La soccombenza in giudizio di lavoro

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Breve nota su Sent. 268/2020 Corte Costituzionale

  1. La questione di costituzionalità;
  2. Nel merito della vicenda: la proposta conciliativa;
  3. Conclusione della Consulta

La questione di costituzionalità

La Corte Costituzionale ha pronunciato il 19 novembre 2020 la sentenza num. 268, giudicando la legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile (principio della soccombenza[i]), in combinato disposto con l’art. 420, cod. proc. civ. per presunta violazione degli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, primo comma, della Costituzione[ii].

L’articolo oggetto di principale disamina da parte della Corte è rubricato “Condanna alle spese” e disciplina le conseguenze giuridiche del non accoglimento da parte del Giudice delle domande proposte da una parte di un processo, in primis la condanna al rimborso delle spese di lite.

Il giudizio de quo era stato promosso dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra M. V. e A. D., con ordinanza del 22 luglio 2019, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2019. La vicenda originava dal giudizio promosso da un lavoratore della scuola per ottenere delle differenze retributive, il quale, però, non accettava la proposta conciliativa di 2500 euro, con compensazione delle spese, formulata dal Giudice di prime cure sulla base della disponibilità dell’allora controparte. La sentenza del Tribunale adito riconosceva quindi al lavoratore la cifra di 900 euro e lo condannava al pagamento delle spese.

La sentenza veniva impugnata dal lavoratore e la Corte d’Appello, ritenendo che il vaglio di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., autonomamente e in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., fosse pregiudiziale alla propria decisione faceva ricorso al Giudice delle Leggi. Il processo del lavoro si inquadra di fatto in una situazione di disuguaglianza strutturale, mentre l’art. 3 Cost. impone, il rispetto del principio della parità tra le parti di un processo, attraverso la rimozione degli ostacoli economico-sociali.

Nel merito della vicenda: la proposta conciliativa

Viene in rilievo, in questo contesto, l’aspetto della proposta conciliativa, poiché l’articolo 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., consente di condannare alle spese la parte che, sebbene vittoriosa, non abbia accettato, immotivatamente, una proposta di importo pari o superiore a quello riconosciuto nella sentenza. Per il Giudice rimettente, la scelta di conciliare non sarebbe in questa situazione scevra da costringimenti, considerato che, la parte debole, ossia il lavoratore ricorrente, ha – seppur in parte – ottenuto ragione. Il lavoratore sarebbe, nella sostanza dei fatti, costretto ad accettare una proposta incongrua per il timore di subire il pagamento delle spese. La norma portata al vaglio di legittimità, potrebbe violare gli artt. 3, 4, 24 e 35 Cost., avendo introdotto un ostacolo reddituale per il diritto di accesso al giudice del lavoratore.

Le violazioni riguarderebbero anche, nel combinato disposto con l’art. 420 cpc[iii], le garanzie dell’equo processo ex art. 6 ed ex artt. 13 e 14 CEDU, realizzando una penalizzazione economica discriminatoria sul lavoratore, nonché con le previsioni della Carta dei Diritti Fondamentali dell’unione Europea, che vietano qualsiasi forma di discriminazione e che garantiscono il diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice artt. 21 e 47 CDFUE).

La Consulta osserva, conformemente alla sua giurisprudenza[iv], però, che il Giudice è tenuto a condannare alle spese di lite, la parte che, pur vittoriosa, abbia rifiutato “senza giustificato motivo nel corso del processo una proposta conciliativa identica o addirittura più soddisfacente rispetto alla misura nella quale la domanda della medesima parte abbia poi trovato accoglimento nella decisione conclusiva del giudizio”. Il processo non può protrarsi inutilmente per motivi infondati e aumentare gli oneri a carico della società. Tale proposta, come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito, è, logicamente, quella della controparte (in questa fattispecie quella datoriale), (cfr. Cassazione, SS.UU., Sent.  n. 21109/2017).

Successivamente, il legislatore ha previsto la possibilità della proposta conciliativa o transattiva formulata dal giudice, introducendo l’art. 185-bis cod. proc. civ.

La disposizione dell’art. 420 cpc, si colloca nell’ambito di un più ampio disegno riformatore, nel quale il legislatore ha contestualmente eliminato l’obbligo del previo tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, rendendo lo stesso solo facoltativo. «Di qui, osserva la Corte Costituzionale, l’esigenza di attribuire maggior “peso” alla proposta transattiva o conciliativa effettuata dall’autorità giudiziaria all’udienza di discussione ove sia fallito il tentativo di conciliazione svolto in tale sede, prevedendo conseguenze correlate al rifiuto della stessa senza giustificato motivo».

Le questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. sono per la Consulta inammissibili, invece le questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. – pur ammissibili, avendo il giudice rimettente motivato puntualmente la loro rilevanza e non manifesta infondatezza – non sono fondate.

            Invero, come di recente sottolineato da questa Corte, la qualità di «lavoratore» della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.)  per derogare al generale canone di par condicio processuale espresso dal secondo comma dell’art. 111 Cost., e ciò vieppiù tenendo conto della circostanza che la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte «debole» trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (sentenza n. 77 del 2018).

Conclusione

Anche il lavoratore che agisce per un diritto riconosciuto può essere condannato al rimborso delle spese. Il principio della soccombenza è rigoroso per la deflazione del contenzioso e per il favor  del legislatore verso la mediazione.

Come ha fatto notare l’Avvocatura dello Stato, intervenuta nel giudizio di legittimità costituzionale[v], “analoga disciplina – derogatoria rispetto alla regola generale della sopportazione delle spese da parte del soccombente – è contemplata, in tema di mediazione, dall’art. 13 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali)”.

Nelle controversie di lavoro, come nella mediazione, la conciliazione mira, infatti, ad assicurare una soluzione delle stesse evitando i costi relativi ai tempi lunghi ed ai rischi del processo, anche nella consapevolezza di come l’accesso alla Giustizia non sia una risorsa illimitata (Corte Cost. sent. N.77/2017)

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Note

[i] È soccombente colui che ha ottenuto dalla sentenza una tutela inferiore rispetto alle richieste formulate nelle conclusioni.

[ii] Quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

[iii] Art. 420. (Udienza di discussione della causa): Nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio. Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice (…).

[iv] Sent. n. 77/2018.

[v]  Memoria del 17 luglio 2020.

Dott.ssa Bianchi Laura

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