La semilibertà

Redazione 11/04/19
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La semilibertà, disciplinata dagli artt. 48-50 o.p., consiste nella concessione al condannato e all’internato della possibilità di trascorrere parte della giornata fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili per il reinserimento sociale.

Proprio tale contenuto positivo della misura, ovvero gli obblighi di partecipazione alle attività menzionate, sottolinea la funzione risocializzante e rieducativa della semilibertà. La misura è, perciò, caratterizzata dall’accostamento di un periodo di detenzione a uno di attività libera nell’arco della giornata. Solo impropriamente può parlarsi di misura alternativa alla detenzione, costituendo – in effetti – una particolare modalità di esecuzione della pena detentiva. L’art. 50 o.p. prevede tre distinte ipotesi di semilibertà: il primo comma disciplina la semilibertà interamente sostitutiva di pene detentive brevi (arresto o reclusione non superiore a sei mesi), tesa ed evitare gli effetti desocializzanti delle carcerazioni brevi.

La seconda ipotesi riguarda pene detentive medio-lunghe, con funzione di misura preparatoria al ritorno in libertà. In questo caso, la semilibertà si configura come strumento del trattamento risocializzativo progressivo, da applicare “in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società” (art. 50, comma 4 o.p.). Ai fini dell’ammissione alla semilibertà, è necessario che il condannato abbia scontato almeno la metà della pena, soglia che è elevata ai due terzi se si tratta di condannati per delitti di cui ai commi 1, 1 ter e 1 quater dell’art. 4 bis o.p. L’ergastolano può fare istanza di ammissione dopo avere espiato almeno venti anni di pena. Per gli internati non sono previsti limiti di esecuzione delle misure di sicurezza, potendo essere ammessi alla semilibertà in ogni tempo. La terza ipotesi di semilibertà è quella “surrogatoria” dell’affidamento in prova al servizio sociale quando manchino i presupposti per la misura alternativa più ampia, in caso di condanna a pena detentiva fino a tre anni, anche prima dell’espiazione di metà pena. La semilibertà è revocata se il soggetto si rivela inidoneo al trattamento. Se il semilibero si allontana dall’istituto per non più di dodici ore, è proposto al Tribunale di Sorveglianza per la revoca della misura. Se si allontana per più di dodici ore, incorre nel delitto di evasione.

Sospensione dell’esecuzione della pena finalizzata all’applicazione delle misure alternative

Le misure alternative sono concesse su richiesta del condannato e non d’ufficio. Per ovviare a possibili inconvenienti, l’art. 656 c.p.p. prevede che il pubblico ministero sospenda l’esecuzione delle pene detentive, anche se residue, contenute entro i limiti di concedibilità degli strumenti alternativi e disponga la notifica dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione al condannato e al difensore, con avviso della facoltà di presentare, nel termine perentorio di trenta giorni, istanza adeguatamente documentata per la concessione dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare, della semilibertà, dell’affidamento terapeutico o della sospensione dell’esecuzione per i reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza. A seguito dell’istanza, il pubblico ministero è tenuto a trasmettere gli atti al Tribunale di Sorveglianza per la decisione sul merito. La sospensione dell’esecuzione della pena detentiva non può essere disposta in determinate ipotesi, elencate nel comma 9 dell’articolo 656 c.p.p:

A) nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni;

B) nei confronti dei condannati per i delitti di cui agli artt. 423 bis, 572, secondo comma, 612 bis, terzo comma, 624 bis del codice penale, limitatamente all’ipotesi di furto in abitazione. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 125 del 1° giugno 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che impedisce la sospensione dell’esecuzione nei confronti delle persone condannate per il delitto di furto con strappo;

C) nei confronti di coloro che, nel momento in cui la sentenza diventa definitiva, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna da eseguire. Per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 90 del 28 aprile 2017, le preclusioni indicate alle lettere a) e b) non si applicano ai minorenni condannati per i delitti ivi elencati. dette preclusioni non operano nemmeno per coloro che si trovino agli arresti domiciliari c.d. “terapeutici” ai sensi dell’art. 89, d.P.R. 309/1990. Se ricorrono le condizioni per sospendere la pena ai sensi dell’art. 656, comma 5 c.p.p. e il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, questi permane nello stato detentivo nel quale si trova sino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza.

Il presente contributo è tratto da

Conclusioni critiche

Le misure alternative, se per un verso segnano una tappa del processo evolutivo del sistema penale, per l’altro sono un sintomo della sua crisi e delle sue ambiguità. Resta, infatti, ferma la premessa ideologica della centralità della pena detentiva, anche quando il fatto penalmente rilevante potrebbe venire sanzionato in altro modo; i principi di sussidiarietà, offensività e proporzione, che consentono di individuare la pena detentiva come extrema ratio, non sempre sono stati presi a modello nelle scelte di politica criminale. Verrebbe addirittura meno la necessità pratica di misure alternative qualora fosse previsto e potenziato per la criminalità minore un sistema di sanzioni sostitutive della detenzione, applicate dal giudice della cognizione. Un ordinamento come l’attuale, caratterizzato da una miriade di fattispecie penali, gravato da limiti edittali di pena sproporzionati verso l’alto, necessita di indefettibili correttivi in fase esecutiva, col rischio che le misure alternative vengano concepite ed applicate in chiave clemenziale, anziché utilizzate con finalità di prevenzione speciale. La tendenza alla fuga dalle pene detentive, che ha caratterizzato il sistema italiano nel periodo della riforma dell’ordinamento penitenziario, si è tradotta in una politica e in una prassi di indulgenza, anziché nell’apparente, quanto sperata, politica criminale tendente al reinserimento del reo mediante le misura alternative.

Peraltro il continuo intervento modificatorio del legislatore sulla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario ha privato le singole misure della loro originaria finalità e disatteso le singole peculiarità funzionali, prevedendo una serie sempre più numerosa di eccezioni per tutte le misure (peraltro giustificata da evidenti e condivisibili ragioni di allarme sociale), ed introducendo altrettanto eccezionali agevolazioni di segno opposto per l’accesso alle misure, ispirate da una esclusiva ragione premiale. Motivo per cui la ricostruzione delle finalità delle misure alternative risulta piuttosto complessa e poco organica. Sotto il profilo concreto, allo stato attuale della legislazione l’esecuzione penitenziaria non costituisce più il fulcro dell’esecuzione penale. La legge n. 165/1998, in particolare con la previsione dell’art. 656 c.p.p. e l’automatica sospensione delle pene detentive potenzialmente eseguibili in regime di misura alternativa, costituisce il punto di partenza verso una nuova concezione della fase dell’esecuzione, con l’obbligo di previa verifica della possibilità di applicare sanzioni non carcerarie al condannato.

L’esecuzione penitenziaria viene applicata solo ove una misura alternativa non possa trovare applicazione. da segnalare anche la l. 26 novembre 2010, n. 199 (c.d. “sfollacarceri”), che introduce nuove disposizioni per l’esecuzione delle pene detentive non superiori a dodici mesi, affiancandosi alle diverse modalità di esecuzione delle pene detentive brevi. In particolare, la legge 199/2010 – entrata a regime dal 16 dicembre dello stesso anno fino alla “completa attuazione del piano straordinario penitenziario nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2013” (art. 1.1) – prevede che, qualora la pena detentiva da eseguire non sia superiore a dodici mesi, questa possa essere scontata in luoghi esterni al carcere.

In questi casi, il pubblico ministero sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza affinché disponga che la pena venga eseguita presso il domicilio. Analogamente potrà essere disposta questa nuova “detenzione domiciliare” anche nel caso in cui il condannato sia già detenuto e la pena detentiva non superi i dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena. Una disposizione particolare è prevista nel caso di condannato tossicodipendente o alcooldipendente sottoposto ad un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi. In questo caso, la pena potrà essere eseguita presso una struttura sanitaria pubblica o una struttura privata accreditata. Con il d.l. 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti in materia di sovraffollamento carcerario), approvato in via definitiva il 14 febbraio 2012, è stato disposto l’innalzamento da 12 a 18 mesi del periodo residuo di pena detentiva che è possibile scontare nella propria abitazione.

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