I, 19 settembre 2016, n. 18299; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2001, n. 2080; proposta in primo grado domanda di restituzione di un bene, non si può domandare in appello il risarcimento in forma specifica (Cass. civ. Sez. I, 21 giugno 2000, n. 8424; proposta in primo grado domanda di risarcimento ex art. 2043 c.c., la medesima domanda in appello non potrà essere fondata sull’art. 2051 c.c. (Cass. civ. Sez. III, 6 luglio 2004, n. 12329); proposta in primo grado domanda di risoluzione del contratto, non si può proporre in appello domanda di rescissione dello stesso (Cass. civ. Sez. II, 25 agosto 1993, n. 8995.

Per un’analisi della casistica di novità della causa petendi v. anche MANDRIOLI – CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol. II, Torino, 2015, pag 504 ss.

[10] Cfr. Cass., sez. II, 16 marzo 2017, n. 6854; Cass. civ., sez. III, 7 marzo 2016, n. 4384; Cass. civ. Sez. III, 6 marzo 2006, n. 4804 in cui la corte afferma che “a norma dell’art. 345 cod. proc. civ. non è configurabile come domanda nuova in appello quella con cui non vengano mutati il bene della vita richiesto, ossia il “petitum”, nè i fatti posti a base della domanda, ossia la “causa petendi”, ma solo la qualificazione giuridica di questi ultimi”, v. anche Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 2003, n. 8912; Cass. civ., 17 gennaio 2000, n. 456; Cass civ. 28 aprile 1999, n. 4241; Cass. civ. 27 luglio 1990, n. 7565.

[11] Cfr. in dottrina a tal proposito COMOGLIO – FERRI- TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1988, pag 817; ATTARDI , Le nuove disposizioni sul processo civile e il progetto del Senato sul giudice di pace, Padova, 1991, pag. 154; MANDRIOLI – CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol. II, Torino, 2015, pag. 504 ss.

[12] Cfr. Cass. civ. sez. III, 30 gennaio 2012, n. 1303; Cass. civ. sez. III, 19 maggio 2011, n. 11015 e Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2007, n. 11774.

In dottrina C. CAVALLINI, L’eccezione “nuova” rilevabile d’ufficio nel giudizio d’appello riformato, in Riv. dir. proc., 2014, p. 588.

L’ultimo comma dell’art. 345 c.p.c., così come modificato dalla L. 69/2009 e dalla L. 134/2012 sancisce, sulla falsariga dell’art 437 c.p.c., ampliando le maglie del divieto di ius novorum, il principio dell’inammissibilità di nuovi mezzi di prova e di nuovi documenti in appello.

Siffatto principio può essere derogato soltanto in due ipotesi: quando la parte dimostri di non aver potuto richiederli in giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile e quando venga deferito il giuramento decisorio (che è sempre ammissibile anche in appello).[13]

Per quanto riguarda il concetto di prova nuova si intende tale quella che, a prescindere dal mezzo con cui la parte ne faccia istanza per la prima volta in appello, miri alla dimostrazione di un fatto che non è stato allegato in primo grado oppure che, pur essendo stato allegato, la parte mirava a dimostrare con altro mezzo di prova rispetto a quello proposto in secondo grado.[14]

L’art. 345 comma 3 c.p.c., prima della riforma del 2009, non operava alcun riferimento ai documenti e, pertanto, si riteneva che ad essi non fosse estendibile il divieto dello ius novorum come d’altronde affermato anche dalla giurisprudenza, con orientamento consolidato, anche in relazione all’art. 437 c.p.c.

Secondo la Corte, infatti, la produzione di documenti in appello non incontrava alcun limite in quanto inidonea a nuocere alla celerità del giudizio e, soprattutto, ritenendosi che il divieto di ius novorum si riferisse alle prove costituende e non a quelle precostituite quali, appunto, i documenti[15].

Sul punto sono intervenute, nel 2005, le Sezioni Unite[16] le quali, superando tale orientamento, hanno sostenuto che nel rito ordinario l’inammissibilità dei nuovi mezzi di prova si cui all’art. 345 comma 3 c.p.c. si estende anche alle produzioni documentali e che tale limite può essere superato solo qualora le parti provino di non averle potute produrre prima per causa ad esse non imputabile ovvero qualora il giudice le ritenga indispensabili ai fini della decisione (tale previsione è stata espunta, successivamente, dalla L. 134/2012).

Il legislatore, con la novella del 2009, recependo l’orientamento delle Sezioni Unite e, così, dirimendo ogni dubbio, ha modificato l’art. 345 c.p.c. introducendo al terzo comma 1’espressa previsione del divieto di produzione in appello di nuovi documenti.

[13] Sull’argomento v. RUFFINI, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1997; CAVALLONE, Istruzione probatoria e preclusioni, in Riv. dir. proc., 2014, 1038; BOVE, Sulla produzione di nuovi documenti in appello, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 303; COLESANTI, Impugnazioni in generale e appello nella riforma processuale, in Riv. dir. proc., 1992, 1049; TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova 2000; MANDRIOLI – CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol. II, Torino, 2015, pag. 508 ss; BALENA, Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012 , in Giusto proc. civ., 2013, I, 378.

[14]

In giurisprudenza, sono stati ritenuti inammissibili i mezzi di prova: diretti a contraddire o neutralizzare o integrare la prova sperimentata in primo grado e cioè a dimostrare circostanze che, in tale grado, avrebbero potuto costituire oggetto di prova contraria (Cass., 30 dicembre 2009, n. 28103; Cass., 7 maggio 2009, n. 10502; Cass., 7 aprile 2009, n. 8377); già indicati e successivamente rinunciati in primo grado (Cass., 19 agosto 2002, n. 12241; Cass., 3 febbraio 1994, n. 1103), anche implicitamente come avviene quando, già dichiarato il mezzo inammissibile, irrilevante o superfluo, l’instante non ribadisca la relativa domanda istruttoria in sede di precisazione delle conclusioni (Cass., 20 febbraio 2013, n. 4270; Cass., 30 marzo 1995, n. 3773); in riferimento ai quali la parte sia stata dichiarata decaduta (ad esempio per non aver provveduto alla tempestiva citazione del testimone: Cass., 9 giugno 2011, n. 12700); la cui istanza sia stata disattesa dal giudice di primo grado, senza che, contestualmente alla riproposizione in appello, sia censurata con motivo di gravame ad hoc anche la parte di sentenza con cui l’istanza è stata respinta (espressamente o implicitamente) dal primo giudice (Cass., 31 maggio 2011, n. 12036; Cass., 26 gennaio 2006, n. 1691. Sono, invece, considerate prove ammissibili in quanto non nuove i documenti allegati al ricorso per decreto ingiuntivo e rimasti a disposizione della controparte ai sensi dell’art. 638, comma 3 c.p.c., seppur non prodotti nuovamente nella fase di opposizione (Cass., S.U., 10 luglio 2015, n. 14475; v. anche Cass., S.U., 8 febbraio 2013, n. 3033; la prova testimoniale dichiarata inammissibile per genericità dal primo giudice e riproposta in appello mediante deduzione di capitoli sufficientemente dettagliati (Cass., 7 febbraio 2001, n. 1719; la prova disponibile d’ufficio, il cui espletamento può essere sollecitato anche per la prima volta in appello (come nel caso in cui si manifesti l’opportunità di sentire un testimone c.d. di riferimento: Cass., 14 gennaio 2000, n. 346.

[15] Cfr. Cass. civ., sez. I, 26 agosto 2004, n. 16995.

[16] Cass. SS.UU. civ. 20 aprile 2005, n. 8202 e 8203 in Foro italiano con p>Limiti all’ammissibilità di documenti nuovi in appello: le sezioni unite compongono il contrasto di giurisprudenza (anche con riferimento al rito ordinario); BARONE, Nuovi documenti in appello: è tutto chiarito?; PROTO PISANI, Nuove prove in appello e funzione del processo; M. CEA, Principio di preclusione e nuove prove in appello.

Prima della modifica introdotta dalla L. 134/2012, l’art. 345 comma 3 c.p.c. prevedeva, quale ulteriore ipotesi di deroga al divieto di nova in appello, quella in cui il giudice del gravame ritenesse i nuovi mezzi di prova o i nuovi documenti indispensabili ai fini della decisione della causa.

Originariamente, infatti, la deroga riguardava, senza distinzioni di sorta, la categoria dei mezzi di prova ritenuti indispensabili dal collegio ai fini della decisione della causa.

La soppressione di tale ipotesi – che nell’ottica del legislatore avrebbe dovuto accelerare il giudizio d’appello – potrebbe di fatto pregiudicare le esigenze di tutela effettiva dell’appellante, nel caso, ad esempio, di fatti e prove sopravvenute, di tardivo rilievo di una questione rilevabile d’ufficio che renda rilevanti nuovi fatti da provare, ovvero di nullità di atti di istruzione probatoria che imponga una rinnovazione del mezzo di prova.

La riforma del 2012 – che con l’eliminazione del riferimento all’indispensabilità al comma 3 dell’art. 345 c.p.c. ha ribadito l’accentuazione del carattere di revisio dell’appello – ha lasciato, tuttavia, inalterata tale previsione nel rito del lavoro di cui all’art 437 c.p.c. e nel procedimento sommario di cognizione ex art. 702 quater c.p.c.

La nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c., quindi, non esclude l’interesse ad analizzare l’interpretazione della nozione di indispensabilità della prova che, come si è detto, è ancora mantenuta in materia di lavoro dall’art. 437 c.p.c. e nel testo dell’art. 702 quater c.p.c. per il rito sommario.

Tale nozione, rilevante ai fini dell’ammissibilità dei nuovi mezzi di prova e dei nuovi documenti, è stata ricostruita in termini dissonanti all’interno della giurisprudenza e della dottrina.

Più in particolare, in accordo con l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità[17] l’art. 345 comma 3 c.p.c. esclude l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, compresi i documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano ritenuti indispensabili perché dotati di “un’influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove rilevanti sulla decisione finale della controversia”.

Secondo il prevalente orientamento, infatti, la locuzione “indispensabili ai fini della decisione della causa” viene intesa come riferita a prove assolutamente necessarie, essenziali, di cui non si può fare a meno, tali cioè da determinare la decisione del giudice in un senso anziché in un altro. In altre parole si deve trattare di prove decisive ossia “tali da dissipare ogni incertezza sulla ricostruzione fattuale della vicenda sottoposta all’esame del giudice”.

Una recentissima sentenza del 2017[18], iscrivendosi in tale indirizzo interpretativo, pone in rilievo che la regola di cui all’art. 345 comma terzo c.p.c., prima della modifica apportata dalla L. n. 134 del 2012, aveva il significato di consentire l’ingresso in appello di un nuovo mezzo di prova nelle ipotesi in cui “le preclusioni istruttorie avessero creato un’inaccettabile separazione tra realtà materiale documentabile in appello e verità processuale emersa tempestivamente”.

Pertanto, nell’ottica del primo e prevalente orientamento giurisprudenziale, “prova nuova indispensabile di cui al previgente testo dell’art. 345 comma 3 c.p.c. è quella di per sé tale da eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado”.

Nella giurisprudenza della Suprema Corte, tuttavia, si è affermato, a partire dal 2011,[19] un contrapposto orientamento volto ad intendere in senso più rigoroso il concetto di indispensabilità dei nuovi mezzi istruttori in appello, allo scopo – funzionale alla ragionevole durata del processo – di non vanificare, attraverso l’ingresso di nuove prove nel giudizio di gravame, la disciplina delle preclusioni del processo di primo grado piuttosto che ricercare la verità materiale all’interno dello stesso.

In particolare, secondo tale posizione nota come tesi della c.d. indispensabilità ristretta, nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata.

Ne consegue che se la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni istruttorie avrebbero consentito alla parte di avvalersi del mezzo di prova – perché funzionale alle sue ragioni – e la decisione si è formata prescindendone allora deve escludersi che la prova sia indispensabile essendo imputabile alla negligenza della parte il non aver introdotto tale prova.

Si tratta di una opzione interpretativa che sacrifica la ricerca della verità materiale per non indebolire la disciplina delle preclusioni istruttorie previste per il primo grado, la terzietà del giudice rispetto al potere dispositivo delle parti, la regola di giudizio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. e la ragionevole durata del processo (che potrebbe essere pregiudicata per l’ingresso di nuove prove nel giudizio di gravame).

Pertanto, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, prove indispensabili sarebbero le nuove prove la cui necessità emerga dalla stessa sentenza impugnata (ossia prove delle quali non era apprezzabile neppure una mera utilità nel giudizio di primo grado) e quelle riferite all’apporto probatorio resosi necessario a fronte di una decisione di primo grado della c.d. terza via o, più in generale, fondata su presupposti di fatto diversi da quelli già oggetto del thema probandum.

La nozione di prova indispensabile è stata intesa in termini non univoci anche all’interno della dottrina che, sin dall’iniziale introduzione della stessa da parte dell’art. 437, comma 2, c.p.c., si è occupata di tale ricostruzione ermeneutica.

Una prima tesi, raccordando l’indispensabilità del mezzo di prova alla decisione da assumere all’esito del giudizio di gravame, ritiene che la stessa vada riconosciuta ove mediante l’ammissione del nuovo strumento istruttorio si possa pervenire alla riforma della pronuncia impugnata.[20]

Questa posizione, tuttavia, è stata oggetto di critica soprattutto da parte di chi, facendo leva sul fondamentale principio di parità delle armi tra le parti, rileva che analoga attitudine dovrebbe essere riconosciuta anche alle nuove prove che consentano di ottenere in appello la conferma della decisione onde contrastare le opposte richieste dell’appellante.[21]

Altri autori, [22] invece, ritenendo che l’indispensabilità sia un requisito più intenso rispetto alla rilevanza, sostengono che potranno essere ammesse in appello esclusivamente quelle prove che da sole possano giustificare una pronuncia sia essa di conferma ovvero di riforma di quella di primo grado.

Assolutamente peculiare è la tesi affermata, in una prospettiva volta ad attribuire al giudice significativi poteri nell’accertamento della verità materiale, da autorevole dottrina[23] per la quale in appello deve ritenersi indispensabile la prova che consenta di superare una pronuncia assunta in primo grado in base alla regola di giudizio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. In accordo con questa posizione, un nuovo mezzo di prova deve ritenersi indispensabile quando è necessario ad ovviare alla carenza della prova, non fornita, conformemente alla regola di cui all’art. 2697 c.c., dalla parte alla quale spettava il relativo onere.

Una parte della dottrina, infine, proprio alla luce dei plurimi orientamenti affermati sul concetto di indispensabilità dei nuovi mezzi istruttori è giunta a ritenere impossibile attribuire, almeno sul piano giuridico, un significato differente da quello proprio di rilevanza, evidenziando che sul piano logico una prova o è rilevante o è irrilevante, tertium non datur. In sostanza, secondo tale impostazione inserendo il riferimento all’indispensabilità del nuovo mezzo di prova ammissibile in appello il legislatore avrebbe semplicemente esortato il giudice del gravame ad essere per così dire “parco” nell’ammissione di nuovi strumenti istruttori. In concreto, ciò si tradurrebbe “nell’esigenza per lo stesso di effettuare una valutazione di rilevanza non in termini di giudizio di delibazione sulla semplice plausibilità della prova richiesta ad incidere sulla decisione bensì di più stringente preponderante probabilità”.[24]

[17] Cass. civ. sez. I, 31 agosto 2015, n. 17341, Cass. civ. sez. III, 19 aprile 2006, n. 9120; Cass. SS.UU. civ. 20 aprile 2005, n. 8202 e n. 8203 per i cui commenti vedi la nota precedente.

In termini sostanzialmente non dissimili si pongono, poi, quelle decisioni, che, come Cass. civ. sez. I, 23 luglio 2014, n. 16745, evidenziano l’esigenza che il giudice del gravame motivi espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova prova a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi.

[18] Cass. civ. sez. II, 10 gennaio 2017, n. 364.

[19] Per questo orientamento giurisprudenziale Cfr. Cass. civ. sez. VI, 10 febbraio 2017, n. 3654; Cass. civ. sez. III 31 marzo 2011, n. 7441; Cass. civ. sez. III, 5 dicembre 2011, n. 26020; Cass. civ. sez. VI, 15 marzo 2016, n. 5013.

[20] DENTI – SIMONESCHI, Il nuovo processo del lavoro, Milano 1974, p. 196.

[21] TEDOLDI, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova 2000, p. 190.

[22] MONTESANO – VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli 1996, p. 269.

[23] PROTO PISANI, Lavoro (controversie individuali in materia di), in Novissimo digesto italiano, Appendice, Torino, 1983, IV, 673. Questa impostazione è stata tuttavia criticata dalla dottrina dominante in quanto si pone in contrasto con la fondamentale regola espressa dall’art. 2697 c.c. e nella misura in cui “premia” la parte che è rimasta inerte rispetto alla prova del fatto nel giudizio di primo grado.

[24] CAVALLONE, Istruzione probatoria e preclusioni, in Riv. dir. proc., 2014, 10

Data l’estrema diversità e il contrasto degli approdi interpretativi – sia in dottrina che in giurisprudenza – e data la laconicità dell’espressione “indispensabilità della prova” utilizzata dal legislatore, le Sezioni Unite, nel tentativo di dirimere tali contrasti, sono state investite della questione nel 2016[25] ricostruendo il concetto di prova nuova indispensabile ammissibile in appello.

Il Collegio rimettente sottolineava, in particolare, l’importanza della questione prospettata che, nonostante la richiamata modifica dell’art. 345, comma 3, c.p.c. ad opera della L. 7 agosto 2012, n. 134, continuerà ad assumere rilevanza anche in futuro sia nell’appello nel processo del lavoro, essendo rimasto immutato il testo dell’art. 437, comma 2, c.p.c., sia nel procedimento sommario di cognizione nel quale l’odierno art. 702 quater c.p.c. subordina l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello proprio all’indispensabilità degli stessi.

Le Sezioni Unite con la sentenza n. 10790 del 2017 – condividendo i rilievi del prevalente orientamento giurisprudenziale – hanno enunciato il principio secondo il quale “nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83 – convertito, con modifiche dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 – quella di per séidonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado“.[26]

L’opzione ricostruttiva, conforme all’orientamento tradizionale della giurisprudenza, viene argomentata dalle SS.UU. confutando, in primo luogo, la contrapposta tesi della c.d. indispensabilità ristretta.

Tale tesi, infatti, ritenendo indispensabili solo le nuove prove la cui necessità emerga dalla stessa sentenza impugnata, di fatto, le faceva refluire nella seconda ipotesi di nova consentiti in appello, vale a dire in quella delle nuove prove che la parte dimostri di non aver potuto chiedere in primo grado per causa ad essa non imputabile, finendo così “con il sortire un (non consentito) effetto abrogativo del cit. comma 3 dell’art. 345 previgente, là dove parla di prove indispensabili”.

Se, infatti, sono indispensabili le prove la cui necessità emerga dalla stessa sentenza impugnata e per le quali non era apprezzabile neppure una mera utilità durante il giudizio di primo grado va da sé che rispetto ad esse la parte si è trovata, per causa che non le è imputabile, nell’impossibilità di proporle.

In secondo luogo la Corte sostiene che questa interpretazione restrittiva si pone, altresì, in contrasto con l’art. 24 Cost. Infatti rimettere ad una mera valutazione del giudice d’appello il diritto della parte di dimostrare il fatto emerso come rilevante (solo grazie alla motivazione della sentenza di primo grado) colliderebbe con l’art. 24 Cost giacché spetterebbe al giudice non solo la valutazione di ammissibilità e rilevanza della prova ma la stessa opportunità di consentire alla parte interessata di esercitare il proprio diritto di difesa.

Le Sezioni Unite, quindi, optano per l’opzione interpretativa tradizionale ricostruendo in maniera più ampia il concetto di indispensabilità delle nuove prove e ponendo a fondamento della scelta interpretativa l’esigenza di un necessario contemperamento tra principio di preclusione e il principio di ricerca della verità materiale.

Detto contemperamento è funzionale al diritto di azione di cui all’art. 24 Cost. e al principio di ragionevole durata del processo e, essendo già da lungo tempo affermato dalla giurisprudenza, non pregiudica il alcun modo la terzietà del giudice (come è reso palese anche dall’esperienza storica e dai sempre più numerosi casi di positivizzazione dei poteri inquisitori del giudice civile che spaziano, ad esempio, dall’art. 421 comma 2 c.p.c. agli artt. 738 comma 3 c.p.c. e 669 sexies comma 2 c.p.c).

Il regime delle preclusioni istruttorie, infatti, non è un carattere “tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative essendo soltanto una tecnica elaborata per assicurare il rispetto del contraddittorio, parità delle parti nel processo e sua ragionevole durata, tecnica che ben può essere contemperata (secondo modalità pur sempre rimesse alla discrezionalità del legislatore) con il principio della ricerca della verità materiale”.

Pertanto, così come il principio della ragionevole durata del processo è valore servente al diritto d’azione di cui all’art. 24 Cost., così lo è quello del contemperamento fra preclusioni istruttorie e ricerca della verità materiale.

Si tratta di valori che, lungi dall’essere fra loro in competizione, hanno di vista il medesimo obiettivo: “dare concreta attuazione alla tutela giudiziaria delle posizioni giuridiche attive”.

Si può affermare, in conclusione, che a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite è lasciato grande spazio alla discrezionalità del giudice, il quale – nei residui procedimenti nei quali rileva il testo dell’art. 345, comma 3 anteriore alla riforma del 2012, e negli appelli di lavoro ed ex art. 702 quater c.p.c. – potrà ammettere tutte le prove che egli riterrà indispensabili, senza temere di andare incontro ad un annullamento della sentenza in cassazione se congruamente motivata. E ciò tanto più se si tiene in considerazione che con la nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., il cui tenore letterale riduce fortemente la censurabilità della sentenza d’appello per ragioni inerenti alla motivazione, la parte, la quale intenda criticare l’apprezzamento dell’indispensabilità della prova, è onerata a sostenere che la valutazione da parte del giudice d’appello abbia integrato una violazione ovvero falsa applicazione dell’art. 345, comma 3 c.p.c. e, dunque, a incanalare la relativa censura nel motivo n. 3 dell’art. 360 c.p.c.

[25] Le SS.UU. sono state investite della questione con ordinanza interlocutoria della terza sezione civile n. 22602 del 7 novembre 2016.

[26] Dopo l’intervento delle SS.UU. sono state molte le sentenze in cui, conformemente alla nozione di indispensabilità delineata dalla sentenza del 2017, sono state ammesse in appello nuove prove indispensabili. Cfr.

Cass. civ., 15 ottobre 2018, n. 25695; Cass. civ., sez. II, 25 gennaio 2018, n. 1888; Cass. civ. 15 maggio 2018, n. 11752; Cass. civ. 27 giugno 2018, n. 16900; Cass. civ. 06 giugno 2018, n. 14531; Cass. civ. 19 aprile 2018, n. 9793; Cass. civ., 1 marzo 2018, n. 4867; Cass. civ., 08 febbraio 2018, n. 3129; Cass. civ. 05 febbraio 2018, n. 2758; Cass. civ., 18 gennaio 2018, n. 1117.

Redazione

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