Le linee di evoluzione che hanno interessato il sistema amministrativo italiano durante il “decennio delle riforme”

Sgueo Gianluca 05/10/06
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1. Il rapporto del Dipartimento della funzione pubblica sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni del 1993: un punto di partenza – 2. Il sistema dei controlli tra vecchie e nuove esigenze – 3. La gestione del personale: una riorganizzazione razionale dei pubblici dipendenti – 4. I cittadini ed i servizi pubblici – 5. Conclusioni
 
 
1. Il rapporto del Dipartimento della funzione pubblica sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni del 1993: un punto di partenza
Sebbene non sia possibile individuare con precisione la data a partire dalla quale il legislatore italiano ha intrapreso (e portato a compimento) il cammino delle riforme amministrative che hanno ridisegnato la pubblica amministrazione, convenzionalmente si è soliti indicare la relazione annuale svolta dal Dipartimento della funzione pubblica del 1993[1]. In questa, si offre una fotografia precisa della crisi che aveva convolto il sistema istituzionale a partire dai primi anni Novanta, che aveva coinvolto le relazioni tra politica ed amministrazione, intaccando la credibilità e l’immagine della pubblica amministrazione.
Va tuttavia sottolineato come il successo delle indicazioni offerte dalla relazione fu dovuto anche alla congiuntura storica favorevole cui contribuirono tre fattori principali. Anzitutto, la crisi del sistema partitico, tale da determinare un forte deficit di legittimazione politico-partitica ed alterare l’equilibrio dei rapporti istituzionali tra Parlamento e Governo. Una tale situazione consentì all’Esecutivo di operare in assenza di un’opposizione forte e compatta, realizzando l’attuazione concreta dei programmi di riforma in tempi sicuramente più brevi di quelli che avrebbe richiesto, in circostanze normali, il dibattito politico.
Non secondario fu poi il ruolo giocato dall’integrazione europea, che conobbe in quegli anni un periodo di ulteriore e più profondo sviluppo, esercitando sui singoli Stati un controllo più intenso e penetrante, e chiedendo che fossero rispettati standard qualitativi minimi nell’erogazione dei servizi pubblici.
Infine, contribuì al successo di queste la presenza di una leadership carismatica e preparata al tempo stesso. Fattore che, secondo gli studiosi di scienza dell’amministrazione, contribuì in modo determinante a consentire che le linee di azione sviluppate a livello programmatico potessero realizzarsi e convergere in tempi rapidi[2].
Il grande merito della relazione è dunque quello di aver intuitivamente colto e successivamente individuato – grazie anche alle circostanze favorevoli sopra riportate – i principali problemi di cui soffriva l’amministrazione italiana, tentando, al tempo stesso, di offrire una soluzione propositiva agli stessi. Soluzione che venne perseguita lungo tre principali linee direttive: la riforma del sistema dei controlli, la politica delle risorse umane e la gestione dei rapporti con l’utenza.
 
2. Il sistema dei controlli tra vecchie e nuove esigenze
Il primo e più importante dei settori sui quali avrebbero inciso le riforme fu il sistema dei controlli amministrativi, sia interni che esterni[3]. Alla base di questo vi è la riformulazione del concetto di base di controllo: non più solamente procedimento volto a riesaminare e censurare la patologia dell’atto, senza offrire al controllato i mezzi per evitare la ripetizione dell’errore, ma, al contrario, un mezzo di apprendimento. Il controllo acquisisce cioè la dimensione complessa di un insieme di procedure, dispositivi, azioni e persone con l’obiettivo di creare un sistema di conoscenze utili all’attività amministrativa, favorendo, in ultima analisi, l’autocorrezione degli errori[4].
Idealmente, possono individuarsi due fasi cronologiche distinte, cui fanno capo altrettante problematiche identificative della materia. La prima, che copre il quadriennio che va dal 1990 al 1994, si apre con la legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241 del 1990) e quella, di poco antecedente, sulle autonomie locali (legge n. 142 del 1990). In questa fase la principale iniziativa riguarda l’equiparazione delle funzioni svolte dai nuclei di valutazione e dai servizi di controllo interno[5], lasciate alla scelta discrezionale delle singole amministrazioni. Al tempo stesso, il legislatore si trova a dover superare ostacoli di non poco conto: la scarsa cultura in materia di controlli, la difficoltà ad individuare competenze non esclusivamente giuridiche ma anche economico-gestionali e, infine, la prevalenza del principio di uniformità organizzativa che ostacola l’applicazione di una politica differenziata ed idonea ad applicarsi alle differenti circostanze.
La seconda fase, a noi più vicina, si concentra nel quinquennio successivo, ed è caratterizzata dalla presenza di una serie importante di provvedimenti normativi. In primo luogo le tre leggi di semplificazione e razionalizzazione, note come “Leggi Bassanini”, dal nome del loro principale fautore. Poi, il Decreto legislativo n. 267 del 2000, che prosegue l’iter intrapreso dalla legge sulle autonomie locali del 1990 e, per quanto riguarda specificamente il sistema dei controlli, l’emanazione del Decreto legislativo n. 286 del 1999, che distingue e disciplina le quattro principali ipotesi di controllo: il controllo di gestione, la valutazione della dirigenza, il controllo strategico e quello di legittimità e regolarità amministrativa e contabile.
 
3. La gestione del personale: una riorganizzazione razionale dei pubblici dipendenti
Il secondo elemento sul quale il decennio delle riforme si trova ad incidere è quello dell’organizzazione del personale, caratterizzata, secondo la citata relazione, dall’incerta distribuzione delle funzioni, l’inadeguatezza del disegno organizzativo (con le amministrazioni centrali paralizzate da strutture mastodontiche e poco funzionali) e un utilizzo dell’assunzione nel settore pubblico divenuta sempre più frequentemente strumento politico per porre rimedio alla crescente crisi occupazionale[6].
Come noto, il Decreto legislativo n. 29 del 1993 prima, il Decreto legislativo n. 80 del 1998 poi e, da ultimo, il Decreto legislativo n. 165 del 2001, hanno perseguito linee operative tese alla così detta “privatizzazione” del pubblico impiego. Espressione questa con cui si indica un fenomeno complesso che, sinteticamente esplicato, affida allo strumento contrattualistico la disciplina di rilevanti profili del pubblico impiego.
Più dettagliatamente, il legislatore della privatizzazione si preoccupa anzitutto di superare la concezione tradizionale del rapporto, configurata sulla base della disciplina pubblicistica, ed affidare al più duttile strumento contrattuale la disciplina dello status economico e giuridico dei pubblici dipendenti[7].
In linea con questo obiettivo, ridisegna la divisione delle competenze giurisdizionali, affidando al giudice ordinario (nella figura del giudice del lavoro) la soluzione delle controversie in materia di pubblico impiego, fatte salve alcune limitate eccezioni (in particolare le controversie in materia concorsuale restano affidate al giudice amministrativo). In tal modo si sottrae, non senza polemiche, al giudice amministrativo una materia che era di propria giurisdizione esclusiva sin dal 1923.
Infine, nel delineare il rapporto (in particolare) con la dirigenza alla stregua di un contratto di diritto privato, sottrae quest’ultima alla certezza dell’intangibilità e ne condiziona la riconferma al raggiungimento degli obiettivi attribuiti. In sostanza, configura un rapporto improntato alla gestione per risultati, in conformità con le esigenze del legislatore di favorire lo sviluppo di dinamiche manageriali nella pubblica amministrazione, al fine di favorire l’efficacia e l’efficienza di quest’ultima.
 
4. I cittadini ed i servizi pubblici
L’ottica manageriale con la quale si decide di impostare il rapporto con la dirigenza delle amministrazioni, cui s’è fatto cenno poco sopra, si riflette anche nel rapporto con l’utenza. Se infatti la fase precedente al decennio delle riforme è caratterizzata da un modello amministrativo di citizenship[8], si introduce il diverso modello della citizenry. Quest’ultimo, prevede che gli utenti siano una risorsa fondamentale per il funzionamento dell’amministrazione, pertanto la soddisfazione di questi deve costituire l’obiettivo primario dell’amministrazione, in primo luogo attribuendo loro diritti che sono azionabili direttamente presso la pubblica amministrazione.
Lo strumento principale per formalizzare l’accordo tra l’utenza e la pubblica amministrazione diviene la “Carta dei servizi”, introdotta nel nostro paese a seguito della direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 27 gennaio 1994, contentente principi per l’erogazione dei servizi pubblici, che prevede l’adozione da parte di tutti i soggetti erogatori di carte di servizi che abbraccino l’idea ora esposta: l’utenza come risorsa e non come ostacolo.
La metodologia di gestione, ora denominata quality management, si preoccupa di formalizzare l’accordo con i portatori dell’interese legittimo al procedimento. Nascono, inoltre, iniziative parallele. In particolare l’istituzione degli U.R.P. (Uffici Relazioni con il Pubblico), in funzione di front office, e lo sviluppo di “codici di stile”, in risposta all’esigenza di semplificare la comunicazione normativa, sviluppando uno stile normativo lineare, comprensibile e trasparente.
 
5. Conclusioni
A quasi sette anni dalla fine del decennio “d’oro” delle riforme amministrative, gli studiosi della materia tirano le somme sui risultati prodotti dalla gestione dell’apparato amministrativo italiano. Due sono le considerazioni principali che possono essere svolte.
Un bilancio nel complesso positivo, se si considerano i sensibili miglioramenti che la gestione dell’interesse pubblico ha avuto in questi ultimi anni. La percezione del servizio pubblico non è più improntata alla diffidenza, al burocratismo fine a sé stesso, ai labirintici ed oscuri sentieri dell’agire del pubblico potere. Pare che, al contrario, si configuri un rapporto più sereno e, finalmente, collaborativo tra chi gestisce e chi delega perché i suoi interessi vengano ben amministrati.
Al contempo però, un bilancio che presenta inevitabili ombre. La riforma costituzionale delle Autonomie locale e Regioni compie senz’altro un decisivo passo avanti verso quel decentramento di cui, anche, s’è lungamente discusso nel decennio trascorso. Eppure, l’impressione è quella che a prevalere nel dibattito siano state le incertezze ed il timore di una svolta nella gestione del paese che, questo si temeva, avrebbe finalmente intaccato i “poteri centrali”.
Non solo, anche la distribuzione geografica della qualità nel servizio non è soddisfacente come sarebbe stato auspicabile. Restano profonde differenze nel territorio, che, se suggeriscono da una parte di accellerare la riforma autonomistica dello Stato, non possono che far riflettere, per altro verso, sulla necessità di un controllo che garantisca l’omogeneità nel godimento dei diritti essenziali.
L’auspicio è dunque quello più scontato, che cioè le linee evolutive non si interrompano, ma, al contrario, nel perseguire la migliore via per assicurare il benessere economico e sociale, incidano ancora ed ancor più significativamente sulle stutture cui è demandata la concreta gestione del suddetto benessere: quelle amministrative.
 
 
 
 
 
 


[1] Cfr. Righettini M.S., Elementi di scienza dell’amministrazione, appunti sul caso italiano, Roma, 2005, pag. 38: “Il Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, pubblicato dal dipartimento della Funzione pubblica (Dfp) nel 1993, dà un quadro realistico delle condizioni della crisi: esso è il risultato di una intensa attività di studio e analisi delle disfunzioni di cui soffre il sistema amministrativo italiano alla vigilia della bufera giudiziaria”.
[2] In particolare, la letteratura politica si sofferma sulle competenze dell’allora Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi e del Ministro della funzione pubblica Sabino Cassese.
[3] La relazione aveva infatti evidenziato i punti che avrebbero dovuto essere necessariamente modificati al fine di ottenere un miglioramento di questi importanti procedimenti di secondo grado. Anzitutto la diminuzione della produzione normativa in materia, che aveva creato una vera e propria inflazione legislativa; lo snellimento dei procedimenti di controllo lunghi e farraginosi, al punto da limitare fortemente o addirittura escludere gli esiti positivi di questi; infine, lo svecchiamento dei sistemi di controllo giurisdizionali, che avevano originato una vera e propria burocrazia del controllo, che finiva per rallentare i procedimenti.
[4] Ed è in questo ambito che si sviluppa il concetto del ciclo di controllo, con una fase preventiva, atta ad accertarsi che sussistano i presupposti per un’azione amministrativa regolare e corretta; una fase successiva, che verifica la rispondenza dell’azione amministrativa ai presupposti; da ultimo, una fase intermedia, che accompagna lo svolgimento dell’attività amministrativa, corregendola in itinere.
[5] Con una differenza importante costituita dalla composizione: i servizi di controllo interno si compongono di un dirigente responsabile e di altri dirigenti subordinati gerarchicamente. I nuclei di valutazione invece sono organismi collegiali di staff, che garantiscono maggiore apertura alle consulenze esterne.
[6] Circostanza questa che determinerà l’ulteriore conseguenza della cosiddetta “meridionalizzazione” del pubblico impiego. Ovvero dalla presenza massiccia di personale proveniente dal sud del paese, dove la stagnazione dell’occupazione spinge in molti a cercare nel pubblico impiego una soluzione. Ciò a differenza del nord del paese, dove lo sviluppo tecnologico ed industriale costituisce la principale fonte di lavoro.
[7] La disciplina privatizzata del decreto legislativo del 1993 escludeva la dirigenza dall’applicazione dello strumento pubblicistico. Sarà il decreto legislativo del 1998 a comprendere anche quest’ultima categoria tra quelle soggette a disciplina contrattuale.
[8] Nel quale, cioè, gli utenti sono titolari di diritti e doveri in qualità di membri di una comunità e la pubblica amministrazione regola i rapporti con l’utenza esclusivamente in base alla legge e tutela i diritti esclusivamente attraverso il ricorso alla giurisdizione.

Sgueo Gianluca

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