L’articolo 610 cod. pen. tra condotta violenta e coazione: il labile confine tra il malum in se e l’agere licere

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Nota a sentenza nr. 2648 del 8 luglio 2019 (depositata il 05 ottobre 2019) del Tribunale Ordinario di Brescia, II sezione penale.

SOMMARIO: 1. La vicenda processuale: in fatto; 2. Uno sguardo di insieme: i reati contestati; 3. Le motivazioni della decisione: in diritto; 4. Riflessioni a margine de jure condendo

1. La vicenda processuale: in fatto

L’ istruttoria dibattimentale ha ad oggetto alcuni scioperi (in totale di tre episodi) i cui partecipanti erano dipendenti di una cooperativa che gestiva, con un contratto di appalto, i servizi di pulizia e facchinaggio all’interno del polo logistico nel quale avvenivano le manifestazioni. Venivano citati in giudizio trentasei imputati in tutto. La situazione di conflitto principiava non solo dalle condizioni retributive applicate ai lavoratori, ai quali la ditta di appartenenza (in tre anni si erano succedute quattro cooperative) aveva ridotto il monte ore giornaliero e non aveva riconosciuto gli scatti salariali precedentemente maturati, ma anche dal mancato rinnovo del contratto di due operai iscritti al sindacato che promuoveva lo sciopero. I manifestanti procedevano a presidiare ed a bloccare gli accessi del magazzino impedendo, con la loro presenza fisica, l’entrata e l’uscita degli autocarri impegnati nelle operazioni di trasporto delle merci destinate alla rete di distribuzione. Una “barriera umana” che ostruiva gli ingressi dello stabilimento con la conseguente impossibilità da parte degli autotrasportatori di effettuare le operazioni di carico e scarico dei prodotti. I sit-in proseguivano, da ultimo, ininterrottamente, per tre giorni, fino a quanto gli agenti di polizia sgomberavano il presidio. In particolare, le forze dell’ordine, dopo aver, invano, invitato gli scioperanti a sciogliere la riunione, nel rispetto delle modalità di cui agli articoli 24 e 25 del Regio Decreto 6 maggio 1940 nr. 635, procedevano a sollevare gli operai -che nel frattempo si erano ricompattati avvinghiandosi tra loro con braccia e gambe- di peso dalla sede stradale. Dopo il prelievo forzoso di taluni, gli altri si alzavano, spontaneamente, da terra allontanandosi dagli ingressi. In nessuno degli episodi risultava che i lavoratori avessero impiegato violenza o comportamenti minacciosi né contro gli operanti né nei confronti dei camionisti. Il Pubblico Ministero ravvisava a carico dei partecipanti ai presidi sindacali gli estremi di più delitti di violenza privata commessi ai danni dei camionisti bloccati -dentro e fuori- al magazzino nonché del delitto di resistenza a pubblico ufficiale. Nei confronti dei soli promotori, era elevata anche la contestazione dell’omesso preavviso al Questore, ai sensi dell’articolo 18, del Regio Decreto del 18 giugno 1931 nr. 773.

2. Uno sguardo di insieme: i reati contestati

Prima di comprendere quale siano le argomentazioni del Giudice a fondamento della propria decisione, pare opportuno soffermarsi, seppur brevemente, sulla descrizione dei reati di cui vi è stato processo. Il delitto di Violenza privata è previsto dall’articolo 610 cod. pen. Si tratta di un reato, inserito nel titolo XII, sezione III “Dei delitti contro la libertà morale”, istantaneo, di danno, a carattere commissivo, a forma vincolata e di evento. Dal punto di vista oggettivo, il delitto si consuma nel momento in cui l’altrui volontà, con violenza o minaccia, sia di fatto costretta a fare, tollerare o ad omettere qualcosa. Sul versante dell’elemento psicologico, invece, è sufficiente il dolo generico. Il soggetto attivo può essere chiunque, in quanto trattasi di reato comune. Il soggetto passivo può essere soltanto la persona fisica che sia in grado di avvertire la coazione. Le persone giuridiche e gli enti collettivi non vi rientrano. L’interesse protetto è non già la libertà fisica o di movimento dell’agente bensì la sua libertà psichica. L’autore, infatti, con il suo comportamento violento o minaccioso, esercita una coartazione diretta o indiretta sulla libertà di volere o agire del destinatario, così da costringerlo ad una certa azione, tolleranza od omissione. Nella struttura di questo reato, particolare importanza rivestono le modalità della condotta: la minaccia e la violenza. La giurisprudenza ha precisato che nella nozione di minaccia rientra qualsiasi atteggiamento intimidatorio dell’agente che sia idoneo ad eliminare o ridurre la capacità di determinarsi e di agire secondo la propria indipendente volontà. Non indifferenti problemi, invece, ha creato in dottrina e in giurisprudenza la definizione del concetto di violenza a causa della sua eccessiva vaghezza e dell’impossibilità di far riferimento ad un significato univoco. Secondo la dottrina prevalente e la giurisprudenza maggioritaria, il termine suddetto non può essere circoscritto al solo impiego dell’energia fisica esercitata direttamente o per mezzo di uno strumento contro una persona (cosiddetta violenza propria) ma ricomprenderebbe anche l’uso di qualsiasi mezzo, esclusa la minaccia, idoneo ad ottenere lo scopo di coartare la volontà della vittima (cosiddetta violenza impropria). Il delitto è aggravato se, ai sensi del comma 2, concorrono le condizioni di cui all’articolo 339 cod. pen. ovvero se la violenza o minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico ovvero con armi o da persona travisata o da più persone riunite o con scritto anonimo o in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte. Il delitto di Resistenza a pubblico ufficiale è punito dall’articolo 337 cod. pen. Inserito nel titolo II, Capo II “Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione”, prevede una fattispecie criminosa a condotta vincolata, di carattere commissivo, istantaneo, comune e plurioffensivo in quanto lesivo sia del buon andamento della P.A., sia della libertà di autodeterminazione ed incolumità della persona fisica che esercita le pubbliche funzioni, anche il privato che, richiesto, gli presti assistenza. Dal punto di vista dell’elemento oggettivo, si punisce chiunque, attraverso comportamenti violenti o minacciosi nei confronti di pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio, impedisca il compimento di uno atto di ufficio o di servizio. Sul versante soggettivo, è necessario il dolo generico. Da ultimo, l’articolo 18 del Regio Decreto del 18 giugno 1931 nr. 773 “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” punisce i promotori di una riunione in luogo pubblico che omettano di darne preavviso, almeno tre giorni prima, al Questore. Si tratta di una contravvenzione che sanziona un obbligo di comunicazione già previsto dall’articolo 17 della nostra Costituzione. La libertà di riunione rappresenta una manifestazione della libertà personale dei singoli attraverso la quale essi realizzano la propria personalità, ex articolo 2 Cost. I Padri costituenti scelgono di garantirla e tutelarla ma nel rispetto della sicurezza ed incolumità altrui.

3. Le motivazioni della decisione: in diritto

Il Tribunale conclude per l’infondatezza di tutte le accuse mosse agli imputati. L’Autorità Giudiziaria, preliminarmente, esamina il capo di imputazione, contestato ad alcuni di manifestanti, compendiato al capo E) , di resistenza a pubblico ufficiale. I dimostranti, dopo aver ricevuto formale intimazione a sciogliere l’adunanza, sono rimasti seduti ed ammassati ancorandosi l’uno alle braccia dell’altro. Le forze dell’ordine hanno dovuto sollevare, di peso, alcuni di loro dipanando, di conseguenza, la matassa umana che si era venuta a creare. Come emerso dalla deposizioni di alcuni testi, tra i quali l’operante intervenuto, non si sono registrati comportamenti violenti o intimidatori. A parere del Giudice, condivisibilmente, nella condotta statica degli imputati non sono ravvisabili gli estremi né di una volontaria aggressione ad altrui persone o beni né di atteggiamenti minatori. Gli stessi, infatti, avrebbero opposto una resistenza passiva che, come tale, non è idonea ad integrare la fattispecie criminosa addebitata. Gli imputati, di conseguenza, sono stati assolti perché il fatto non sussiste. Quanto alle accuse mosse ai promotori, ai capi B) e D) , il Tribunale ritiene integrato il fatto tipico previsto dall’articolo 18, comma 3, Decreto Regio del 18 giugno 1931 nr. 773. Questi, infatti, avrebbero omesso, in più occasioni, di dare a avviso alle Autorità competenti delle manifestazioni organizzate. Appare indiscutibile che i presidi realizzati davanti ai cancelli del polo logistico siano considerate “pubbliche riunioni”. Con il termine “riunione” si considerano tutti i raggruppamenti di persone che abbiano una generica unità di intendimenti ovvero vi sia una certa coesione psicologica tra i partecipanti animati da un proposito comune. Tale nozione, come si dà atto, molto efficacemente, nella sentenza, si distingue dall’ “assembramento” e dall’ “agglomerato”. Si avrebbe un assembramento tutte le volte in cui si formi una riunione occasionale di persone all’aperto ciascuno mosso da motivi autonomi. L’agglomerato, invece, presupporrebbe solamente un numero ingente di persone ammassate senza che venga in considerazione alcuno scopo. Nel caso di specie era evidente non solo la coesione psicologica dei partecipanti -che si esplicava nella comune forma di protesta e rivendicazione delle proprie ragioni- ma anche che il presidio si fosse svolto in luogo pubblico, tale essendo la strada da percorrere per giungere al magazzino. Perfezionato il reato contestato in punto di fatto, quindi, ci si chiede se tale contestazione possa dirsi antigiuridica. Il rapporto di contraddizione tra il fatto stesso -consistito nel mancato preavviso al Questore entro il terzo giorno antecedente al raggruppamento- e l’intero ordinamento giuridico non si configura quando vi sia anche una sola norma che facoltizza o rende doverosa la realizzazione di quel comportamento. In tal caso, il fatto sarà lecito e, quindi, non costituirà reato. Il tema da affrontare, pertanto, è se il contegno omissivo dei promotori possa essere ricondotto, id est scriminato, nell’alveo dell’articolo 51 cod. pen. “esercizio di un diritto”, e più specificatamente, nel diritto di sciopero. La sussistenza della predetta causa di giustificazione presuppone che il fatto penalmente illecito sia stato effettivamente determinato dalla necessità di esercitare un diritto soggettivo. Tale norma, pertanto, non può trovare applicazione in quei casi in cui detta necessità non ricorra ovvero l’agente abbia oltrepassato i limiti del proprio diritto. Per questi motivi, il diritto di sciopero, previsto dall’articolo 40 della nostra Costituzione, dovendosi esercitare “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, non legittima infrazioni della legge penale lesiva di interessi diversi da quelli attinenti al rapporto di lavoro. La tutela, fornita dalla norma costituzionale succitata, si estenderebbe non solo alla astensione collettiva dal lavoro tout court ma anche alle “azioni collaterali” che siano immediatamente connesse e utili alla realizzazione dello scopo prefigurato dai partecipanti. Nel novero delle azioni collaterali rientrerebbero l’affissione di manifesti, la ripetizione di slogan e qualsiasi altra attività diretta a svolgere opera di convincimento o persuasione. Il Tribunale ritiene che i presidi realizzati in prossimità degli accessi al sito produttivo siano da ricomprendere nell’ambito delle attività sopra descritte. I sit-in, infatti, avrebbero “carattere ancillare e funzionale all’esercizio del diritto di sciopero”. L’autorità decidente rileva, altresì, che il diritto di sciopero possa essere manifestato “a sorpresa” senza alcun preavviso né al datore di lavoro né alle autorità competenti, purché non si tratti di servizi pubblici essenziali. Pertanto, l’assenza di un obbligo di comunicazione è connaturata al diritto di sciopero per assicurare efficacia all’iniziativa collettiva dei lavoratori nei confronti della controparte datoriale. Infine, la causa di giustificazione de qua garantirebbe, secondo una lettura congiunta tra l’articolo 39 e 40 della nostra Costituzione, l’esercizio della libertà sindacale. Orbene, se l’organizzazione di simili presidi sono espressione del diritto di sciopero e di libertà sindacale, appare evidente come la condotta omissiva esaminata possa ritenersi scriminata. Gli imputati, per questi motivi, sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Da ultimo, occorre esaminare le imputazioni di violenza privata, contestate ai capi A), C) e F). In più occasioni, gli scioperanti hanno impedito agli autotrasportatori di varcare con i propri camion i cancelli per poter provvedere al carico e allo scarico delle merci. Il Tribunale ritiene ravvisabili i contorni dell’evento che consiste nella coazione di fare, tollerare od omettere qualcosa, mentre si domanda se la suddetta costrizione si sia verificata con le modalità di cui all’articolo 610 cod. pen. cioè con una condotta violenta o minacciosa. Può, fin da subito, escludersi qualsiasi sindacato sulla minaccia in quanto lo stesso capo di imputazione fa riferimento alla sola violenza ed, altresì, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, non è emerso alcun fine intimidatorio da parte dei partecipanti. Sono due gli orientamenti giurisprudenziali che definiscono, seppur in maniera diversa, la nozione di violenza. Il primo ritiene che la violenza si identifichi nell’impiego dell’energia fisica sulle persone o cose (cosiddetta violenza propria). Il secondo ravvisa, invece, una violenza, rilevante ai sensi dell’articolo 610 cod. pen. in qualsiasi condotta in grado di ottenere l’effetto dell’altrui coazione (violenza impropria). Secondo l’Autorità decidente, nessuno dei due indirizzi parrebbe valido. L’uno si mostra formalistico ed assegna valore dirimente al mero dato della forza fisica (secondo il brocardo vis corporis corpori data) trascurando il profilo degli effetti della condotta sulle entità cui va ad incidere. L’altro, invece, non solo amplia a dismisura l’ambito applicativo della violenza sovrapponendo condotta ed evento ma trasforma il reato, di cui all’articolo 610 cod. pen., da condotta vincolata in forma libera. Tale impostazione punirebbe ogni condotta posta in essere “con qualsiasi modalità anomala” dilatando, ai fini applicativi, una nozione di violenza che, invece, quanto meno in ambito penale, deve essere chiara, univoca e circoscritta. Per una corretta soluzione del contrasto interpretativo accennato, è necessario partire dalla definizione di violenza quando oggetto della stessa sia una cosa. A mente dell’articolo 392, comma 2, cod. pen., è tale ogni condotta con la quale “la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione”. La suddetta disposizione parrebbe assegnare valore dirimente agli effetti prodotti sulla res -dunque alla sua alterazione materiale- piuttosto che sull’energia fisica esercitata dal soggetto sulla cosa. Orbene, secondo il Tribunale, se la nozione legislativa di violenza sulle cose appare incentrata sugli effetti materiali o funzionali prodotti dal contegno dell’agente, in mancanza di specifica individuazione da parte del legislatore del concetto di violenza sulle persone, l’interprete dovrà considerare gli effetti del comportamento dell’agente rispetto all’intromissione nell’altrui sfera fisica o psichica del soggetto passivo. Vi rientrerebbero, pertanto, non soltanto quelle condotte che abbiano ad oggetto una violenza fisica, intesa nella sua accezione in senso materiale, ma anche quelle di tipo improprio caratterizzate dall’utilizzo di qualsiasi mezzo idoneo ad esercitare e, di conseguenza, a produrre pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione. Per un verso, se la definizione di violenza prevista dal nostro legislatore appare incentrata sugli effetti prodotti dal contegno dell’agente, a maggior ragione, se questa riguardi le persone, essa deve essere perimetrata in relazione al risultato prodotto dal soggetto attivo. Quando il legislatore, infatti, ha voluto riferirsi ad un energia materiale sulle persone lo ha fatto parlando, expressis verbis, di violenza fisica. Dall’altra parte, se si ha riguardo al bene giuridico protetto dalla norma, si pone in essere un comportamento violento in qualsiasi attività che comprometta non solo la libertà fisica ma anche psichica del destinatario. Il Tribunale ritiene che nelle condotte ostruzioniste poste in essere dagli imputati non sia ravvisabile alcuna forma di violenza sulle cose o persone. Le stesse, infatti, si sono limitate ad assumere un atteggiamento statico formando una catena umana in prossimità dei cancelli. La coazione realizzata a danno degli autotrasportatori si è risolta in una mera limitazione della loro libertà di movimento a bordo degli autocarri attraverso la creazione di un cordone umano che ne ha impedito l’accesso al polo logistico. In caso contrario, si legge, “ci si esporrebbe al rischio di punire penalmente condotte la cui dimensione offensiva appare sproporzionata rispetto all’incriminazione e alla pena edittale irrogata”. Secondo questa prospettazione, gli imputati vanno assolti perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

4. Riflessioni a margine de jure condendo

Le pregevoli argomentazioni della sentenza annotata non appaiono del tutto condivisibili. Il tentativo effettuato dal Tribunale di ricomprendere nella nozione di sciopero forme di protesta più incisive -qual è il blocco degli accessi carrai- non appare convincente. La possibilità di estendere, infatti, la protezione, di cui al combinato disposto degli articoli 40 della Costituzione e 51 cod. pen., a tali manifestazioni potrebbe avere l’effetto di sbiadire la tutela di interessi diversi -sovraordinati e pariordinati- da quelli degli scioperanti. La barriera umana formatasi, infatti, impedendo l’ingresso delle merci, sarebbe stata idonea a compromettere (rectius sabotare) il regolare svolgimento produttivo dell’azienda. I medesimi danni sarebbero stati patiti anche dagli autotrasportatori in termini di perdita dei lavori programmati ed indisponibilità dei propri mezzi. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale, infatti, è emerso che i manifestanti avrebbero impedito il passaggio anche degli autocarri vuoti e di quelli composti dal solo trattore. Di tal guisa, sarebbe opportuno verificare, caso per caso, se tali forme di protesta possano o meno rientrare sotto l’egida costituzionale ovvero possano rimanerne sguarniti. Le rivendicazioni, infatti, che si limiterebbero all’uso del megafono, al volantinaggio ovvero agli assembramenti potrebbero intendersi azioni collaterali se l’unica conseguenza possa essere quella di arrecare disturbo allo svolgimento ordinario dell’attività lavorativa ma non quella di bloccare un intero esercizio produttivo. Neppure condivisibile è l’argomentazione del Giudice secondo la quale “il bene giuridico della sicurezza pubblico (tutelato dalla fattispecie contravvenzionale) è quantomeno pariordinato a quello di sciopero ma esso può ragionevolmente limitare “dall’esterno” quest’ultimo –senza annullarlo- solo ove l’astensione collettiva e le azioni ad essa sussidiarie si traducano nella lesione o nella concreta messa in pericolo degli interessi individuali”. Orbene, l’articolo 18, comma 3 del Regio decreto 773/1931 prevede una fattispecie contravvenzionale a pericolo astratto. E’ necessario, pertanto, la mera violazione del dettato normativo affinché vi sia reato senza che il giudice debba essere chiamato a valutare se, nella vicenda sottoposta alle sue cure, quel pericolo si sia concretamente verificato. Stimare che il bene della sicurezza pubblica possa limitare lo sciopero “ove esso e le relative azioni sussidiarie si esplichino in una lesione o concreta messa in pericolo degli interessi individuali” significherebbe catalogare l’imputazione sopra contestata dalla categoria del pericolo astratto a quella di pericolo concreto con importanti risvolti dal punto di vista della punibilità. L’Autorità giudiziaria, infatti, sarà chiamata a verificare, ex post, se sia avvenuta una materiale lesione alla vita, all’incolumità fisica e liberta personale. Situazioni giuridiche, queste, compendiate nella nozione di sicurezza pubblica, che il legislatore ha voluto primariamente garantire ex ante, al riparo da ogni valutazione successiva sullo status quo. Infine, non si è d’accordo nel ritenere la sicurezza pubblica bene pariordinato a quello di sciopero. Il primo infatti ha una dimensione più ampia non condividendo con il secondo né l’ambito soggettivo (lo sciopero, infatti, riguarderebbe solo la posizione di alcuni soggetti) né materiale (gli interessi tutelati dal bene sicurezza sono molteplici e di ben ampia portata). L’impostazione accolta dal Tribunale Bresciano non terrebbe in considerazione che, dal punto di vista oggettivo, si sarebbe verificata sia la condotta che l’evento dell’ipotesi delittuosa di cui al capo di incolpazione. Si sostiene, infatti, che, il comportamento di chi impedisce la libertà di movimento ovvero di autodeterminazione della vittima è considerata violenta ogni qualvolta via sia una aggressione alla libertà morale comprensiva sia della libertà di autodeterminazione sia della capacità di intendere e di volere. Il contegno degli scioperanti -manifestato nella frapposizione massiva delle loro persone in corrispondenza degli accessi- avrebbe prodotto una coazione nei confronti dei camionisti che, seppur liberi di transitare a piedi, sono stati impediti di entrare con il loro mezzo di trasporto. L’alternativa, infatti, sarebbe stata sfondare la linea dei dimostranti con i propri camion, scelta non concretizzata per evitare pericolose contrapposizioni fisiche. Pertanto, gli stessi si sono “accontentati” di scendere dal proprio camion perché non potevano fare altrimenti. Or dunque, in questo caso, la coazione consisterebbe nella diversa e non voluta determinazione dei camionisti. Da ultimo è necessario soffermarsi sulla formula assolutoria pronunciata dal giudice “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Fin da subito, il Tribunale ritiene “senz’altro ravvisabili” i contorni dell’evento costrittivo nella condotta degli imputati -che abbiano impedito agli autotrasportatori incaricati dell’approvvigionamento e della distribuzione di varcare i cancelli del polo logistico- escludendone, però, la modalità violenta (rectius la tipicità della condotta incriminatrice). Il fatto storico addebitato, pertanto, non rientrerebbe perfettamente nell’ipotesi delittuosa di cui all’articolo 610 cod. pen. perché non si sono integrati tutti gli elementi oggettivi previsti (nel caso di specie si era realizzato l’evento ma non la condotta). Il delitto non sussisterebbe. In conclusione, la pronuncia ha il merito di aver evidenziato le varie problematiche emerse, sia dottrina che in giurisprudenza, sulla definizione di violenza. Questione che, lungi dall’essere considerata di poco conto, deve costringere il legislatore a individuarne una concezione autenticamente unitaria al fine di evitare che, per un medesimo fatto storico, alcuni vengano condannati e altri assolti. Simile disparità di trattamento non sarebbe costituzionalmente ammissibile.

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Note

[1]              Così viene definita dal Tribunale a pagina 7 della sentenza in commento.

[1]              Ci si riferisce alla manifestazione protratta ininterrottamente dal 05.01.2016 al 08.01.2016.

[1]              “Chiunque con violenza o minaccia costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339 cod. pen.”.

[1]              Così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona. Zanichelli, Torino, 2013, pp. 212-213. In senso difforme, autorevole dottrina, che ha poi avuto esplicito avallo dalla Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nello sforzo di non identificare la violenza con la coazione,                 ha chiarito che “la violenza sulla persona consiste in una aggressione fisica ossia nell’offesa attuale                    -nella forma della lesione effettiva o imminente messa in pericolo- della vita, integrità fisica e libertà di movimento” (…) “la violenza è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di un mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima o fare, tollerare od omettere qualche cosa. Deve trattarsi, dunque, di qualcosa diverso dal fatto in cui                   si esprime la violenza ovvero un’offesa, all’altrui integrità fisica o psichica o all’altrui libertà personale, dovendosi invece escludere una responsabilità penale a tale titolo in tutte quelle ipotesi in cui l’agente              si sia limitato a ostacolare le altrui scelte d’azione senza però né ledere né porre in pericolo nessuno di questi beni giuridici” in VIGANO’, La tutela penale della libertà individuale, I, in  L’offesa mediante violenza, Milano, 2002, p. 1 ss. e ID., Nota a Sezioni Unite nr. 2437 del 18.12.2008 in Cassazione penale, 2009, p. 1793.

[1]              “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

[1]              Testualmente, “I promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico devono darne avviso, almeno tre giorni prima, al questore. E’ considerata pubblica anche una riunione, che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata.                             I contravventori sono puniti con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da lire mille a quattromila. Con le stesse pene sono puniti coloro che nelle riunioni predette prendono la parola. Il questore, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione. I contravventori al divieto o alle prescrizioni dell’Autorità sono puniti con l’arresto fino a un anno e con l’ammenda da lire duemila a quattromila. Con le stesse pene sono puniti coloro che nelle predette riunioni prendono la parola. Non è punibile chi, prima dell’ingiunzione dell’Autorità o per obbedire ad essa, si ritira dalla riunione. Le disposizioni di questo articolo non si applicano alla riunioni elettorali”.

[1]              Cfr. “ (…) perché, in concorso tra loro, anche dopo l’invito formale effettuato dal responsabile del servizio di ordine pubblico, si sedevano a terra ancorandosi tra loro con braccia e gambe e si opponevano, anche mediante l’uso di violenza, a personale della polizia di Stato che, con difficoltà e senza usare mezzi di coazione fisica o altra forma di violenza, li sollevava di peso, spostandoli dalla sede stradale, al fine di liberare l’accesso del polo logistico (…)”.

[1]              In senso conforme, si esprime la dottrina maggioritaria secondo cui “stante l’esigenza di un comportamento violento o minaccioso, la fattispecie in esame non si realizza nei casi di resistenza meramente passiva” in ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale. Giuffrè, Milano, 2016,             p. 490.

[1]              Cfr.“(…) perché, in concorso tra loro, senza darne avviso al Questore di Brescia si facevano promotori della riunione in luogo pubblico presso il polo logistico (…) per la manifestazione del 05.10.2015”.

[1]              Cfr.“(…) perché, in concorso tra loro, senza darne avviso al Questore di Brescia si facevano promotori della riunione in luogo pubblico presso il polo logistico (…) per la manifestazione del 05.01.2016”.

[1]              Per dovere di completezza, altresì, è necessario distinguere le “dimostrazioni” ovvero riunioni che danno luogo a manifestazioni per motivi politici o civili dai “cortei” ossia delle riunioni in movimento ove l’identità del luogo è mutevole.

[1]              MARINUCCI- DOLCINI, Manuale di diritto penale, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 188-189.

[1]              Si fa riferimento a diritti sovraordinati o pariordinati potenzialmente confliggenti, cosiddetti “limiti esterni”,  come ad esempio il diritto alla vita, il diritto all’incolumità fisica, il diritto alla libertà personale e all’iniziativa economica.

[1]              Cfr. p. 16 della sentenza in commento.

[1]              Cfr. “(…) perché, in concorso tra loro, con violenza consistita nell’ostruire con le proprie persone gli accessi dei cancelli carrai del polo logistico (…) impedivano l’entrata e l’uscita dagli stessi dei mezzi destinati alla consegna delle merci (…) il 05.10.2015”.

[1]          Cfr.“(…) perché, in concorso tra loro, con violenza consistita nell’ostruire con le proprie persone gli accessi dei cancelli carrai del polo logistico (…) impedivano l’entrata e l’uscita dagli stessi dei mezzi destinati alla consegna delle merci (…) il 05.01.2016”.

[1]          Cfr.“(…) perché, in concorso tra loro, con violenza consistita nell’ostruire con le proprie persone gli accessi dei cancelli carrai del polo logistico (…) impedivano l’entrata e l’uscita dagli stessi dei mezzi destinati alla consegna delle merci (…) il 08.01.2016”.

[1]              Se analizziamo la struttura del delitto di cui all’articolo 610 cod. pen., come già detto, la condotta può attuarsi nelle forme sia della minaccia sia della violenza, reale o personale. L’evento si realizza quando si costringe altri nel fare, tollerare od omettere qualche cosa. In tal senso, DE SIMONE, Violenza (diritto penale), in Enciclopedia del diritto, XLVI, Giuffrè, Milano, 1993, p.881.

[1]              In senso più restrittivo, un’ impostazione dottrinaria afferma che “mentre nel caso di violenza sulle cose è decisivo il risultato che attraverso la violenza si produce sulle cose stesse; nel caso di violenza sulle persone, non è necessaria una particolare intensità della violenza, essendo sufficiente che l’azione abbia procurato nel soggetto passivo una coartazione del suo volere” in MINNELLA, voce Violenza in Enciclopedia giuridica Treccani, volume XXXII, 1994, p. 4.

[1]              L’interpretazione estensiva di violenza produce effetti pratici di notevole rilevanza se si considera che in essa si fanno rientrare le attività insidiose in cui è assente il mezzo fisico, quali la narcotizzazione, l’ipnotizzazione ed anche tutte quelle attività dirette a porre la vittima in uno stato di incapacità di volere ed agire. A conforto di tale tesi, si richiamano alcuni dati normativi quali: l’articolo 613 cod. pen. in cui la condotta diretta ad ipnotizzare la vittima o a somministrargli sostanze stupefacenti è qualificata in rubrica come “violenta” ovvero l’articolo 628 cod. pen. laddove è prevista quale circostanza aggravante “la violenza consistente nel porre taluno in stato di incapacità di volere ed agire” così MANTOVANI, Diritto penale. Delitti contro la persona, Padova, 2008, p. 377.

[1]              A tal proposito, si rinvia alla lettura dell’articolo 46 cod. pen. che recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza”.

[1]    Così p. 25 della sentenza in commento.

[1]  La questione interpretativa è rimasta tuttora aperta. Tuttavia, molto efficacemente, la dottrina maggioritaria, nella visibile difficoltà di bilanciare situazioni giuridiche e libertà diverse, rileva “i principi normativi di complicata struttura, quali ad esempio l’articolo 51 cod. pen. ed elementi di fattispecie che una ricerca incessante ha riempito di contenuti differenziati e fin troppo minuziosamente elaborati nelle dinamiche interattive siano state disinvoltamente (…) appiattiti in schemi interpretativi dichiaratamente parziali (…) spesso inconciliabili con la metodologia del discorso giuridico oltre che con le regole del diritto positivo” in MONACO, Commento all’articolo 610 in CRESPI-STELLA-ZUCCALA’, Commentario breve al codice penale, Padova, 2011.

[1]  Cfr. p. 6 della sentenza in commento.

[1] Molto efficacemente, autorevole dottrina distingue tra “condotte sussidiarie persuasive” di cui si afferma la liceità (vi rientrano, come già visto, slogan e manifesti) dalle “condotte sussidiarie impeditive”. In  quest’ultimo caso, “il problema della liceità delle condotte sussidiarie impeditive va  ricondotto a quello della loro tipicità, cioè nella conformità alla fattispecie di violenza privata rimaterializzata nel suo requisito tipico della vis e, così, riportata alla sua natura di reato a forma vincolata, avendo il legislatore operato una repressione selettiva e non generalizzata di ogni forma di pressione sull’altrui volontà” in MAZZI, Commentario al codice penale, 2015, Wolters Kluwer, p. 1251.

[1] Così p. 19 della sentenza in commento.

[1] Ibidem, p. 19.

[1] In senso conforme, un orientamento dottrinario sostiene che il reato di violenza privata possa essere commesso sia intervenendo sul processo formativo della volontà della vittima (cosiddetta coazione relativa o vis compulsiva) sia impedendo alla vittima di agire come vorrebbe attraverso la frapposizione di ostacoli esterni insuperabili (cosiddetta vis absoluta), così VALSECCHI, Delitti contro la libertà fisica e psichica dell’individuo in Reati contro la persona, VIGANO’(cura di), Giappichelli, Torino, 2011,                  p. 240.

[1] In senso analogo, si sostiene, infatti, che “il concetto di violenza comprende qualunque condotta che valga ad impedire il libero movimento del soggetto passivo e ponga quest’ultimo nell’alternativa di non muoversi con il pericolo di menomare l’integrità altrui (…)”in MAZZI, Commentario al codice penale, cit., pp. 1244 ss.

[1] Cfr. p. 20 della sentenza in commento.

[1] Come chiarito, infatti, dalla recente sentenza della Cassazione Sezioni Unite nr. 240814 del 28.10.2008, la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” va riferita all’ipotesi della mancanza di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato; “il fatto non sussiste” va, invece, impiegata nel caso di difetto di un elemento costitutivo, di natura oggettiva, del reato contestato.

Dott. La Corte Giuseppe

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