La tutela dell’interesse collettivo in materia di ambiente, di concorrenza e di servizi pubblici

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Al fine di compiere una trattazione organica delle tematiche sottoposte ad esame, è necessario muovere dalla definizione di “interesse superindividuale”. In via generale, ci si riferisce ai c.d. “interessi diffusi”, per tali intendendosi quegli interessi che, non appuntandosi in capo a soggetti ben determinati o individuabili, appartengono alla massa indistinta dei consociati; si caratterizzano per essere, almeno allo stato primordiale di manifestazione, come adespoti, attesa la mancanza di titolarità di una posizione differenziata da parte di taluno rispetto alla collettività complessivamente intesa.

Stante tale qualificazione, è dato comprendere come si siano sollevate a gran voce questioni relative alle prospettive di tutela giurisdizionale che si aprono a fronte dei requisiti di personalità ed individualità, rispetto ai quali il sistema processuale amministrativo si informa, scaturendo anche dal riscontro degli stessi la legittimazione a ricorrere in giudizio.

L’impegno della giurisprudenza si è concretizzato, dunque, nella ricerca di criteri che consentissero di operare la trasformazione da interessi originariamente adespoti al rango di interessi collettivi, attraverso un processo di soggettivizzazione in capo a gruppi sociali, organizzati in enti esponenziali o categorie, che statuissero con fine prevalente e costitutivo, la salvaguardia e la tutela degli interessi dei consociati rappresentati.

Per il tramite dell’ente esponenziale, invero, si realizza il passaggio da interesse diffuso ad interesse collettivo, attraverso un processo di soggettivizzazione dello stesso. È tale processo a conferire la titolarità degli interessi collettivi alle organizzazioni di tipo associativo, legittimate ad agire per la tutela non già di interessi particolaristici dei singoli componenti, ma di interessi unitariamente riferibili alla categoria considerata.

Con maggiore impegno esplicativo si vuole sottolineare come l’interesse collettivo, di fatto, non si sostanzia nell’addizione, nella sommatoria degli interessi dei singoli ricompresi nella categoria, ma nel compendio degli stessi, nella sintesi, in un interesse collettivo che si distingue qualitativamente rispetto a quello dei singoli. Riprova ne è la considerazione per cui l’ente esponenziale non si pone quale sostituto processuale ex art. 81 c.p.c., posto che lo stesso non fa valere “per interposta persona” un diritto appartenente al singolo inserito in una categoria, ma fa valere, appunto, un interesse collettivo.

È dunque attraverso la costituzione dell’ente esponenziale che l’interesse originariamente diffuso si soggettivizza trasformandosi in interesse collettivo, e quindi in interesse legittimo meritevole di tutela. Per effetto di tale operazione ne è permessa la giustiziabilità.

Tale assunto ha rappresentato la base di partenza degli approdi raggiunti dal Consiglio di Stato, circa la possibilità da parte dell’ente esponenziale di impugnare un atto lesivo espressione dell’azione amministrativa, unicamente quando lo stesso abbia ad oggetto un interesse omogeneo della categoria, o quando lo stesso colpisca tutti gli appartenenti alla stessa. Ne deriva che, l’ente collettivo non possa agire a tutela degli interessi di alcuni appartenenti al gruppo contro altri.

La posizione in esame è stata successivamente rimeditata dallo stesso Consiglio di Stato all’interno di una pronuncia con cui, i giudici, hanno esaminato funditus tanto il tema dell’interesse collettivo, quanto le tecniche di tutela apprestate allo stesso. Ed invero, il Collegio ha rilevato come attraverso il processo di soggettivizzazione, l’interesse originariamente diffuso si trasformi in collettivo, costituendo conseguentemente una posizione propria dell’ente esponenziale e come tale vantabile unicamente dallo stesso.

In tale contesto, inoltre, non hanno mancato di rilevare come non sussista l’ontologica impossibilità che l’ente possa agire a tutela degli interessi di alcuni soltanto degli appartenenti al gruppo contro altri, non essendo necessario che l’atto amministrativo sia lesivo degli interessi di tutti, essendo sufficiente, per contro, a legittimare la sua azione anche la lesione di alcuni soltanto di essi.

Ed invero, nella sentenza viene messo in risalto come una conclusione come quella originariamente prospettata dal Consiglio di Stato comporti delle conseguenze prima facie  inaccettabili, atteso che consentirebbe la tutela dell’ interesse collettivo unicamente nel caso in cui l’atto della PA fosse lesivo degli interessi di tutti gli appartenenti alla categoria e non soltanto di alcuni; per vero, numerose, disparate e spesso anche accidentali possono essere le circostanze per cui un atto sia lesivo degli interessi solo di alcuni, andando, invece, a vantaggio di altri.

Il Collegio rileva, come tale apparente contraddizione possa essere sanata solo se si considera che, dalla qualifica di ente esponenziale, scaturisce una duplicità di posizioni giuridiche. In capo all’ente, infatti, si sostanziano sia posizioni giuridiche appartenenti tanto all’ente quanto a ciascun consociato singolarmente inteso, quanto posizioni soggettive facenti capo in via esclusiva allo stesso.

La riferibilità generica ed indistinta agli appartenenti del gruppo, e la riferibilità alla categoria rappresentata sono le due situazioni giuridiche indistintamente riunite sotto la definizione di “interesse collettivo”. Cogliendo la distinzione che tra le stesse intercorre è possibile, dunque, rilevare come l’interesse collettivo, in virtù della sua caratterizzazione, sia destinato ad essere tutelato solo attraverso l’ente esponenziale che ha come fine statuario e principale quello di salvaguardia dell’interesse considerato; inoltre, la legittimazione ad agire dell’ente esponenziale va considerata quale esclusiva ed originaria.

Secondo il Collegio, quindi, la possibile disomogeneità degli interessi dei componenti del gruppo o della categoria rappresentata non può essere fattore idoneo ad incidere sulla legittimazione ad agire dell’ente a tutela dell’interesse collettivo oggettivato e tipizzato.

Inizialmente, la legittimazione al ricorso da parte di categorie o enti esponenziali è stata ricondotta unicamente al dato formale del possesso della personalità giuridica. Successivamente però, in accoglimento di una serie di criticità evidenziate dalla dottrina, la giurisprudenza ha ritenuto di non ancorare la legittimazione a ricorrere al mero dato formale; invero, ha valorizzato l’elemento sostanziale dell’effettiva rappresentatività dell’ente rispetto all’interesse tutelato, prescindendo quindi dal requisito della personalità giuridica. Nel farlo, i giudici hanno individuato una serie di indici, di criteri, da cui desumere l’effettiva rappresentatività dell’ente, come il fine istituzionale perseguito dal soggetto collettivo, la struttura organizzativa sufficientemente stabile,  e la c.d. vicinitas.

Al fine di individuare la base normativa della legittimazione processuale degli enti esponenziali per la difesa degli interessi collettivi, parte della dottrina ha ritenuto di doverla ravvisare nell’art. 9 della l. 241/90, disposizione per cui qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, ha facoltà di intervenire nel procedimento. Secondo i sostenitori di tale tesi, la norma in questione, autorizzando l’intervento dei portatori degli interessi diffusi, durante la fase procedimentale – all’interno della quale la lesione derivante dall’atto amministrativo è solo potenziale – di fatto, comporterebbe anche l’automatica legittimazione processuale dell’ente esponenziale nei casi in cui il risultato del procedimento si compendi in un atto lesivo dell’interesse tutelato dallo stesso. Concretamente, tale tesi equipara la facoltà di intervento procedimentale alla legittimazione processuale.

Diversamente, invece, ritengono che debba ritenersi i fautori della teoria contraria. Sostenendo che l’art. 9 della l. 241/90 sia norma idonea a legittimare la mera partecipazione anche delle associazioni o dei comitati durante la fase procedimentale, tale parte della dottrina mette in evidenza come, diversamente opinando si confonderebbero i due piani (procedimentale e processuale) che, per contro, è bene e necessario tenere distinti.

I fautori della seconda teoria sostengono come, pur volendo ammettere che l’art. 9 della l. 241/90 comporti l’automatismo suddetto, non si comprende, invero, come tale norma, nelle ipotesi di partecipazione al procedimento dell’ente in chiave collaborativa – e non in chiave difensiva- sarebbe idonea a legittimare la facoltà di intervento processuale.

Ed infatti, potrebbe anche condividersi l’assunto per cui la partecipazione dell’associazione durante la fase procedimentale- in ottica anticipatoria e difensiva,  diretta a tutelare il bene statutariamente assunto- potrebbe comportare la legittimazione dell’ente ad impugnare il provvedimento asseritamente lesivo; ciò che tale teoria non spiega, è come tale meccanismo operi nelle ipotesi in cui l’associazione o l’ente partecipino al procedimento in chiave collaborativa, al fine di mettere a disposizione dell’amministrazione procedente un bagaglio di conoscenze. Alla luce di tale approdo ermeneutico andrebbe riconosciuta legittimazione processuale unicamente al soggetto che si pone quale titolare di un interesse sostanziale, suscettibile di lesione ad opera del provvedimento adottato all’esito del procedimento amministrativo.

Relativamente all’ambito della tutela dell’ambiente, una scelta in tal campo e nel senso di una previsione esplicita, è stata compita dal legislatore mediante il combinato disposto degli artt. 13 e 18 c. 5 della l. 8 luglio 1986, n. 349.

E invero, le associazioni individuate sulla base dell’art. 13 – che prevede come le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni siano individuate con decreto del Ministro dell’ambiente- sono espressamente, a norma del comma quinto dell’art. 18, legittimate ad intervenire nei giudizi per danno ambientale e a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi.

Va rilevato come, pur se l’intervento del legislatore sia stato animato dall’intento di sopire i contrasti sul tema, non può essere sottaciuta la circostanza per cui, di fatto, tali conflitti non abbiano trovato composizione. Se parte della giurisprudenza ha sostenuto che la legittimazione processuale fosse da riconoscersi esclusivamente in capo a quelle associazioni individuate mediante decreto ministeriale, per contro, altra ha evidenziato la possibilità di un doppio binario.

Accanto alle associazioni individuate con decreto ministeriale, legittimate ad agire in via processuale, vi sarebbero anche quelle individuate dal giudice all’esito del vaglio di meritevolezza compiuto, di volta in volta, in sede processuale sulla scorta degli indici di elaborazione pretoria. Tale seconda opzione ermeneutica eviterebbe di incorrere nella di violazione degli artt. 24, 103 e 113 Cost., problematica che, invece, verrebbe in rilievo in adesione al primo degli orientamenti prospettati.

Anche relativamente al novero degli atti che tali soggetti collettivi sono legittimati ad impugnare si sono rilevati due orientamenti di segno opposto. Per il primo, di segno restrittivo, tali enti esponenziali sarebbero legittimati ad impugnare quei provvedimenti unicamente lesivi del “bene ambiente” inteso alla luce delle disposizioni di cui alla l. 349/86. Da tale ambito esulerebbero, ad esempio, quelli atti afferenti ad aspetti urbanistico-edilizi. La seconda tesi, di segno espansivo, al suo interno distingue tra atti amministrativi stricto sensu  ambientali – sicuramente impugnabili – dagli atti amministrativi a valenza neutra. In ossequio a tale tesi, si è ritenuto più corretto rimettere direttamente alle associazioni la scelta degli atti lesivi da impugnare, considerando il “bene ambiente” in un’accezione lata, in senso ampio.

Avuto riguardo ai vizi che informano l’atto amministrativo oggetto di impugnazione si è ritneuto di dover dare prevalenza ed applicazione a quel filone giurisprudenziale che, ha sostenuto la possibile eterogeneità dei vizi deducibili a fronte di un’azione idonea, e diretta a tutelare e a salvaguardare il bene collettivo in questione.

Tra le novità normative intervenute in materia, merita  dar conto, di quella  all’art. 146, comma 12 del Codice dei beni culturali e ambientali, che ha previsto la possibilità di impugnazione della autorizzazione paesaggistica, con ricorso al tribunale amministrativo regionale o con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica,  da parte delle associazioni portatrici di interessi diffusi individuate ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia di ambiente e danno ambientale, e da qualsiasi altro soggetto pubblico o privato che ne abbia interesse. Ha stabilito, inoltre, come le sentenze e le ordinanze del Tribunale amministrativo regionale possono essere appellate dai medesimi soggetti, anche se non abbiano proposto ricorso di primo grado.

La tutela dell’interesse collettivo ha interessato anche il campo della concorrenza e del mercato.

Invero, l’art. 21 bis della l. n. 287/90 ha affidato all’Autorità Antitrust la legittimazione ad agire in giudizio, adendo il giudice amministrativo al fine di ottenere l’annullamento degli atti amministrativi generali, dei regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. L’articolo prevede testualmente la possibilità di un vaglio dell’Autorità Antitrust rispetto agli atti emanati da qualsiasi pubblica amministrazione, novità sottolineata come particolarmente innovativa dalla dottrina intervenuta sul tema.

Al secondo comma  è prevista una fase precontenziosa in cui l’Autorità Antitrust, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Nel caso in cui la pubblica amministrazione non si conformi nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l’Autorità ha il potere di presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso entro i successivi trenta giorni.

Tale procedura appare per molti aspetti simile a quella esperita nel procedimento di infrazione promosso contro gli Stati membri dell’Unione Europea, nel caso in cui la Commissione ravvisi un inadempimento agli obblighi derivanti in capo agli stessi dall’appartenenza all’Unione. Per vero, prima di adire la Corte di Giustizia, la Commissione è obbligata a chiedere, tramite parere motivato, allo Stato in questione di conformarsi alle prescrizioni derivanti dal diritto dell’Unione. Tale parere assurge a condizione di procedibilità per l’eventuale e successivo procedimento innanzi alla Corte di Giustizia, così come l’invio del parere motivato a norma dell’art. 21 bis, comma 2 della l.287/90 costituisce condizione di procedibilità e di ammissibilità del ricorso innanzi al giudice amministrativo.

A tal proposito si è prospettata la questione problematica tanto del riconoscimento in capo all’Antitrust della titolarità della posizione soggettiva sostanziale di interesse legittimo, quanto  della sussistenza dell’interesse ad agire nel rapporto processuale. I primi interventi dottrinali sull’argomento hanno rilevato la difficoltà di riconoscere una posizione soggettiva di interesse legittimo all’Autorità, posto che la stessa non vanterebbe un interesse legittimo in senso proprio, in quanto la sua azione sarebbe finalizzata all’interesse generale alla concorrenza. Conseguentemente, l’assenza di un interesse individuale impedirebbe di ravvisare l’interesse ad agire, atteso che l’Autorità stessa agirebbe per l’attuazione della legge in materia di concorrenza e di mercato e non per l’attuazione di un interesse proprio. L’Autorità sarebbe, dunque, in grado di azionare, a norma dell’art. 21-bis, una giurisdizione di tipo oggettivo che non mirerebbe alla tutela di interessi individuali ma di interessi generali diretti alla tutela della concorrenza.

Diverse sono le considerazioni effettuate da chi si pone in disaccordo con tale tesi. Secondo questi, infatti, l’Autorità Antitrust sarebbe titolare non già di un interesse generale, bensì di un interesse differenziato e particolare, finalizzato all’attuazione della “migliore concorrenza”. Tramite l’attribuzione effettuata dal legislatore, quindi, la stessa vanterebbe un interesse specifico che si differenzia dalla collettività indistinta, trasformandosi da interesse diffuso ad interesse collettivo. Stante tale lettura della norma, non verrebbero in rilievo problemi di legittimazione processuale, ponendosi in modo pienamente compatibile con il sistema vigente.

A favore di tale seconda tesi si registrano le pronunce sia della giurisprudenza amministrativa che di quella costituzionale. La prima sostiene che, quando l’autorità Antitrust agisce lo faccia in virtù della titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che ha ad oggetto il bene della vita del corretto funzionamento della concorrenza. L’interesse a ricorrere andrebbe ravvisato dunque nella rimozione dell’atto lesivo del bene stesso, e nel rispristino della conseguente legalità.

Ad avviso delle Consulta, inoltre, la disposizione in esame andrebbe ad integrare e a implementare poteri già riconosciuti in capo all’Autorità Antitrust, consentendole di sindacare provvedimenti provenienti da qualsiasi amministrazione.

Non può tacersi come il potere conferito all’Antitrust non si concretizza di un mero invito fatto all’amministrazione a cui l’atto è imputabile, al fine di consentire un esercizio di autotutela discrezionale; e infatti, un’eventuale impugnazione avrà ad oggetto, non il mancato ritiro dell’atto amministrativo, ma l’atto amministrativo originario. Ne deriva che il sindacato che il giudica andrà a compiere non verterà circa la sussistenza dei presupposti per l’autotutela, ma avrà ad oggetto la legittimità dell’atto originario lesivo delle regole della concorrenza.

Anche l’ambito dei servizi pubblici è stato interessato dal tema della tutela dell’interesse collettivo. In tale sede merita dar conto di una novità introdotta dal legislatore: l’azione collettiva di classe contro le inefficienze della pubblica amministrazione, prevista dal d.lgs n.198/2009, in attuazione dell’art. 4 della legge del 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di pubblici servizi.

Tale azione collettiva si affianca ma differisce profondamente da quella attualmente prevista all’art. 140-bis del Codice del Consumo, rubricata “azione di classe”, o anche detta “class action ordinaria”. Ed invero, tale ultima disposizione stabilisce come i diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti, nonché gli interessi collettivi siano tutelabili anche attraverso l’azione di classe. La tutela in questione può essere apprestata mediante associazioni o comitati.

L’azione di classe prevista dal Codice del Consumo ha per oggetto l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore di utenti e consumatori e mira a tutelare  i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile; i diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; i diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.

Profondamente diversi sono i presupposti e l’ambito di applicazione dell’azione collettiva di classe prevista per le inefficienze delle amministrazioni e dei concessionari di pubblici servizi rispetto a quella prevista dall’art. 140-bis del Codice del Consumo. Rinviando di qualche rigo l’esame della disciplina, preme rilevare come mentre l’azione prevista nel Codice del consumo attenga ad aspetti contrattuali, e per certi versi anche extracontrattuali intercorrenti tra consumatore ed impresa, al fine di apprestare tutela alla parte debole del sinallagma contrattuale, l’azione che di qui a breve si prenderà ad esaminare attiene ai rapporti intercorrenti tra cittadino e pubblica amministrazione. Inoltre, quest’ultima mira, attraverso il ricorso per l’efficienza a fare in modo che le amministrazioni eroghino un servizio in linea con gli standard stabiliti, correggendo eventuali storture del sistema.

Ed infatti- a norma delle disposizioni del D.lgs 198/2009- al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di pubblici servizi, nei casi in cui derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione dei termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e  non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 13 del medesimo decreto e secondo le scadenze temporali definite dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150.

 

La legittimazione attiva ad agire in giudizio compete ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, e alle associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati, a norme del comma 4 dell’art. 1 del suddetto decreto.

Relativamente all’ambito dei legittimati passivi sono state escluse le Autorità  amministrative indipendenti, gli organi giurisdizionali, le assemblee legislative e gli altri organi costituzionali, nonché la Presidenza del Consiglio dei ministri.

Stante la pluralità e l’eterogeneità di situazioni che possono venire in rilievo in materia di servizi pubblici- qualificabili tanto come interessi legittimi quanto come diritti soggettivi- il legislatore ha ritenuto di dover esplicitamente prevedere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e la rilevabilità d’ufficio delle questioni di competenza.

È previsto all’art. 3, inoltre, come il ricorrente debba notificare preventivamente una diffida all’amministrazione o al concessionario ad effettuare, entro il termine di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati. La diffida è notificata all’organo di vertice dell’amministrazione o del concessionario, che assume senza ritardo le iniziative ritenute opportune, individuando il settore in cui si è verificata la violazione, l’omissione o il mancato adempimento, e cura che il dirigente competente provveda a rimuoverne le cause. Tutte le iniziative assunte sono comunicate all’autore della diffida. Le pubbliche amministrazioni determinano, per ciascun settore di propria competenza, il procedimento da seguire a seguito di una diffida notificata ai sensi del presente comma. L’amministrazione o il concessionario destinatari della diffida, se ritengono che la violazione, l’omissione o il mancato adempimento sono imputabili altresì ad altre amministrazioni o concessionari, invitano il privato a notificare la diffida anche a questi ultimi.

In sentenza il giudice accoglie la domanda se accerta la violazione, l’omissione o l’inadempimento lamentati, ordinando alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

La sentenza che accoglie la domanda nei confronti di una pubblica amministrazione è comunicata, dopo il passaggio in giudicato, agli organismi con funzione di regolazione e di controllo preposti al settore interessato, alla Commissione e all’Organismo di cui agli articoli 13 e 14 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, alla procura regionale della Corte dei conti per i casi in cui emergono profili di responsabilità erariale, nonché agli organi preposti all’avvio del giudizio disciplinare e a quelli deputati alla valutazione dei dirigenti coinvolti, per l’eventuale adozione dei provvedimenti di rispettiva competenza. Inoltre, la sentenza che accoglie la domanda nei confronti di un concessionario di pubblici servizi è comunicata all’amministrazione vigilante per le valutazioni di competenza in ordine all’esatto adempimento degli obblighi scaturenti dalla concessione e dalla convenzione che la disciplina. L’amministrazione individua i soggetti che hanno concorso a cagionare le situazioni di cui all’articolo 1, comma 1, e adotta i conseguenti provvedimenti di propria competenza. Le misure adottate in ottemperanza alla sentenza sono pubblicate sul sito istituzionale del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione e sul sito istituzionale dell’amministrazione o del concessionario soccombente in giudizio.

Il ricorso all’azione di classe fin qui descritta, ideata dal Ministro Brunetta, è stata al centro di forti critiche, con cui si è qualificato detto provvedimento come “provvedimento- beffa” che, di fatto, non concederebbe alcuna effettiva tutela contro le inefficienze della pubblica amministrazione.

Nonostante tali critiche, non può tacersi come con l’azione collettiva in esame, il giudice amministrativo ampli lo spettro dei suoi poteri potendo, in tale ambito, sindacare le scelte di allocazione delle risorse disponibili, non arrestando più il suo sindacato unicamente alla legittimità, ma espandendolo anche alla conformità dell’azione amministrativa agli standard qualitativi ed economici.

Conclusivamente, va rilevato che con tale ricorso, inoltre, si introduce una forma di tutela diversa da quelle già esistenti che si “disinteressa” della posizione del singolo avendo di mira un effetto diverso e più ampio: quello di ripristinare la corretta erogazione del servizio e degli standard qualitativi stabiliti, non già esclusivamente nell’interesse del singolo ma nell’interesse della collettività complessivamente intesa.

Dott.ssa De Candia Roberta

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