La volontaria giurisdizione e l’ eredità devoluta ad incapaci

Redazione 17/10/01
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di Elena Calice

Sommario:

1. 1. La giurisdizione volontaria: nozione e “actio finium regundorum” con la giurisdizione contenziosa.
2. 2. Le eredità devolute ad incapaci.
2.1 Necessità dell’accettazione con il beneficio d’inventario.
2.2 Competenza e legittimazione.
3. 3. L’acquisto dei legati.
4. 4. L’alienazione dei beni ereditari del minore e le questioni relative alla competenza.

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1. 1. La giurisdizione volontaria: nozione e “actio finium regundorum” con la giurisdizione contenziosa.

Nel panorama assai confuso offerto dalla giurisprudenza e dalla dottrina in materia di giurisdizione volontaria, può dirsi che con essa s’intende l’attività del giudice, in materie quanto mai omogenee, diretta non a definire controversie, bensì a gestire un negozio o un affare privato per la cui conclusione è necessario l’intervento di un “estraneo terzo ed imparziale”.
Al di là di questa generica definizione, la stessa espressione “volontaria giurisdizione” non fa riferimento chiaro ad i suoi contenuti e non si comprende il reale significato della parola “volontaria” la quale sembra ispirata al concetto romano di jurisdictio voluntaria (che si ritrova in un passo di Marciano), ormai superato. Probabilmente la spiegazione è quella data nel diritto medievale da Cuiacio, il quale affermava che fosse giurisdizione contenziosa quella in cui c’era contrasto tra le parti e jurisdictio graziosa, invece, quella in cui non c’era tale contrasto perché collegata alla volontà di un solo interessato o di più interessati, d’accordo tra loro[1][1].
Negli ordinamenti dei Paesi anglosassoni questo speciale tipo di attività, affidata agli organi istituzionalmente incaricati di funzione giurisdizionale, non è ben individuata come categoria autonoma, sebbene anche ivi siano in uso interventi analoghi, come i provvedimenti a tutela degli interessi economici degli incapaci, la registrazione delle società (nel diritto inglese), il deposito del testamento (nel diritto americano).
I problemi di qualificazione sono acuiti dal fatto che i riferimenti normativi in tema di volontaria giurisdizione possono ricondursi ai soli artt. 801 c.p.c., 32 disp. att. c.c. ed ad alcune leggi speciali e, soprattutto, dalla eterogeneità dei provvedimenti che vengono qualificati di volontaria giurisdizione che si identificano con quelli emanati a seguito di un procedimento in camera di consiglio regolato dagli artt. 737 ss. c.p.c. Il giudice è chiamato non a risolvere controversie relative a diritti o a status, non ad assicurare la tutela giurisdizionale di diritti o status violati (o meramente contestati) bensì a gestire interessi di minori, incapaci, patrimoni separati, gruppi collettivi.
Il carattere volontario di queste attività devolute al giudice deriva dalla circostanza che si tratta di compiti, di funzioni che il legislatore nella sua discrezionalità (volontarietà) avrebbe anche potuto non affidare al giudice, cioè a pubblici funzionari caratterizzati dalla assoluta terzietà rispetto agli interessi su cui sono chiamati a provvedere e dalla indipendenza rispetto a qualsiasi specie di potere o da qualsiasi specie di soggezione.
Col che, però, il tema della distinzione della giurisdizione contenziosa dalla giurisdizione volontaria è solo impostato. Le vere grosse difficoltà sorgono, infatti, non riguardo al nucleo centrale delle funzioni giurisdizionali necessarie o contenziose e rispettivamente volontarie o non contenziose, bensì in ordine alle molto estese zone di confine.
In particolare, la distinzione presenta difficoltà soprattutto riguardo a due settori: in primo luogo, a tutte le ipotesi di procedimenti bi o plurilaterali, nelle quali al giudice è devoluta la gestione d’interessi (di minori, incapaci, patrimoni separati, gruppi collettivi) che sono in conflitto con interessi altrui, è immanente la possibilità che l’attività di gestione dell’interesse entri in contrasto – incida si dice – su veri e propri diritti o status altrui. Si pensi alle ipotesi di rimozione del tutore (art. 384 c.c.), di revoca dell’amministratore di condominio (art. 1129, comma 3°, c.c. e 64 disp. att. c.c.), di revoca dei liquidatori di società di persone o di capitali (art. 2275, comma 2°, 2450, comma 4°, c.c.), di revoca d’amministratori e di sindaci di società per azioni (art. 2409, comma 3°, c.c.). In tutte queste ipotesi a fronte dell’interesse del minore, dell’incapace, del patrimonio separato, del gruppo collettivo da gestire, da amministrare, vi sono corposi diritti soggettivi del tutore, amministratore di condominio, liquidatore, sindaco, amministratore societario rimosso: il che pone delicati problemi d’equilibrio fra gestione d’interessi e tutela giurisdizionale dei diritti su cui tale gestione incide.
È poi da considerare come settore in cui sono massime le difficoltà di distinguere tra giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria, le ipotesi di tutela dell’interessi dei minori a fronte del diritto-potestà dei genitori. Si va dalle già gravissime ipotesi di rimozione dall’amministrazione, di decadenza dalla potestà, di «provvedimenti convenienti» ivi compreso l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare, di affidamento temporaneo del minore in mancanza di assenso dei genitori (arte. 330, 333, 334 c.c.), alla dichiarazione dello stato di adottabilità alla dichiarazione di adozione. In casi di questa specie la contrapposizione tra gestione dell’interesse del minore e tutela del diritto-potestà parentale è massima: soprattutto, a differenza di quanto può avvenire nelle ipo-tesi cui si è precedentemente accennato, la contrapposizione non sembra componibile in modo alcuno tramite la scissione tra giurisdizione non contenziosa sulla gestione dell’interesse del minore e giurisdizione contenziosa sulla tutela del diritto del genitore. Né la soluzione, prospettata in giurisprudenza, di distinguere fra provvedimenti di mera gestione dell’interesse del minore e provvedimenti ablativi dello status di figlio legittimo o naturale è soluzione soddisfacente.

2. Le eredità devolute ad incapaci
Gli articoli 471 e 472 c.c. stabiliscono che le eredità devolute agli incapaci possono essere accettate unicamente con il beneficio d’inventario. Questa norma, dunque, vale indistintamente per tutte le categorie di incapaci, vale a dire i minori, gli interdetti, i minori emancipati, anche se autorizzati all’esercizio dell’impresa, e gli inabilitati.
L’art. 489 c.c. prescrive poi la decadenza dal beneficio d’inventario dell’incapace che non abbia accettato regolarmente l’eredità o non si sia conformato alle regole che sovrintendono al regime dell’accettazione beneficiata solo se decorso un anno dalla cessazione dell’incapacità. Si è precisato che entro tale termine l’incapace non acquista la qualità di erede puro e semplice, ma resta nella veste di chiamato qualora il suo legale rappresentante non abbia provveduto alla redazione dell’inventario nel tempo previsto dall’art. 485 c.c.
Secondo la dottrina prevalente, il sistema delineato dal legislatore si fonda su una ratio di protezione dell’incapace che sarebbe altrimenti esposto al grave rischio della responsabilità illimitata del proprio patrimonio per i debiti ereditari.
Alcuni autori (FERRI) ritengono, a tal proposito, che generalmente le eredità non sono passive e l’obbligo dell’accettazione beneficiata potrebbe tradursi in un’ inutile aggravio, soprattutto di natura fiscale, per l’incapace.
Si è perciò proposto di ammettere l’incapace ad accettare l’eredità puramente e semplicemente, purchè successivamente alla valutazione congrua ed imparziale del giudice il quale, con i poteri conferitigli dall’art. 320 c.c., potrebbe disporre l’accettazione ereditaria con o senza il beneficio d’inventario.
Preferibile resta l’orientamento (Mazzacane, Jannuzzi, Capozzi) secondo il quale un’ accettazione pura e semplice da parte dell’incapace non varrebbe mai a fargli acquistare la qualità di erede. Come già precisato, infatti, l’art. 472 c.c. prescrive un’unica forma di accettazione dell’eredità per gli incapaci e, del resto, la valutazione del giudice ex art. 320 c.c. riguarda l’utilità o meno dell’accettazione e non le forme di essa.
Merita, inoltre, notazione il fatto[2][2] che l’inconveniente non è tanto nella necessità dell’autorizzazione, quanto nella destinazione dei beni ereditari durante la fase beneficiata, la quale è finalizzata al soddisfacimento dei creditori e dei legatari. Se, ad esempio, il tutore volesse vendere i beni ereditari dell’interdetto al fine di provvedere a necessità urgenti, non potrebbe, a rigore, ottenere l’autorizzazione perché l’alienazione dei beni dell’eredità beneficiata ha come unico scopo, si ripete, la liquidazione dei creditori e dei legatari.
L’inconveniente viene nella prassi facilmente superato in quanto l’autorizzazione sarà concessa, in caso di necessità dell’incapace, provando che non esistano creditori ereditari.

2.1 Necessità dell’accettazione con beneficio d’inventario
Quali, dunque, gli effetti nel caso di un’ accettazione pura e semplice dell’eredità da parte dell’incapace?
Secondo alcuni autori, l’accettazione non beneficiata dell’eredità da parte di soggetti incapaci sarebbe comunque titolo idoneo a far acquistare allo stesso la qualità di erede senza che ciò determini l’impossibilità di avvalersi del beneficio.
Altri ha ritenuto che una tale forma di accettazione fosse da ritenere inefficace in quanto improduttiva di effetti giuridici; altri ancora ne afferma la semplice annullabilità, in quanto l’atto di accettazione sarebbe idoneo a produrre i propri effetti fino a quando il soggetto legittimato non ne faccia venir meno definitivamente la validità.
Preferibile risulta l’orientamento dottrinale che propende per la nullità virtuale dell’accettazione dell’ eredità devoluta ad incapaci non beneficiata, orientamento che trova l’autorevole avallo della Corte di Cassazione che in più occasioni[3][3] si è pronunciata a favore della “ nullità e totale improduttività di effetti dell’accettazione non beneficiata, non conferendo all’incapace la qualità di erede che rimane nella posizione di chiamato all’eredità ”.

2.2. Competenza e legittimazione
Gli artt. 471 e 472 c.c. prevedono un rinvio, per l’accettazione dell’eredità, alle disposizioni degli articoli 321 e 374 c.c. Questo, il sistema delineato dal codice:
· · I genitori, per i minori sottoposti alla loro potestà ex art. 320 c.c., il curatore speciale ex art. 321 c.c. o il tutore ex art. 374 n. 3 c.c.;
· Il tutore per gli interdetti;
· L’ emancipato o l’inabilitato con il consenso del curatore

Dovranno chiedere l’autorizzazione del giudice tutelare per poi procedere all’accettazione beneficiata.
Si può perciò osservare come la disciplina sia sostanzialmente unificata per tutte le categorie di incapaci. Giudice competente a rilasciare l’autorizzazione è, infatti, sempre il giudice tutelare.
Autorizzazione per l’accettazione di eredità devolute ad incapaci[4][4][

a) a) Minori in potestà, sottoposti a tutela, interdetti
Competenza: Giudice tutelare ( artt. 320, 374, 424 c.c.) del luogo dove il minore ha il domicilio legale.
Legittimazione: Genitori esercenti la potestà, tutore, notaio incaricato della stipula dell’atto di accettazione.
Reclamo: Tribunale ordinario o per i minorenni, secondo i casi ( art. 45 disp. att. c.c)
b) Minori emancipati e inabilitati
Competenza : Giudice tutelare ( artt. 394, 424 c.c.) del luogo dove il minore ha il domicilio legale
Legittimazione: minore emancipato, inabilitato, in entrambi i casi con l’assistenza del curatore; notaio incaricato della stipula dell’atto di accettazione.
Reclamo: Tribunale ordinario o per i minorenni, secondo i casi ( art. 45 disp. att. c.c)

3. L’acquisto dei legati
Per ciò che concerne l’acquisto dei legati, l’art. 320 c.c. ha previsto l’obbligo dei genitori esercenti la potestà sul figlio minore di chiedere l’autorizzazione anche per il conseguimento dei legati.
La norma introdotta dalla legge di riforma del diritto di famiglia ( L. 19.5.1975 n.151) ha creato un grave difetto di coordinamento con le norme degli artt. 374 n. 3, 394 e 424 c.c. che, per l’acquisto di legati del minore soggetto a tutela, dell’interdetto, dell’inabilitato e dell’emancipato, prevedono l’autorizzazione del giudice tutelare solo quando i legati siano sottoposti a pesi o condizioni.
Secondo parte della dottrina, anche l’accettazione di un legato non sottoposto a pesi o condizioni richiederebbe l’autorizzazione del giudice tutelare in quanto potenzialmente potrebbe essere anch’esso oneroso per l’incapace.[5][5]
L’ orientamento prevalente, invece, ritiene che comunque vada rispettata la lettera degli artt. 374 n. 3, 394, 424 c.c. e che non sia possibile un’operazione di distorsione di norme che esplicitamente non richiedono che in alcuni casi la necessità dell’autorizzazione.
E’ d’obbligo ricordare che analoghe norme valgono anche per l’accettazione di donazioni.

4. L’alienazione dei beni ereditari del minore e la competenza. e dei beni facenti parte dell’eredità non ancora accettata dall’incapace.

E’ discusso se, per l’alienazione dei beni ereditari dei minori sia competente il giudice delle successioni previsto dall’ art. 747 c.p.c. ovvero il giudice tutelare.
Un primo orientamento della Suprema Corte affermò la competenza del giudice tutelare, basandosi sul dettato dell’art. 320[6][6] c.c., nella formulazione risultante dalla riforma del diritto di famiglia. La dottrina che accorda il proprio favore al predetto orientamento giurisprudenziale ritiene che , a seguito della legge 19.5.1975 n.151, l’art. 747 c.p.c. sarebbe stato implicitamente abrogato e sarebbe stata così unificata l’intera materia degli atti di alienazione di beni appartenenti al minore e, più in generale, all’erede incapace.
Successivamente la Cassazione a Sezioni Unite[7][7] ha affermato che, nonostante la novella del 1975 e l’aggiunta al testo normativo dell’art. 320 c.c. delle parole “ anche a causa di morte” , l’autorizzazione alla vendita dei beni ereditari del minore fosse di competenza del giudice delle successioni indicato nell’art. 747 c.p.c., il quale dovrà pronunciarsi dopo aver sentito il parere del giudice tutelare.
Con questa interpretazione, l’espressione “beni pervenuti al figlio anche a causa di morte” non è priva di applicazione, ma viene ristretta ai soli casi nei quali sia terminata la fase ereditaria.
Sarebbe, dunque, solo il giudice delle successioni l’unico organo in grado di tutelare gli interessi dei creditori e legatari, mentre il giudice tutelare non può che fermarsi alla valutazione degli interessi del minore, visto che lo stesso art.320 c.c. parla esclusivamente di “necessità o utilità evidente”.
L’ambito effettivo di applicazione dell’art.320 c.c. risulta allora significativamente limitato, e precisamente alle sole ipotesi in cui la fase ereditaria può dirsi effettivamente terminata.
Secondo questa teoria, la valutazione dei distinti interessi del minore e dei creditori, nonché dei legatari, troverà piena attuazione. Da un lato, infatti, il giudice delle successioni valuterà nel decidere l’opportunità dell’operazione per i creditori ed i legatari. Dall’altro, il giudice tutelare, attraverso il suo parere, valuterà l’interesse del minore. Tale valutazione sarà compiuta anche dal giudice delle successioni il quale, nel decidere, considererà anche le esigenze del minore, non essendo vincolato al parere del giudice tutelare.

Roma, mercoledì 17 ottobre 2001

[1][1] Cfr. Capozzi, Successioni e donazioni, tomo primo, Milano, 1983,Giuffrè Editore.
[2][2] Cfr. Capozzi, op. ult. cit. pag. 200.
[3][3] Cass. 27 febbraio 1986, n. 1267; Cass. 23 aprile 1966, n. 1051.
[4][4] Cfr. nota n. 1
[5][5] Si cita a tal proposito il caso di un legato della proprietà di immobile gravato da oneri o vincoli di rilevante ammontare.
[6][6] “ I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte,…, se non per necessità ed utilità evidente del figlio stesso, dopo autorizzazione del giudice tutelare”.
[7][7] Cass. 19 marzo 1981 n. 1595; cfr. anche Cass. 29 aprile 1981 n. 2622; Cass. 26 gennaio 1982 n. 501; Cass. 9 settembre 1996 n. 8177.

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