Le Auto a Guida Autonoma e la responsabilità civile nella circolazione stradale

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Alla luce di una ormai consolidata “crisi” che sta mettendo a repentaglio la concezione delle norme etico-giuridiche fino a questo momento valutate come “perno” dell’ordinamento, a farsi spazio sono proprio le numerose innovazioni tecnologico-sociali che, contribuendo alla pretesa effettiva di varare un sistema normativo in grado di adattarsi alle nuove esigenze collettive nazionali ed internazionali, portano a domandarsi come si possa effettuare in termini pratici una riformulazione dell’ordinamento giuridico in chiave generale e – come vedremo – delle regole di responsabilità civile nel particolare.

Tali innovazioni, infatti, non si sarebbero mai potute insinuare in un contesto come quello precedentemente conosciuto, dove ancora le nozioni di responsabilità, di danno, di risarcimento, di soggetto agente e di soggetto leso risultavano essere così imperniati alla struttura romanistica del diritto, che nulla ed alcuna innovazione sarebbe mai stata in grado di confutarne natura e funzione.

Pertanto, l’attuale “crisi” dei valori etico-giuridici rappresenta, in realtà, l’unico terreno fertile per ogni tipo di rivoluzione volta a stravolgere le trascorse elaborazioni giuridiche e – magari – volta a formare un nuovo tipo di ordinamento in cui il binomio vita-diritto sia l’uno lo specchio delle esigenze dell’altro. In altre parole “non ci può essere cambiamento senza alcuna crisi”.

In un quadro come quello delineato, dunque, si fa strada una delle riforme più controverse degli ultimi tempi in grado di mutare non solo il comune modus vivendi fino a questo momento conosciuto, ma anche tutte quelle regole civili inerenti alla responsabilità ed alla sua imputazione: tale riforma pratico-giuridica è quella delle Auto a Guida Autonoma anche dette “senza conducente” e/o (in chiave internazionale) “self-driving car”.

Il progetto delle auto a guida autonoma è il frutto di uno studio che ha visto come precursori gli Stati Uniti. Attualmente la piattaforma della guida senza conducente è ricca di partecipanti coinvolgendo concorrenti anche al di fuori del mercato delle autovetture, come – prima fra tutti – Google con le sue ormai note Google Car presenti nel mercato della sperimentazione già da qualche anno.

In particolare in California, Nevada e Florida è stata liberalizzata da tempo la ricerca della guida autonoma su suolo pubblico tanto che le suddette driverless car di Google hanno percorso già più di trecentomila miglia. Nel Michigan è anche attualmente partito il progetto (frutto di una partnership tra istituzioni, aziende e Università del Michigan) noto come Mobility Transformation Facility, il quale prevede un investimento di 6,5 milioni di dollari volto alla creazione di una “mini-città autonoma”: uno spazio ampio quanto circa 18 campi da calcio del tutto ricostruito ex novo e completamente munito di strade, rotatorie, semafori, panchine, ostacoli e persino facciate di edifici appositamente riprodotti al solo fine di testare la guida autonoma in modo da simularne l’utilizzo all’interno di uno spaccato urbano il più conforme possibile alla realtà.

Parallelamente agli USA – culla delle maggiori innovazioni successivamente diffusesi in scala mondiale – anche in Giappone lo scorso anno si è proceduto alla realizzazione di esperimenti pratici dell’auto a guida autonoma su suolo pubblico.

In tale quadro embrionale di sperimentazione che ha interessato sia il polo occidentale che quello orientale dei Paesi civilizzati, si inserisce invece l’Europa la quale si ritrova in una fase quasi matura in tema di self-driving car, in quanto già preparata da tempo all’introduzione nel mercato delle auto in grado di condursi senza pilota. Lo scorso aprile, infatti, è stato approvato un emendamento per la modifica dell’articolo 8 della Convention on Road Traffic – Trattato internazionale siglato nel 1968 ed in vigore dal 1977 – disciplinante le regole del traffico a cui i settantadue stati partecipanti alla Convenzione devono adeguarsi attraverso l’introduzione di leggi nazionali specifiche.

Nel dettaglio, il sopraccitato articolo 8 che in precedenza recitava “Ogni guidatore deve, in ogni momento, poter controllare il suo veicolo” diviene “Ogni guidatore deve essere sempre presente e abile a prendere il controllo del veicolo, i cui sistemi devono poter essere scavalcati o spenti in qualsiasi momento”. Tale articolo ha subito modifiche che possiamo definire “sottili”, ma al tempo stesso decisive, affermando che i conducenti delle auto a guida totalmente o parzialmente autonoma possono sollevare le mani dal volante, cosa finora esclusa dall’originario testo del Trattato, e ciò a patto che si possa estromettere in qualsiasi momento il sistema elettronico. Quanto detto in sede di modifica apre un varco risolutivo per le auto senza conducente le quali si ritrovano ad avere una disciplina a livello internazionale prevedente l’effettiva possibilità in capo al mezzo di trasportarsi autonomamente.

A rivestire il primato di Paese europeo che ha, in concreto, aperto la strada all’introduzione di tali tipologie di mezzi è la Gran Bretagna. Infatti, dal gennaio 2015 le vetture hanno già iniziato a circolare su suolo pubblico senza incorrere in sanzioni, naturalmente in via del tutto sperimentale. Di certo il Governo di Londra non si è lasciato sfuggire la possibilità di essere all’avanguardia in una delle tecnologie che in qualche modo piloterà, nel bene e/o nel male, il futuro del mondo dell’automobile e non solo.

Infatti, ad essere davvero distorto non sarà unicamente il mercato automobilistico, ma l’intero sistema giuridico, essendo l’ambito della circolazione stradale uno dei principali scenari di scontri tra soggetti con il coinvolgimento delle rispettive sfere giuridiche.

Per un corretto utilizzo di tale tipologia di mezzi all’interno della società pratica, risulta quindi necessario definire (sia nei Paesi di common law che di civil law) tutti i dettagli di un quadro normativo in cui le auto senza pilota potranno muoversi quasi liberamente. Occorrerà quindi formulare modifiche sostanziali, sia legali che assicurative, da apportare al codice della strada, visto e considerato che le questioni legate alla responsabilità sono già in partenza territorio controverso e, in vista di tali novità, non potranno che sostanziarsi ancor di più in un rebus di non facile soluzione[1].

Trasportando il discorso da una lettura teorica ad una esposizione pratica, non si può non considerare un progetto che ha coinvolto gran parte dell’Europa: il c.d. CityMobil2[2] già concepito nel 2011 da 12 città europee che ne hanno poi attivamente preso parte nell’estate 2015. Tale progetto ha però riguardato i mezzi di trasporto pubblici anziché le singole vetture private ed ha previsto che fosse una città italiana ad essere il primo centro in Europa ad ospitare un sistema di trasporto stradale automatizzato (ARTS – Automated Road Transport System). Infatti, è da Oristano che sono partiti due veicoli completamente automatici, condividendo la strada con pedoni e ciclisti. Chiunque ha potuto usufruirne gratuitamente in qualità di “sperimentatore” del sistema, diventando così parte del più grande progetto sperimentale europeo e mondiale sulla mobilità innovativa.

Successivamente, gli stessi veicoli hanno fatto una breve tappa a Léon in Spagna, quindi da ottobre 2015 (unitamente ad altri quattro veicoli con le medesime caratteristiche dei primi) sono giunti a La Rochelle in Francia, dove il sistema è stato operante per una durata complessiva di sei mesi. In contemporanea, un altro sistema con caratteristiche analoghe, ma veicoli diversi, è stato in servizio a Losanna in Svizzera. I due sistemi si sono poi ritrovati a Milano in occasione dell’Expo 2015.

Il suddetto progetto sottolinea la necessità di aggiornare le leggi in tema di circolazione stradale in cambio di benefici sociali quali il miglioramento della sicurezza stradale, la riduzione del traffico, il miglioramento dell’accessibilità del trasporto pubblico locale, la loro diffusione. Da un punto di vista concreto, infatti, tale tipologia di mezzi si è scontrata con le lacune di un quadro normativo non ancora pronto alla certificazione di questi sistemi automatizzati su strade pubbliche. Tale barriera di tipo giuridico, ma frutto di mancanze etico-culturali, deriva dal fatto che la maggioranza dei Paesi europei ha sottoscritto alcune convenzioni internazionali prevedenti la presenza e l’attenzione continua del conducente. C’è però da rilevare che tali convenzioni sono state redatte in epoche in cui veicoli a guida automatizzata non erano nemmeno tecnicamente immaginabili.

Ad ogni modo il progetto CityMobil2 si è prospettato di superare questa barriera sviluppando, insieme ad alcuni ministeri nazionali ed alla Commissione Europea, un quadro legale complessivo all’interno di una proposta di direttiva Europea di armonizzazione.

In tale proposta viene preso come modello-base ispiratore lo standard tecnico ferroviario, che garantisce ai treni il livello di sicurezza più elevato fra i sistemi di trasporto terrestre. Si parte inoltre dal presupposto che i sistemi di trasporto automatizzati previsti dal CityMobil2 possono essere considerati, a seconda dei casi, sia come veicolo isolato, sia come facente parte di un sistema di trasporto complesso. In base alla direzione scelta, le strade da percorrere risulteranno decisamente diverse e con esse anche le conseguenze giuridiche.

Infatti, nel momento in cui il veicolo automatico viene inteso come veicolo stradale isolato, allora lo stesso dovrà rispondere alle disposizioni del Codice della Strada le cui regole, però, scaturiscono da convenzioni internazionali che presuppongono necessariamente la presenza a bordo un conducente. Quindi, il perseguimento di suddetto percorso interpretativo richiederebbe obbligatoriamente in un primo momento una doverosa modifica delle convenzioni vigenti, e, in un secondo momento, di tutte quelle leggi che a cascata sono scaturite da queste. A riguardo, in Germania è attualmente in atto una sperimentazione legale in cui un determinato corridoio autostradale è stato legalizzato al solo fine di essere percorso da veicoli automatici (purché vi siano supervisori a bordo); anche in Svezia è previsto un progetto pilota nelle autostrade circondanti Göteborg con 100 automobili automatizzate (e supervisori a bordo), e nel Regno Unito una commissione sta provvedendo ad individuare tutte le leggi dello Stato che dovrebbero subire le necessarie ed essenziali modifiche per permettere di rimuovere totalmente la presenza della figura dei conducenti.

Nel momento in cui si decida, viceversa, di seguire la seconda strada di interpretazione dei mezzi senza conducente, la quale – come detto – considera i veicoli autonomi integrati nel complesso dei trasporti, si avrà la conseguente trasformazione dell’infrastruttura da strada a parte integrante del sistema di trasporto, accessibile all’occorrenza a pedoni, ciclisti ed automobilisti, ma che segue regole specifiche. In questo caso le convenzioni e le regole scritte appositamente per la strada non trovano applicazione con conseguente necessità di creare nuove previsioni di legge idonee senza però dover modificare quelle pre-esistenti.

La problematica avente ad oggetto la previsione di leggi da creare ad hoc per consentire l’utilizzo, seppur sperimentale, di automobili c.d. unmanned (senza pilota) è in fase di elaborazione proprio in Germania il cui Governo ha varato – a tempi di record – un protocollo per permettere all’industria automobilistica tedesca di sperimentare veicoli senza pilota sul territorio federale. Ciò che risulta essere interessante riguarda il “come” questi particolari veicoli riusciranno ad integrarsi nel sistema viabilistico ordinario. Per tal motivo è stato creato un comitato che include esponenti della ricerca, dell’industria e della politica al fine di stendere una piattaforma legislativa che sia presentabile e approvabile. Le attuali regole in vigore, infatti, non permettono l’esistenza di sistemi di autoguida delle vetture a bordo delle quali il pilota deve sempre essere presente (come stabilito dalla Convenzione di Vienna del 1968 sul traffico stradale, siglata da ben 72 Paesi e successivamente aggiornata).

Il paradosso di questa innovazione che coinvolge – come visto – tutta l’Europa (anche se è solo la Germania che attualmente sta prendendo dei provvedimenti effettivi), consiste quindi non tanto nella sua applicabilità a livello tecnico, ingegneristico o tecnologico, quanto nella sua assoluta incongruenza con i sistemi legislativi vigenti in tutti Paesi che si sono esposti a questa sperimentazione. L’ostacolo principale si incentra su una questione di responsabilità: chi sarà il responsabile in caso di incidente dovuto da un guasto o malfunzionamento del computer che governa l’auto? Chi certificherà il robot “gestore” del mezzo riconoscendolo oggettivamente in grado e realmente capace di condurre autonomamente un veicolo?

Una volta aver messo in luce quelle che sono state le problematiche e le intenzioni perseguite dagli Stati internazionali in materia di auto a guida autonoma, ci si chiede adesso cosa succede nel nostro Paese? Come si è deciso di prender parte a questa rivoluzione tecnologica? E quali sono tutte le questioni sorte ed insorgende che da un punto di vista concreto andranno ad intaccare il nostro ordinamento?

Andiamo con ordine. Innanzitutto anche in Italia c’è un team che porta avanti una ricerca di questo tipo ormai da diverso tempo: si tratta del VisLab il quale ha presentato il suo nuovo prototipo DEEVA in materia di driverless car.

La VisLab è l’acronimo di Artificial Vision and Intelligent Systems Laboratory e non è altro che uno spin-off nato nell’ambito dell’Università di Parma il cui obiettivo principale è quello di mettere in contatto il mondo accademico con quello in cui operano importanti realtà produttive.

Frutto dello studio in materia di nuove tecnologie è il progetto DEEVA il quale rappresenta l’ultimo prototipo sviluppato per quanto riguarda le automobili in grado di guidare da sole senza richiedere alcun intervento da parte dell’uomo.

Dal punto di vista delle tempistiche di attuazione del progetto in argomento, una tecnologia di questo tipo potrebbe fare il suo debutto in versione commerciale entro il 2020, tuttavia si tratta di una deadline indicativa, ma comunque tutt’altro che utopica se si considerano i passi in avanti effettuati negli ultimi anni.

Sulla base di quanto esposto appare, però, doveroso ribadire che affinché vetture di questo tipo possano circolare sulle strade pubbliche c’è bisogno innanzitutto dell’appoggio anche da parte del legislatore italiano.

Infatti, il nostro Codice della Strada non prevede la possibilità di viaggiare su veicoli controllati autonomamente, a meno di non disporre di particolari autorizzazioni come quelle ottenute da VisLab per la fase di sperimentazione progettuale.

Come accaduto in Germania, abbiamo visto che in altri Paesi si è già provveduto ad aggiornare le proprie normative e con tutta probabilità in futuro accadrà lo stesso anche in Italia anche se il contrasto in materia di responsabilità civile è molto più complesso nel nostro sistema che in altri.

Il quesito che, infatti, ci si pone maggiormente è quello circa la effettiva capacità dell’auto a guida autonoma di gestire le situazioni di ogni tipo al pari o addirittura meglio di come farebbe l’uomo utilizzando la normale diligenza giuridica richiesta dalle norme in tema di responsabilità.

Le difficoltà pratico-giuridiche sorte da tale sperimentazione su strada delle auto senza conducente hanno richiesto diverse autorizzazioni a partire dagli Enti locali per arrivare al Ministero: nello specifico sono stati interpellati la Direzione Centrale della Motorizzazione Italiana, il Ministero dell’Interno – Polizia Stradale, ANAS, Comune di Parma, Polizia Municipale e Camera di Commercio di Parma.

Secondo l’Ing. Olga Landolfi [Segretario Generale dell’Associazione Italiana per la Telematica per i Trasporti e la Sicurezza (TTS Italia), associazione che annovera tra i soci fondatori sia il Ministero dei Trasporti che quello dei Lavori Pubblici] ha affermato che in questo momento in Italia manca l’interesse per la guida autonoma. Questo perché le uniche previsioni legislative esistenti in Italia possibilmente richiamabili in materia sono:

1) il decreto dell’1 febbraio 2013 sulla diffusione degli ITS (Sistemi di Trasporto Intelligenti) quale quadro normativo pubblicato anche nella Gazzetta Ufficiale e sottoscritto dal Ministro dei Trasporti;

2) il piano d’azione nazionale sempre sugli ITS approvato dal Ministro Lupi il 12 Febbraio 2014.

In realtà tali disposizioni sono già di per sé decisive e rivestono carattere di innovazione e progresso legislativo, tuttavia il problema persiste perché in dette previsioni si parla solo di guida cooperativa (auto connessa), mentre la guida autonoma, intesa come guida di un’auto senza pilota su suolo pubblico, non è in alcun modo menzionata.

Pertanto, nel panorama normativo italiano come attualmente delineato, la guida autonoma non è assolutamente considerata e in questo momento non vi sono tavoli legislativi aperti in tal senso, ma solo iniziative a titolo di ricerca.

I nodi da sciogliere e le questioni irrisolte per poter mettere in strada un’auto senza pilota non sono di facile e immediata soluzione: prima fra tutte i costi elevati per una diffusione di massa, le incertezze tecniche per una tecnologia nuova (rischio di falle nei sensori, pericolo hacker e rischio privacy per la comunicazione dei dati), il rischio paradossale che un uso eccessivo di questi veicoli possa incrementare il traffico urbano e, soprattutto, la responsabilità civile sulla strada. Mentre per le questioni inerenti gli esposti di carattere prettamente tecnologico si sarà in grado di proporre ed anche attuare effettive soluzioni, per quanto attiene le difficoltà della imputazione della responsabilità la situazione è ben diversa. Questo perché in tema di responsabilità civile di un veicolo il problema consiste nella riconducibilità di un fatto dannoso alle auto che autonomamente percorrerebbero le strade nazionali. Soprattutto, va capito chi è responsabile quando a bordo non c’è nessuno. Per non parlare di tutte quelle problematiche riguardanti le RC Auto, le quali non potranno di certo essere dispensate dallo stravolgimento generale che una innovazione di questo calibro porta con sé.

In altri termini, le automobili autonome implicano un insieme più ampio di sfide: da un lato questi veicoli, praticamente esenti da incidenti, comportano poco o nessun rischio dal punto di vista delle collisioni, il ché riduce drasticamente i premi di assicurazione con un conseguente impatto diretto sulla comunità delle società assicuratrici; d’altra parte, ciò comporterà una nuova serie di rischi che tradizionalmente gli assicuratori non sono stati abituati ad affrontare.

Secondo uno studio pubblicato sul sito scientifico Arxiv[3] se si chiede a diversi soggetti come dovrebbe comportarsi un’auto senza pilota nel caso sia inevitabile la morte degli occupanti o quella dei pedoni, la maggior parte risponderà che le auto dovrebbero essere programmate in modo da non ferire i passanti. Detta questio iursi – già proposta precedentemente e puntualmente rimasta irrisolta – è anche nota come “dilemma del carrello” ed è al centro delle discussioni in tema di auto a guida autonoma quale perfetto esempio della tensione tra il dovere morale di non causare danno e quello di non commettere azioni illecite.

Tuttavia, secondo una vecchia scuola di pensiero conosciuta come utilitarismo[4], l’azione morale è quella che genera la felicità maggiore al maggior numero di persone. Alla stregua di tale ragionamento, un’auto senza conducente dovrebbe scegliere l’azione che garantisce di risparmiare il maggior numero di persone, indipendentemente dal fatto se siano passeggeri o pedoni. Pertanto, se morissero cinque occupanti dell’auto nello schianto contro un muro e l’unico modo per evitare il detto muro e fare salvi i cinque passeggeri è rappresentato dall’imboccare una strada in cui è inevitabile investire un pedone, il mezzo dovrebbe proseguire la sua corsa in quest’ultima via anche se ciò comporterà la lesione e/o morte del passante. Tale argomentazione può sembrare semplicistica, ma allo stesso tempo risulta difficile contestarne i dettagli.

Ad ogni modo, altri pensatori intervenuti nella discussione sul “dilemma del carrello” sostengono che l’utilitarismo è un approccio “grossolano” alla problematica de qua, e che l’azione moralmente corretta non si limita a valutare le conseguenze, ma considera anche a chi si debba imputare la responsabilità civile morale e giuridica. Si può affermare, infatti, che i produttori di auto a guida autonoma dovrebbero programmare i loro veicoli in modo da proteggere preliminarmente i passanti. Questo perché chi si trova nell’auto è maggiormente responsabile degli incidenti che potrebbe provocare, in virtù del principio secondo il quale la consapevolezza dell’alea di una specifica attività (quale per eccellenza quella della circolazione stradale aggravata dalla presenza di un mezzo privo di conducente) comporta la prevedibilità del verificarsi di determinati eventi, e il non porre in essere qualsiasi azione e/o omissione in grado di evitare che quell’evento prevedibile si verifichi, corrisponde a concorrere alla causazione dell’evento lesivo.

Pertanto nel momento in cui scientemente un soggetto decide di salire su un’auto a guida automatica, questo crea di per sé il rischio con conseguente imputazione della responsabilità in capo al medesimo.

Sembra quindi essere del tutto respinta l’idea utilitarista usata in tema di responsabilità ed etica derivanti dalle auto a guida autonoma che prevede che la moralità debba massimizzare la felicità, e sembra, invece, riprendersi il pensiero basilare secondo il quale gli esseri umani hanno il dovere di rispettare le altre persone. Dunque, dal punto di vista etico, un’azione che arreca danni in maniera diretta e deliberata è da considerarsi “maggiormente lesiva” di una indiretta che li provochi in maniera casuale.

Da un punto di vista della responsabilità, la maggior parte delle opinioni è giunta alla conclusione di annoverarla tra le responsabilità del produttore, facendo quindi imputare la responsabilità civile di un incidente in cui è presente un’auto a guida autonoma, alla ditta che ne ha progettato la tecnologia predittiva essendosi rilevata, in concreto, difettosa e quindi fallace.

Sulla base di tale interpretazione, pertanto, la società produttiva dovrà assumersi la responsabilità di un qualsiasi incidente che dovesse verificarsi ad una delle predette vetture durante la guida totalmente autonoma.

Non dobbiamo in ogni caso dimenticarci che si tratta, come detto, di sole opinioni in materia di responsabilità civile in tema di auto automatiche e di interpretazioni del tutto ancora confutabili e modificabili.

Ciò nonostante vale la pena analizzare tale teoria in quanto, seppur opinale, è comunque plausibile.

Occorre premettere che, secondo l’orientamento dottrinale maggioritario, la responsabilità in tema di auto a guida autonoma consisterebbe in una responsabilità di tipo oggettivo[5] e non già di responsabilità per colpa presunta[6], atteso che il presupposto per la imputabilità della suddetta responsabilità consiste, appunto, nella sussistenza del difetto in capo al prodotto, a nulla rilevando il fatto che il produttore abbia posto in essere un comportamento colposo[7]. Tale linea interpretativa pare, peraltro, coerente con l’intento di porre in essere uno schema di responsabilità di tipo oggettivo, in luogo di una responsabilità per colpa considerata una soluzione inadeguata alla problematica in esame.

Tramite il predetto sistema di responsabilità oggettiva, appunto, si vuole introdurre uno strumento mediante il quale dare concretezza alla tutela del consumatore. Un criterio d’imputazione della responsabilità del produttore indipendente dalla colpa viene, infatti, considerato funzionale ad un più efficace perseguimento di quei fini risarcitori e di prevenzione esplicitamente richiamati dalla dottrina a partire dai primi progetti delle auto a guida autonoma, insieme alle note argomentazioni di maggiore efficienza richiesta alle società relativa alla necessità di imporre alle imprese produttrici i rischi conseguenti alle loro attività.

Proprio in questa specifica prospettiva, considerato anche il deficit d’informazione patito dal consumatore in una materia di così recente introduzione ed ancora così controversa, si ritiene che il produttore debba essere nella miglior posizione per prevenire (o comunque ridurre) i predetti rischi.

A questo punto, occorre osservare come, per quanto concerne l’individuazione dei soggetti responsabili, la dottrina responsabilizza non solamente il fabbricante del prodotto finito, bensì anche chi si troverà a produrre la materia prima o un suo componente e chiunque apporrà il proprio nome, marchio, segno distintivo, presentandosi come produttore del bene stesso[8], e quindi dell’auto a guida autonoma.

Si è inoltre ritenuto che i legittimati attivi all’azione risarcitoria saranno coloro che hanno acquistato (dal produttore o da terzi) il bene difettoso; ed anche colui che, pur non essendo proprietario del prodotto difettoso, ne ha fatto comunque uso a qualunque titolo.

Ma ad essere attivamente legittimati in primo luogo sono i c.d. bystanders, e cioè coloro che, pur non avendo utilizzato il prodotto, subiscano – casualmente o meno – un pregiudizio connesso alla produzione e commercializzazione di un prodotto difettoso[9], ed è proprio il caso del pedone che attraversando dovesse venir leso da un’auto a guida autonoma presentante problemi ai sensori di identificazione, rivestendo tale categoria ruolo primario in tema di risarcimento del danno.

In conclusione, facendo rientrare la responsabilità in tema di auto a guida autonoma tra quelle annoverabili come responsabilità del produttore, si sottolinea ancor di più l’imprescindibilità dell’intervento umano. Questo perché le self-driving car saranno sempre e comunque programmate dall’uomo al fine di poter permettere alle stesse di riconoscere situazioni-tipo verificabili nella vita reale ed agire di conseguenza. Infatti, è certamente vero che l’imprevedibilità e la fallibilità umana sono le principali cause dei sinistri, anche nel traffico tradizionale, ma allo stesso tempo il libero arbitrio umano è ciò che condiziona le sue scelte di azione ed interazione in base agli accadimenti esterni i quali non possono mai essere in maniera totalitaria prevedibili da parte della mente umana, e pensare che tale opera predittiva possa essere svolta da una macchina la quale essa stessa è frutto dell’ingegno umano, appare, a parere della scrivente, utopico ma ancor più paradossale! La stessa imprevedibilità di un evento può causare il medesimo risultato sia che a doverlo contrastare sia un essere umano o una macchina, come anche potrebbe verificarsi la eventualità che sia l’uomo ad avere la meglio nella scelta tra la vasta gamma di azioni e/o omissioni che lo stesso potrà porre in essere al fine di evitare che un determinato evento si verifichi o che comunque che detto evento non divenga causa di danno per soggetti tersi.

Pertanto, una strada tecnologica come quella intrapresa dallo sviluppo delle auto a guida autonoma sembra rivestire certamente caratteri di estrema innovazione come anche di importante progresso tecnologico, ma non ha tenuto conto di come un sistema legislativo, normativo e morale come quello italiano non possa venire così stravolto in tempi brevi come quelli prefissati a livello internazionale.

Soprattutto, non si è preso in considerazione di come tutto quel complesso di norme etico-giuridiche fino ad ora conosciuto e vigente non possa venire intaccato da una tecnologia così ad esso contrapposta, laddove nella teoria del bilanciamento degli interessi sulla immaginaria bilancia quale è la società moderna, il piattino su cui poggia il perseguimento della tradizione e della cultura romanistica dell’ordinamento è certamente più pesante rispetto a quello su cui grava il progresso.

 

IL PROBLEMA IN CHIAVE DI LETTURA ETICA – FILOSOFICA:

IL DIRITTO COME RISPOSTA ALLE NUOVE ESIGENZE DELLA SOCIETÀ

Alla luce di tutto quanto sino ad ora esposto, si denota come l’istituto della responsabilità civile, alla base del nostro ordinamento, si ritrovi a subire una serie di interventi volti al miglioramento della fattispecie stessa soprattutto per quanto riguarda le sue ripercussioni pratiche all’interno della società. Questo perché il fine ultimo del diritto si sostanzia proprio nel perseguimento dell’attuabilità dei principi cardine dell’ordinamento all’interno di quella che è la vita di relazione degli uomini, al fine di regolamentare tutte quelle ipotesi di contrasti inevitabilmente derivanti dai contatti sociali, ed evitare – o meglio – gestire le eventuali conseguenze derivanti da condotte non sempre attuate nel rispetto delle regole comuni di conservazione e convivenza vigenti tra i diversi individui, che nella loro collettività formano la società in cui vivono.

Possiamo affermare, infatti, che la società è disciplinata da regole non scritte, definite comunemente consuetudini, nonché da regole espressamente previste dall’ordinamento giuridico. Sono proprio queste regole – che siano esse tacite o previste ex lege – a rispecchiare le effettive richieste della comunità dettate da pretese pratiche di amministrazione e coordinamento della vita quotidiana; e sono proprio queste regole a subire le ripercussioni delle necessità collettive. In altre parole: il diritto, e conseguentemente l’ordinamento che ne disciplina la funzionalità, subisce mutazioni e continue revisioni in risposta alle esigenze della società.

Se la società avanza determinate pretese, l’ordinamento prontamente (in maniera meno o più adeguata) cerca di soddisfarle adattandosi allo spettro delle volontà generali ed appianando le lacune giuridiche sino a quel momento esistenti.

Proprio per il perseguimento del fine ultimo del diritto, volto a soddisfare le esigenze della vita comune, e proprio in conseguenza dell’incessante evolversi delle scoperte tecnologiche e, comunque, dell’avanzamento che la società continuamente subisce, il diritto è sempre più frequentemente posto di fronte alla sfida di individuare adeguate soluzioni di regolamentazione delle innovazioni scientifiche e delle relative applicazioni tecnologiche nei più svariati settori economico-produttivi.

Ad ogni modo, l’arduo ruolo del diritto di porre in essere una regolazione pratica delle nuove tecnologie, si colloca in uno scenario di tensione e necessario bilanciamento tra l’esigenza di realizzare i benefici e i vantaggi economico-sociali ad esse legati, e la necessità di fronteggiarne le conseguenze “collaterali”, e si pone quale scopo quello di fornire, sul piano normativo, risposte in termini di sicurezza per la salute umana, animale e per l’ambiente – considerando, altresì, le istanze di tipo sociale ed etico – nonché predisporre gli opportuni strumenti di tutela.

Pertanto, considerando le innumerevoli conseguenze etico-morali e giuridiche derivanti dall’adattamento (“forzato”) dell’ordinamento alle incessanti nuove tecnologie, la domanda che ci si dovrebbe porre è: “di quanto diritto abbiamo bisogno? E di quale diritto abbiamo bisogno, nelle società contemporanee sempre più complesse, attraversate dal pluralismo culturale e dei valori, conflittuali, condizionate dalla presenza pervasiva della tecnologia?” Il diritto è onnipresente nella società contemporanea, ora in maniera invasiva ora in maniera impercettibile; il diritto è familiare, incistato nella vita quotidiana, indispensabile alla convivenza sociale, e tuttavia spesso sembra ignorare la vita (la “nuda vita”): il diritto è sempre in bilico tra aspirazione a realizzare valori morali ed esercizio, ancorché disciplinato e proceduralizzato, della forza bruta[10]. (S. Rodotà)

Per un verso possiamo parlare del diritto come strumento di regolazione sociale al pari o, addirittura, superiore di altre forme di coordinamento dei rapporti sociali, quali la religione, la morale, la tradizione, il costume. Infatti, il diritto, a differenza di queste ultime, si pone in una posizione privilegiata proprio perché consiste, di fatto, in una entità del tutto e consapevolmente artificiale, frutto di volontà umane che si incontrano e che lo stesso incontro di volontà può modificare.

Nella sua qualità di mezzo di controllo sociale, il diritto non è dunque un “dato” che l’uomo si impone, ma è uno strumento frutto di aspirazioni liberanti: “la legge, in quanto norma generale e astratta prodotta dall’organo rappresentativo della volontà popolare, è la regola che il popolo dà a sé stesso e che lo rende libero” (Rousseau)[11].

Inoltre, il diritto moderno adotta come valore fondamentale l’uguaglianza formale, e considera gli esseri umani come “soggetti” e non come “persone”: in altre parole abbandona la dimensione dell’esistenza e della sua materialità[12]. Quindi, ciò che il diritto moderno pone alla base della sua natura è la capacità di sapersi rendere autonomo rispetto alla morale escludendo dalla deliberazione giuridica ogni considerazione sostanziale. Tuttavia, la predette caratteristiche che, su di un piano teorico, qualificano il diritto come perfetto, all’opposto, da un punto di vista pratico, portano a considerarlo uno strumento paradossale, in quanto il diritto da artefatto umano rischia costantemente di diventare “inumano”, ignorando le reali vicende esistenziali e la materialità della società in cui inevitabilmente deve andare ad inserirsi e contro cui scontrarsi.

Esistenza pratica e materialità sono, infatti, i caratteri essenziali affinché il diritto non rimanga un qualcosa di perfetto ma astratto, e sono quelle “coordinate” da seguire affinché lo stesso diventi uno strumento effettivo e soprattutto realizzabile, considerando d’altro canto, tutte le lacune che da ciò ne derivano.

Nella società attuale, in cui sono venuti meno quasi tutti gli altri mezzi di regolazione sociale (religione, morale, etica etc.), e soprattutto, davanti agli effetti talora stranianti dell’incessante progresso tecnologico, si chiede al diritto “una ricostituzione ed un riordino della società”.

In altre parole il diritto deve avere l’arduo compito non solo di dare una regola e certezza alle relazioni sociali, ma anche di ricostruire l’ordine simbolico della società stessa, e ciò anche a costo di soluzioni semplicistiche purché certe e definitive: ed è da qui che scaturiscono tutte le lacune che inevitabilmente finiscono per caratterizzare l’ordinamento giuridico. Ed ecco che quella che dovrebbe essere la soluzione dei problemi sociali, rischia di innestare nel diritto tendenze autoritarie ogniqualvolta la risposta giuridica non sia ricerca di mediazione, ma imposizione del punto di vista solo di una parte della società: si parla in questo caso del “rischio di un uso autoritario del diritto, come scorciatoia per chiudere precocemente un conflitto, come strumento per imporre valori non condivisi[13].

Di fronte a tali linee di sviluppo notevolmente complesse, la risposta del diritto dovrebbe innanzitutto risiedere nella valorizzazione dei diritti sostanziali individuali e collettivi che danno contenuto alla cittadinanza, la quale non è più da intendersi come legata ad uno specifico territorio: l’idea di cittadinanza consiste pertanto nella pienezza dei diritti (civili, politici e sociali).

E’ proprio in tale panorama che si avviano le molteplici difficoltà che il diritto si propone di superare.

Il punto di partenza deve essere la medesima domanda che già più volte ci siamo posti, ma che ancora non ha trovato soluzione: “Di quanto diritto abbiamo bisogno? E di che tipo di diritto abbiamo bisogno per affrontare le sfide di una società sempre più invasa dalla tecnologia e dal mercato, e attraversata dalla paura e dal bisogno di sicurezza?”. La risposta (astratta) da dover dare al prospettato quesito e da cui partire per un effettivo riordino dei principi collettivi, deve essere di tipo “istituzionale” non dovendosi trattare, invero, unicamente di “risposta giuridica”. Questo perché il diritto e la giuridificazione (da intendersi sotto forma di regola astratta) non costituiscono di per sé la panacea dei problemi sociali, e possono anzi essere una ipocrita scorciatoia. Infatti, la risposta giuridica, affinché assuma effettiva valenza pratico-teorica, deve essere necessariamente accompagnata da un impegno istituzionale.

In sostanza il diritto non dovrebbe rappresentare la risposta, ma il mezzo per una convivenza collettiva all’interno della società moderna sempre più alla ricerca di nuove soluzioni pratiche tecnologicamente avanzate. Il diritto dovrebbe privilegiare una funzione promozionale della propria concezione, coniugata alla costruzione di comuni “punti di vista”, di nuove consapevolezze sociali, rinunciando a pretese di imperialismo che condannano inesorabilmente lo stesso ad essere rifiutato dai suoi destinatari. Solo in tal modo il diritto potrà superare ogni conflitto sociale facendo sì che, accettando di riconoscere l’esistenza di nuovi spazi normativi mai presi in considerazione prima (come il caso delle nuove tecnologie), vi ci si introduca senza alcun contrasto.

Pertanto, nell’ultimo decennio, in cui il concetto di diritto sembra farsi e disfarsi ogni qual volta ci si trovi di fronte ad una nuova prospettiva offerta dalla società moderna, sembrano essere divenute più radicali le divisioni interne alla cultura della responsabilità civile di pari passo con l’aumento del fermento intellettuale che da trent’anni a questa parte connota il settore.

Si avvertono pertanto esigenze effettive di consolidamento degli indirizzi economici del diritto, di contrastare l’arido formalismo che ignora gli interessi sostanziali costituenti il substrato delle regole giuridiche, di accentuare l’interesse per le indagini storiche rivolte alla ricerca dei principi generali, e – soprattuto – di rafforzare l’esigenza di individuare una base etica alle regole di imputazione della responsabilità.

Sono queste le prospettive con cui attualmente si ha bisogno di guardare alla responsabilità civile ed anche all’intero sistema giuridico che prende forma nelle variegate esperienze economiche / tecnico-funzionali / storiche / etiche.

Oggi, più che mai, i cultori della responsabilità civile considerano questo settore come il terreno di elezione della “ingegneria giuridica”: è la sensibilità per i nuovi interessi che impone di ripensare e rimodulare costantemente le funzioni del diritto, così come il ruolo del giurista, alla ricerca di una giustizia adeguata alle esigenze delle società complesse e frastagliate.

Attualmente, però, la prospettiva moralistica del diritto sembra essersi ribaltata: infatti, non si va più alla ricerca dei fondamenti etici della responsabilità che individuano i capi-saldi intorno ai quali costruire il sistema delle regole sociali di comune convivenza, ma si fa un uso strumentale dell’etica per giustificare le regole esistenti, ovvero per proporne la loro modificazione.

In questo contesto di stravolgimento generale, si sono creati in dottrina due filoni di pensiero:

  1. I) coloro che si appellano al principio secondo il quale non si possono usare le regole di responsabilità per raggiungere finalità sociali: la responsabilità civile svolge un ruolo di sanzione dei comportamenti riprovevoli, deve assicurare una riparazione a chi ha subìto un danno senza avere riguardo alcuno agli effetti economico-sociali che quelle regole possono produrre, non può essere piegata alla tutela di esigenze collettive, ma deve essere rivolta alla soluzione di questioni individuali;
  2. II) e coloro che – d’altro canto – cercano una giustificazione ex post sulla base di un pregiudizio ex ante: la responsabilità civile non può che derivare da una colpa commessa da un determinato soggetto (il presunto danneggiante) ed evidenziata, nella sua sussistenza e nella sua relazione causale con il danno, dal soggetto che il danno lo ha patito (il danneggiato).

Tali teorie astratte sono, tuttavia, facilmente esponibili a numerose obiezioni: non ci si può infatti limitare ad affermare, con ingenuità, che l’uso strumentale è connaturato alla stessa creazione ed applicazione delle regole. In altre parole, dire che una regola serve solo a perseguire il fine della tutela individuale significa piegare quella regola allo scopo precostituito dall’interprete. Anche nel caso in cui si applichino le regole della responsabilità per tutelare il singolo soggetto nel singolo caso si finisce per porre in essere un uso strumentale della regola; né ci si può trincerare dietro una mera interpretazione storica (della voluntas legislatoris), perché si negherebbe la necessaria elasticità della regola che, al contrario, deve essere in grado di adattarsi alle esigenze dettate dai nuovi tempi.

Pertanto, a questa linea ideologica bipolare si è sentita l’esigenza di contrapporre una terza tesi che si fonda, per contro, sulla giustizia correttiva: chi ha creato un danno e ne ha tratto vantaggio deve ripararlo; il “come” e “in che misura” è una valutazione collettiva che ha riguardo non solo al singolo interesse, ma anche alla posizione del danneggiamento genericamente inserito nell’ambito del sistema socio-economico.

Si può quindi ben parlare di “crisi delle regole di responsabilità civile” nella loro risposta all’amministrazione di rischi e danni.

Infatti, alle straordinarie potenzialità dell’istituto de quo si affiancano anche i visibili limiti delle regole di responsabilità civile. Limiti che non rispondono all’esigenza di porre rimedio al proliferare dei danni propri delle società complesse e moderne come quella in cui viviamo, che non coinvolgono le regole giuridiche basilari in un mondo nel quale la caduta dei valori familiari e religiosi si fa sempre più spazio; limiti che accentuano la conflittualità dei rapporti personali con la ricorrente registrazione di danni di massa.

Tutto ciò non fa altro che esercitare una pressione smisurata e non controllabile sul sistema giuridico il quale, in un momento come quello attuale, si ritrova a non essere all’altezza delle necessità dell’uomo moderno.

Di qui l’esigenza di ripartire il rischio nel modo più esteso, e la ricerca della risposta dei diversi ordinamenti di adattarsi ai nuovi bisogni.

Ecco dunque la progressiva erosione dei modelli tradizionali di reazione al danno, ma anche l’immersione di tutto il settore in un magma di incertezza e di fluidità.

Di qui ancora l’enorme ruolo svolto dall’assicurazione (soprattutto nella materia della responsabilità civile automobilistica), che tuttavia non può, per sue caratteristiche strutturali, far fronte a tutte le evenienze del danno e di ordinata distribuzione dei suoi effetti.

Ecco perché in alcuni sistemi si sono sottratte intere aree, tradizionalmente assegnate alla responsabilità civile, collocandole al di fuori del campo del diritto civile per inserirle in sistemi di natura pubblicistica, nella sicurezza sociale, o in sistemi di natura mista.

Soprattutto si segnala un nuovo fenomeno: la perdita del carattere individualistico dell’imputazione della responsabilità, spostata gradualmente dall’individuo ai gruppi, alle organizzazioni, alle imprese, alle comunità, sino ad arrivare alla totale esclusione dal concetto di imputabilità dell’essere umano e ricondurlo ad un oggetto inanimato quale – nel nostro caso – l’autoveicolo.

In tutta risposta ciò che, invece, dobbiamo realmente ricordare nell’era del progresso, è che la responsabilità civile non è altro che un complesso di regole antiche che si ritrova catapultata a soddisfare esigenze sociali in un’epoca di evoluzione incessante.

La responsabilità civile richiede una riforma, anche legislativa, che però non può essere varata con rapidità, perché il sistema giudiziario non consente un facile accesso alla giustizia da parte delle “vittime” comuni.

I diritti fondamentali potrebbero svolgere un ruolo determinante in questa crisi della responsabilità, ma la loro incidenza è graduale e indiretta con la terribile conseguenza che il pilastro di questa branca dell’ordinamento rischi di fallire nel suo intento di assicurare un risarcimento pronto e sicuro.

Unica soluzione è quella che vede un sistema di amministrazione della giustizia efficiente in grado di reagire alle nuove esigenze sociali senza stravolgerne le radici.

Tuttavia, l’affermazione attuale del principio di responsabilità, tanto dal punto di vista antropologico, quanto, a maggior ragione, nell’ottica giuridica, non può, affidarsi ai modelli tradizionali di stampo naturalistico, religioso o illumistico, e deve, al contrario, passare per una rimodulazione delle concezioni filosofiche e giuridiche che, pure efficienti in contesti storici diversi, oggi palesano la loro inadeguatezza a governare le problematiche suscitate dalle nuove tecnologie.

Per tali ragioni, dalla metà del 1800 in avanti, i presupposti, le funzioni e i criteri di imputazione della responsabilità civile sono stati sottoposti ad un vaglio critico[14] giungendo alla situazione attuale in cui, nuovamente, viene richiesto al diritto l’arduo compito di riformulare la sua concezione e riadattarla alle nuove esigenze pratico-tecnologiche.

Ai fini di un migliore inquadramento della normativa in oggetto e per delinearne i nuovi aspetti applicativi, appare doveroso partire dalla considerazione del ruolo che le regole in materia di responsabilità civile giocano nel diritto delle obbligazioni.

Dalla creazione del danno, da parte del danneggiante o agente, sorge, infatti, una obbligazione: l’obbligazione di risarcimento del danno risentito dal danneggiato o vittima che determina un vincolo derivante dalla legge (artt. 1173, 2043 c.c.). Il danno a sua volta è visto come espressione materiale, fisica, visibile di un comportamento dannoso: è uno degli aspetti di una fattispecie che la scienza giuridica, intesa a ricondurre a volontà dell’uomo o comunque ad un comportamento umano ogni conseguenza giuridica, denomina complessivamente “atto illecito”.

L’illecito, in senso giuridico, è appunto l’atto che provoca danni a terzi, e che crea una obbligazione di risarcimento.

I confini tra la responsabilità contrattuale e la responsabilità extracontrattuale non sono netti, ed anzi tendono progressivamente a diventare sempre meno nitidi. Vi sono casi nei quali si ha la responsabilità extracontrattuale per vicende aventi origine da un contratto: ad esempio la induzione all’inadempimento, la rottura delle trattative, la conclusione di un contratto nullo, la conclusione di un contratto in danno al terzo e così via. In un’epoca nella quale si assiste, nell’ambito di ogni ordinamento al passaggio da forme di responsabilità con colpa a forme di “responsabilità oggettiva”, anche il profilo della c.d. “deterrenza” (da intendersi come quell’insieme di comportamenti tesi ad influenzare le azioni di un soggetto in modo da minimizzare la possibilità che esso aggredisca un altro soggetto o metta in essere comportamenti e/o azioni ritenuti lesivi della convivenza civile), tende a scomparire, o, quanto meno, ad assumere significati del tutto diversi da quelli originari. Al riguardo si precisa che l’obbligo di risarcire il danno, che dovrebbe indurre l’agente ad adottare tutte le misure idonee a prevenire pregiudizi ai terzi e a distoglierlo dall’intraprendere attività pericolose o eccessivamente rischiose, può divenire un forte strumento di deterrenza solo se subordinato all’accertamento di una “colpa” dell’agente.

Nella società post-moderna, l’obiettivo fondamentale delle regole di responsabilità diviene, pertanto, quello risarcitorio e l’elasticità del sistema è raggiunta proprio mediante la ricostruzione dei principi generali.

La giurisprudenza pone in evidenza, in primis, il principio di “auto-responsabilità”, che in altri ordinamenti si esprime in termini di “assunzione del rischio”.

Per auto-responsabilità si intende, dunque, la assunzione delle conseguenze dei propri atti o comportamenti verso i terzi, ma anche verso se stessi (conseguenze dannose arrecate al proprio patrimonio, perdita di un diritto, di un’azione, di una facoltà).

L’analisi degli impieghi del principio neminem laedere, strettamente connesso al concetto giuridico della responsabilità oggettiva, apre pertanto uno scenario affascinante. Appare comunque opportuno sottolineare che nel sistema attuale la responsabilità oggettiva non è da considerarsi come “responsabilità assoluta” o, addirittura, come “garanzia”; infatti, mentre in passato l’ambito della responsabilità era per lo più circoscritto all’onere probatorio accollato al danneggiato, ad oggi – a seguito dell’introduzione del principio della auto-responsabilità – non occorrerà ulteriormente indagare sull’esistenza o meno in capo al danneggiante dell’elemento soggettivo costituito dal dolo o dalla colpa.

Al riguardo viene da ripensare a quell’insegnamento consolidato che considerava il sistema della responsabilità civile come un complesso di regole destinate all’amministrazione del danno e, quindi, alla ripartizione dei profitti e dei decrementi nell’ambito di un aggregato sociale con funzione anche sanzionatoria di comportamenti non desiderabili.

Siamo gioco-forza indotti a riconsiderare il problema della giustizia correttiva, associandolo a quello della giustizia distributiva: la prima funzionale alla massimizzazione della ricchezza, la seconda tendente alla fondazione di uno Stato equo[15].

A tal punto ci si chiede in che cosa consista allora la moralità della responsabilità civile?

Tale riformulazione del concetto di responsabilità civile che sembra paradossalmente richiamare gli antichi principi guida in materia, risulta essere un dibattito ancora acceso e che sembra aver modificato notevolmente non solo i risultati cui era pervenuta la dottrina negli ultimi anni (tra i tanti anche Calabresi), ma anche e soprattutto il metodo di studio e la prospettiva nella quale si deve collocare la problematica giuridica di questo settore.

Concludendo, la previsione dei nuovi rischi e dei conseguenti coinvolgimenti negativi connessi a quelli che sembravano essere gli aspetti benefici delle auto a guida autonoma, ha implicato una reazione etico-giuridica che, viceversa, ha determinato una profonda diffidenza ancora legata alle tradizionali istituzioni legislative.

L’impatto globale di una condizione di incertezza quale quella in cui ci troviamo attualmente, si riflette anche sulle difficoltà di predisporre un modello normativo ad hoc ed ha portato alla luce tutta una serie di tratti problematici circa il modello normativo anche solo prospettabile in materia. La totale inadeguatezza del nostro ordinamento in materie che presentano uno spiccato contrasto tra i diversi interessi coinvolti e la necessità di rafforzare la tutela degli elevati standard di sicurezza (che invano l’ordinamento comunitario si è proposto di garantire nel tempo) porta a trovarci in un limbo in cui l’auto senza conducente continua a migliorarsi tecnicamente, ma in assenza assoluta di apposite previsioni di legge che ne disciplinino la funzionalità pratica.

Tale progetto, quindi, dovrebbe essere necessariamente condotto con l’ausilio di strumenti analitici del diritto appositi, al fine di valutare tutti i possibili criteri di imputabilità della responsabilità civile applicabili in un contesto in cui i doveri di prevenzione del danno e del neminem laedere sono fondamentali.

Ciò fa riflettere non solo sull’effettiva esigenza di ripensare agli istituti della responsabilità civile alla luce della logica introdotta dalle auto a guida autonoma, ma anche sulla reale pretesa di stravolgere quelle nozioni cardine che hanno caratterizzato il nostro diritto per secoli il quale, per il solo perseguimento del continuo progresso sociale e tecnologico, potrebbe snaturarsi rendendo vana ogni tradizione giuridica che, nel bene o nel male, ha comunque fatto in modo tale che il nostro ordinamento fosse sicuramente uno tra i più complessi, ma anche tra i più longevi.

L’ingegno e libertà di ricerca è quello che distingue l’Homo Sapiens da tutte le altre specie […]. Infatti, se non fosse per questi uomini, l’umanità sarebbe avvolta in un manto nero di tenebre. Ma quando, con l’andare del tempo, si sarà scoperto tutto lo scopribile, il progresso non sarà che un incessante allontanamento dall’umanità”.

 

[1] www.Repubblica.it

[2] www.CityMobil2.eu

[3] www.Arxiv.org

[4] Teoria concepita dal filosofo inglese dell’ottocento John Stuart Mill.

[5] Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., 397. Si veda anche Franzoni, L’illecito, cit., 648. In giurisprudenza, v. Trib. Vercelli 7 aprile 2003,cit., il quale afferma che “la responsabilità del produttore è oggettiva, essendo sufficiente, ai fini di fondare la responsabilità del produttore, il riconoscimento di un rapporto di causalità tra il prodotto difettoso e l’evento lesivo, indipendentemente dalla prova della colpa”.

[6] Nel caso di responsabilità del produttore si può parlare non di un’ipotesi di “colpa presunta”, bensì di un caso di “responsabilità presunta” atteso che, provato il difetto del prodotto, il danno ed il nesso causale, si presume la responsabilità del produttore. (Trib. Roma 4 dicembre 2003, in Foro It., 2004, 1361).

[7] Ponzanelli, in Bessone, Casi e questioni didiritto privato, Milano, 2002, 4° ed., 452.

[8] Pertanto, i debitori del risarcimento sono il produttore effettivo, i produttori apparenti ed i produttori presunti, quali il fornitore di un prodotto anonimo o l’importatore comunitario. In argomento, v. Carnevali, “Produttore” e responsabilità per danno da prodotto difettoso nel codice del consumo, cit., 1938; Ugona, Luce ed ombre della normativa comunitaria di responsabilità per danno da prodotti difettosi, in Giur. Piemontese, 1986, 477. Ancora, cfr. Galgano, vol. XIII, La responsabilità del produttore,Padova, 1989, 79; Cosentino, Responsabilità da prodotto difettoso: appunti di analisi economica del diritto, in Foro it., 1989, 3, 137.

[9] In argomento, v. Della Bella, Cedimento di scala estensibile e responsabilità del produttore-progettista: la nozione di danneggiato nella disciplina sulla responsabilità del produttore, in Resp. civ. prev., 2003, 4-5, 1153. Sul dibattito relativo all’ ammissibilità delle pretese risarcitorie del bystander.

[10] S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 285

[11] M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, Giappichelli, Torino, 1995; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. Vol. 2: L’età delle rivoluzioni, Laterza, Roma-Bari, 2000, cap. I.

[12] Si veda L. Friedman, La società orizzontale (1999), il Mulino, Bologna, 2002.

[13] S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 201.

[14] Di Ciommo – Evoluzione tecnologica e regole di responsabilità civile, E Scientifiche Italiana, Napoli, 2003.

[15]Di Ciommo – Evoluzione tecnologica e regole di responsabilità civile, E Scientifiche Italiana, Napoli, 2003 pp. 203 e ss.

 

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