L’assegno di divorzio, alla luce della sentenza SS.UU. n. 18287/2018

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Il giudizio sul diritto ad ottenere l’assegno divorzile non si può basare esclusivamente sull’accertamento del criterio dell’autosufficienza economica, o sulla possibilità di procurarsi i mezzi. Non si può prescindere dall’accertamento dell’eventuale incidenza degli indicatori concorrenti contenuti dell’art. 5 c. 6 della l. n. 898 del 1970 ed, in particolare, dal contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla conseguente formazione del patrimonio comune e personale dell’altro ex coniuge.

Al termine di una separazione e di un giudizio sulla cessazione degli effetti civili – con l’assegnazione ad una delle parti di un assegno divorzile – l’assegno è stato successivamente negato dalla Corte d’Appello, che ha condannato anche l’ex coniuge alla ripetizione delle somme ricevute a tale titolo. Ciò in quanto ha ritenuto che il coniuge richiedente avesse mezzi e risorse adeguate per il proprio sostentamento. La parte soccombente in appello, propone dunque ricorso alla Corte di Cassazione per violazione dell’art. 5 l. n. 898 del 1970, nonché dell’art. 2033 c. c. con riferimento alla condanna alla ripetizione delle somme ricevute.

La Corte di Cassazione, in un’articolata sentenza degna di lettura, accoglie il ricorso, ripercorrendo in modo storico questo argomento e facendo un percorso diacronico per riportare ordine negli orientamenti della giurisprudenza, “sconvolti” da varie sentenze intervenute anche recentemente.

Assegno divorzile, determinazione del quantum

L’assegno divorzile, nella comune conoscenza, consiste nell’obbligo di uno dei coniugi di versare periodicamente all’altro coniuge una somma di denaro quando quest’ultimo non ha i mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. Questo è quanto sinteticamente viene inteso per assegno divorzile, ma la materia è molto più complessa.

Partendo dal testo originario dell’art. 5, c. 6 della l. n. 898 del 1970

“con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proposizione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. […]”

Leggendo la norma si coglie l’individuazione di criteri attributivi per accertare il diritto e criteri determinativi per accertare il quantum. In principio la Corte si era orientata, nei confronti di tale norma, a dare all’assegno di divorzio una natura mista, senza troppe distanze tra i criteri attributivi e i criteri determinativi. Infatti la Corte affermò che l’assegno avesse natura composita “[…]assistenziale in senso lato, con riferimento al criterio che fa leva sulle condizioni economiche dei coniugi; risarcitoria in senso ampio, con riguardo al criterio che concerne le ragioni della decisione; compensativa, per quanto attiene al criterio del contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla condizione della famiglia e alla formazione del patrimonio. il giudice, che pur deve applicare tali criteri nei confronti di entrambi i coniugi e nella loro necessaria coesistenza, ha ampio potere discrezionale, soprattutto in ordine alla quantificazione dell’assegno. ” (S.U. 1194 del 1974; conf. 1633 del 1975). Al giudice veniva sì concesso ampio potere discrezionale, ma solo ed esclusivamente sull’ammontare dell’assegno; nessuna discrezione aveva sull’utilizzo dei criteri e non poteva considerare un criterio recessivo rispetto ad un altro per esempio.

Natura dell’assegno divorzile

In principio si affermò che data la cessazione del vincolo di parentela, l’assegno non potesse in nessun caso avere natura alimentare (Cass. 256 del 1975). Allora ci si orientò sull’indebolimento economico-patrimoniale del coniuge richiedente successivamente alla cessazione del matrimonio, che andava accertato su fattori quali l’età, la salute, l’esclusivo svolgimento di attività domestiche all’interno del nucleo familiare, il contributo fornito al consolidamento del patrimonio familiare e dell’altro coniuge (Cass. 835 del 1975). Quindi si diede all’assegno una funzione assistenziale, ma non solo; anche compensativa, in quanto si teneva conto della durata del rapporto ormai infranto, e risarcitoria, quando si doveva tener conto dei motivi della decisione.

Il giudizio si fondava su quello squilibrio ingiusto che nasceva da scelte endofamiliari comuni che producono una netta diversificazione di ruoli tra i due coniugi, così da escludere o da ridurre considerevolmente l’impegno verso la costruzione di un livello reddituale individuale autonomo adeguato (per fare un esempio comune utilizzando parole che tutti noi abbiamo udito da amici, parenti etc. “io lavoro tu badi alla casa”). Questi orientamenti si basavano molto sul principio della parità sostanziale tra i coniugi, così come enunciato dall’art. 29 della costituzione.

Questi principi appena esposti sinteticamente furono criticati dalla dottrina. Ciò che veniva criticato, in particolare, era la discrezionalità rimessa ai giudici. L’attenzione si basava sull’assenza di un fondamento unitario e coerente all’applicazione dei parametri per l’attribuzione e la determinazione dell’assegno. In questo contesto, con anche i mutamenti sociali intervenuti negli anni, nel 1987 con la l. 6.3.87 venne modificato l’art. 5 c. 6 della l. n. 898 del 1970. Le differenze intervenute furono fondamentalmente le seguenti:

  1. L’indagine comparativa dei redditi e dei patrimoni dei coniugi fondato sul deposito di documenti fiscali, su poteri istruttori officiosi al giudice;
  2. unione di tutti gli indicatori (condizioni dei coniugi; reddito; contributo personale ed economico dato alla famiglia; ragioni della decisione) della prima parte della norma;
  3. la condizione dell’insussistenza dei mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarseli. (questa era la vera innovazione in quanto assente nella precedente formulazione).

Nel 1990 poi con la sentenza n. 11490 le S.U. si è affermato che l’assegno ha carattere esclusivamente assistenziale, in quanto il presupposto per la concessione si rinveniva nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, quindi insufficienza degli stessi, dei redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità, con cui potesse mantenere un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Non si doveva tener conto di uno stato di bisogna, ma di un apprezzabile deterioramento, dipendente dal divorzio, delle precedenti condizioni economiche.

Qui si ebbe il primo distacco dei criteri, si affermò che i criteri indicati nella prima parte della norma avessero esclusivamente funzione determinativa dell’assegno, da attribuirsi sulla base dell’esclusivo parametro dell’inadeguatezza dei mezzi.

A questo orientamento restato immutato per anni si contrappone la sentenza n. 11504 del 2017, che condivide la premessa sistematica relativa alla distinzione tra criterio attributivo e determinativo, ma individua come parametro dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, la non autosufficienza economica dello stesso, e stabilisce che solo all’esito del positivo accertamento di tale presupposto possano essere esaminati i criteri determinativi.

Queste visioni differenti nascono dalla lettura dell’art.  5 c. 6 della l. 898 del 1970, in quanto non vi è un riferimento su cui basare il giudizio di adeguatezza, ma un generico riferimento a “mezzi adeguati”. Da qui sono nati degli orientamenti contrapposti, che convergono sulla divisione dei criteri e sulla limitazione della discrezionalità data ai giudici.

Il principio di diritto cui giunge la Corte nella recentissima sentenza in oggetto, riporta ordine negli orientamenti giurisprudenziali, affermando che i criteri riportati nella l. 898 all’art. 5 c. 6 devono essere considerati univocamente. Il legislatore impone una prima indagine su uno squilibrio dei coniugi, attraverso documentazione fiscale e attraverso poteri istruttori officiosi, dalla quale può derivare senz’altro un primo profilo assistenziale dell’assegno, o dalla quale  può emergere una situazione equilibrata. Tuttavia in entrambe le ipotesi il parametro sulla quale decidere sull’assegno non può basarsi solo su questo, dovendo necessariamente prendersi in considerazione anche altri elementi quali il contributo del coniuge richiedente nella gestione familiare, nella creazione del patrimonio coniugale, ma anche personale. Questo contributo nasce dalle decisioni comuni, dalla gestione del rapporto coniugale, dall’assolvimento dei doveri indicati nell’art. 143 c.c.

Quindi abbiamo una decisione che non si basa solo su una funzione assistenziale, ma considera anche quanto dal coniuge richiedente è stato sacrificato, o meglio investito, nella gestione e nella vita familiare, indi considerando in egual modo una funzione compensativa e perequativa.

“Si assume come punto di partenza il profilo assistenziale, valorizzando l’elemento testuale dell’adeguatezza dei mezzi e della capacità (incapacità) di procurarseli, questo criterio deve essere calato nel “contesto sociale” del richiedente, un contesto composito formato da condizioni strettamente individuali e da situazioni che sono conseguenza della relazione coniugale, specie se di lunga durata e specie se caratterizzata da uno squilibrio nella realizzazione personale e professionale fuori del nucleo familiare. Lo scioglimento del vincolo incide sullo status, ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare. Il profilo assistenziale deve, pertanto, essere contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale si inserisce la fase di vita post matrimoniale, in chiave perequativa-compensativa” (pag. 35 S. U. sentenza n. 18287 del 11/07/2918).

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