L’autonomia contrattuale

Redazione 11/12/19
L’autonomia  contrattuale  rientra  nella  più  ampia  nozione  di  autonomia  negoziale,  di  cui rappresenta  la  forma  più  rilevante  di  estrinsecazione.  Essa  trova  specifica  enunciazione  nell’art.  1322  c.c.. L’autonomia contrattuale si sostanzia nel potere di scegliere  se  e  con  chi  concludere  il  contratto,  nonché di  decidere  di  farsi  sostituire  nel  compimento  dell’attività  negoziale.  La  norma  citata  chiarisce,  altresì,  che  le  parti  possono  liberamente  determinare  il contenuto  del  contratto  nei  limiti  imposti  dalla  legge,  nonché  concludere  contratti  misti, atipici  o  collegati.  I  contraenti  possono,  inoltre,  utilizzare  contratti  tipici  per  perseguire  finalità  atipiche,  purché  le  stesse  siano  meritevoli  di  tutela  secondo  l’ordinamento  giuridico.  Le  parti,  infine,  possono  scegliere  la  forma  del  contratto,  salvo  i  casi  previsti  dalla  legge  (artt.  1350  e  1352  c.c.),  e  inserire  elementi  accidentali  nel  regolamento  contrattuale.

Negozi preparatori

L’autonomia  contrattuale può estrinsecarsi, altresì, nella  stipulazione  di  negozi  preparatori,  con  i  quali  le  parti  assumono  impegni  od  obblighi  in  relazione  a  una  futura  stipulazione contrattuale.  I negozi  in  parola  presentano,  dunque,  una  peculiare  natura  bifronte:  essi  comportano  il  sorgere  di  un  limite  all’autonomia  contrattuale    e  ne  costituiscono  al  contempo  una  manifestazione.  Stante  la  loro  forza  vincolante,  limitativa  dell’autonomia  negoziale,  tali  negozi  vengono  qualificati  come  vincoli  precontrattuali.

Essi  possono,  anzitutto,  limitare  il  potere  di  revoca  della  proposta  contrattuale: ne sono esempi la  proposta  irrevocabile  (art.  1329  c.c.)  e  il  patto  di  opzione  (art.  1331  c.c.),  con  i  quali  viene  attribuito  a  una  delle  parti  il  diritto  di  decidere  se  concludere  il  contratto.  I  negozi  preparatori  possono  inoltre  incidere  sulla  stessa  libertà  di  ambedue  le  parti  di  procedere  alla  stipulazione:  viene  a  tal  proposito  in  rilievo  il  contratto  preliminare.  Infine,  i  negozi  in  questione  possono  configurare  vincoli  precontrattuali  incidenti    sulla  libertà  di  scelta  della  controparte:  viene  qui  in  rilievo  il  patto  di  prelazione. Possono  essere  ricondotte  alla  categoria  dei  vincoli  precontrattuali  anche  le  limitazioni  in  ordine  alla  libertà  di  determinare  il  contenuto  del  contratto:  vengono  in  rilievo,  a  tal  proposito,  i  cd.  contratti  normativi,  che  dettano  regole  alle  quali  le  parti  dovranno  uniformarsi  nella  futura  attività  negoziale.  Indipendentemente dalla  loro  natura,  i  vincoli  precontrattuali,  ad  eccezione  della  sola  prelazione  legale,  hanno  esclusivamente  efficacia  inter partes,  con  la conseguenza  che  il  contratto  stipulato  in  violazione  degli  stessi  è  valido  ed  efficace  ed  alla  parte  lesa  spetta  solo  il  risarcimento  del  danno.

Alla figura negoziale del preliminare il legislatore del 1942 ha riservato poche disposizioni – tra cui l’art. 1351 c.c. che prevede un requisito di forma e l’art. 2932 c.c. che introduce il rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre – cosicché le lacune normative sono state colmate di volta in volta da dottrina e giurisprudenza. In assenza di una apposita definizione codicistica è comunque andato delineandosi l’orientamento – ormai consolidato – che ritiene vincolante il solo contratto preliminare che contenga gli elementi essenziali del definitivo pg. 1601; gli elementi accessori e accidentali, invece, possono essere determinati dagli stipulanti in un secondo momento. Perché si possa configurare un contratto preliminare, quindi, le pattuizioni ulteriori, alle quali i contraenti possono addivenire in sede di definitivo, devono rivestire carattere meramente marginale.

Mediazione atipica

Le parti possono decidere di addivenire alla conclusione di un contratto mediante l’intervento di soggetti terzi, che facilitano l’individuazione della controparte contrattuale. Ciò è quanto avviene nella mediazione, disciplinata dagli artt. 1754 ss. c.c.. Il codice non fornisce una definizione dell’istituto, bensì descrive la figura del mediatore come soggetto che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, in posizione di terzietà rispetto ad esse, in quanto non risulta vincolato alle stesse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza. A questa figura tipica di mediazione si affianca la mediazione atipica, nella quale il mediatore (procacciatore d’affari) non è in una posizione di imparzialità, in quanto agisce su incarico di una delle parti interessate alla conclusione dell’affare (cd. preponente). La mediazione atipica, pertanto, viene assimilata al mandato, in quanto scaturisce da incarico scritto o verbale.

L’elemento comune alle due figure di mediazione è rappresentato dalla funzione perseguita, consistente nel mettere in contatto più soggetti per la conclusione di un affare, mentre l’elemento distintivo è fornito dalla diversa misura dell’imparzialità del mediatore. Tale distinzione determina il sorgere di diverse conseguenze sul piano degli effetti: colui che agisce sulla base di apposito mandato risponde contrattualmente nei confronti del proprio mandante, oltre che per fatto illecito nei confronti del terzo destinatario della sua attività; il mediatore, invece, risponde per responsabilità derivante da contatto sociale, al quale si ricollega la nascita di obblighi di informazione e protezione necessari al buon fine delle trattative. In ogni caso, il procacciatore d’affari è ritenuto a tutti gli effetti un mediatore, a nulla rilevando la provenienza dell’incarico da parte di uno dei soggetti coinvolti nell’affare.

Equità

Ad ogni modo, l’autonoma riconosciuta alle parti dall’art. 1322 c.c. non è illimitata, dovendo la stessa confrontarsi con alcune previsioni codicistiche espressive di principi che limitano i suddetti poteri di scelta dei privati. Tra queste, particolare rilievo  riveste il concetto di equità. Discendendo dal dovere solidaristico di cui all’art. 2 della Costituzione, essa costituisce uno strumento legislativo e giurisprudenziale volto a rideterminare, seppur entro ambiti ristretti, il contenuto iniquo del contratto. La dottrina e la giurisprudenza riconosco nel principio uno strumento di giustizia del caso concreto. Essa opera quale criterio – sia pur residuale – di chiarificazione delle disposizioni dei contratti, laddove una clausola rimanga oscura anche utilizzando gli altri criteri ermeneutici previsti dalla legge (art. 1371 c.c.). L’equità costituisce, altresì, una fonte di integrazione del contratto, subordinata alla legge ed agli usi (art. 1374 c.c.): secondo l’interpretazione ampiamente maggioritaria, essa interviene solo a contratto concluso, andando a definire aspetti del regolamento negoziale non determinabili mediante altre regole di integrazione. In tal senso, l’equità rappresenta il contemperamento dei diversi interessi delle parti.

Autoresponsabilità

Ad ogni modo, l’autonomia riconosciuta alle parti dall’art. 1322 c.c. non è illimitata, dovendo la stessa confrontarsi con alcune previsioni codicistiche espressive di principi che limitano i suddetti poteri di scelta dei privati. Tra queste, particolare rilievo riveste il principio di correttezza e buona fede oggettiva, che informa di sé l’intera materia contrattuale e che opera quale criterio di valutazione del comportamento tenuto dalle parti nel rapporto obbligatorio.

Dal principio di buona fede può farsi discendere altresì il corollario dell’autoresponsabilità, inteso sia in relazione al concetto di affidamento, sia come onere di diligenza in capo alle parti al momento in cui si crea un rapporto obbligatorio tra di loro. Esempio significativo di tale ultima accezione del principio di autoresponsabilità è l’art. 1491 c.c. La norma dispone che, in tema di compravendita, la garanzia per i vizi della cosa non è dovuta se al momento del contratto il compratore conosceva tali vizi, oppure se essi erano facilmente riconoscibili (salvo, in quest’ultima ipotesi, che il venditore abbia dichiarato che la cosa era esente da vizi).

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