La richiesta di rateizzazione del debito tributario e l’importo oggetto di sequestro preventivo

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La sentenza in rassegna aggiunge un ulteriore tassello all’orientamento consolidato della Suprema Corte in tema di importo del sequestro preventivo finalizzato alla confisca nei reati tributari, che non trova mutamento alla luce della novella legislativa di cui all’art. 12 bis D. Lgs. 74/2000.

Il principale punto d’interesse della pronuncia attiene, infatti, alle conseguenze che l’ordinamento penale riconosce alla richiesta di rateizzazione del debito tributario.

 

La vicenda e la pronuncia

L’indagato adiva la Suprema Corte per vedere annullare un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Santa Maria Capua Vetere che, in accoglimento dell’appello cautelare del P.M., disponeva il sequestro di un’ingente somma di denaro nei confronti di una società e, in via subordinata, la confisca di valore della medesima somma nei confronti degli amministratori.

La decisione di merito, secondo la difesa, sarebbe stata interessata da molteplici profili di violazione di legge, riguardanti tanto l’irretroattività della legge penale deteriore, quanto la configurabilità obiettiva del reato di omessa dichiarazione e, infine, il quantum del sequestro preventivo.

Proprio su questa terza doglianza occorre soffermare l’attenzione.

L’indagato, per quanto concerne l’anno d’imposta 2009, aveva provveduto a definire la propria posizione fiscale mediante la procedura di accertamento con adesione ai sensi del D.Lgs. 218/1997.

Dopo la definizione concordata della pretesa erariale, il contribuente proponeva istanza di dilazione di pagamento in 12 rate, versando, già prima della richiesta di sequestro preventivo, una significativa cifra al fisco.

La terza sezione penale della Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso dell’indagato ed annullando con rinvio l’ordinanza cautelare, richiama i propri precedenti sul punto affermando che il raggiungimento di un accordo tra fisco e contribuente non esplica i suoi effetti unicamente in ambito tributario, ma anche penale, incidendo sul quantum del profitto confiscabile[1].

Tale principio era già stato fatto proprio da numerose pronunce della medesima sezione e costituisce uno dei principali punti di contatto tra piano amministrativo – tributario e penale che, tendenzialmente, mantengono ben separate le proprie identità e risultanze[2].

Per quanto attiene alla somma oggetto di provvedimento ablativo, secondo la Cassazione, occorre avere ben riguardo a quanto già versato all’erario, onde evitare di dar luogo ad una «duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto».

Tale consolidato concetto è stato, richiamato e rafforzato dalla Corte che ha annullato l’ordinanza cautelare rinviando al Tribunale di primo grado per la determinazione della somma da sottoporre a sequestro, scomputando quanto già pagato all’erario.

La terza sezione penale, in un obiter dictum, dà conto di un indirizzo giurisprudenziale ulteriore, formatosi dopo l’entrata in vigore della riforma dei reati tributari ad opera del D.Lgs. 158/2015, rationae temporis non applicabile al caso di specie. La novella ha arricchito la legge speciale sui reati tributari (D.Lgs. 74/2000) di una previsione in tema di sequestro, l’art. 12 bis, che espressamente sancisce «la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro», introducendo, in apparenza, una preclusione alla confisca portata dalla semplice istanza di rateazione.

La pronuncia in rassegna, richiamando la sentenza 14 gennaio 2016 n. 5728, resa a seguito della modifica, rafforza ulteriormente l’indirizzo giurisprudenziale precedente. Secondo il citato precedente, infatti, la mera presentazione di una istanza di rateizzazione non costituisce, neppure ai sensi dell’art. 12 bis D.Lgs. 74/2000, condizione ostativa al provvedimento di sequestro preventivo, non essendovi coincidenza tra rateizzazione e adempimento: sostanzialmente se l’obiettivo è azzerare il profitto del reato, non può prescindersi dal pagamento (intero o parziale) del debito tributario.

Ad avviso della Corte, sembra di capire, la modifica legislativa avrebbe recepito e positivizzato quanto già acquisito in sede interpretativa, limitandosi, per altro, a porre un limite alla sola confisca (obbligatoria) e non già al sequestro. Di talché, l’indirizzo della Cassazione, secondo la terza sezione, non ha ragione di mutare ed anzi troverebbe ulteriore conferma dopo la novella legislativa. L’arresto in esame, pertanto, richiama ed applica al caso concreto il principio secondo cui il sequestro dev’essere ridotto proporzionalmente all’importo già pagato.

 

La lettura critica

Una differente interpretazione della novella legislativa, pur non applicandosi al casus decisus per ragioni temporali, sarebbe stata possibile ed è stata compiutamente analizzata dalla dottrina: il giudice nel pronunziare la condanna non dovrebbe disporre la confisca di quanto il contribuente si sia impegnato a corrispondere, salvo poi intervenire in sede esecutiva mediante un provvedimento ablativo in caso di mancato adempimento[3]. Stando così le cose, non era per nulla scontato che la Cassazione, dopo la modifica legislativa, confermasse il precedente (e quindi ancora attuale) orientamento; il richiamo giurisprudenziale che la pronuncia oggi annotata propone in obiter, dunque, è nettamente opportuno.

Ad avviso di chi scrive, inoltre, si rende d’obbligo una riflessione sulla nozione di profitto sequestrabile, in riferimento alla quale la Suprema Corte non pare particolarmente interessata. Secondo quanto costantemente affermato dalla Cassazione il profitto del reato tributario può essere costituito anche dal risparmio d’imposta; tale somma, solitamente, viene richiamata a tassazione da un atto tributario (avviso di accertamento o di liquidazione) che impone anche una sanzione amministrativa. Vi è da domandarsi se tale sanzione amministrativa rientri nella nozione di profitto del reato, sottoponibile a sequestro preventivo, finalizzato alla confisca. La risposta parrebbe essere negativa atteso che la sanzione non sembra costituire un’utilità derivante dal reato, ma, al più, una mera conseguenza della violazione delle disposizioni tributarie da parte del soggetto agente.

Pertanto, anche le somme dovute a titolo di sanzione potrebbero essere scomputate dalla somma sequestranda a titolo preventivo, fermo restando il diritto dell’amministrazione finanziaria di procedere alle forme di tutela patrimoniale consentite dall’ordinamento.

 


[1] Gli “accordi con il fisco” possono scaturire dall’accertamento con adesione, dalla procedura di reclamo – mediazione tributaria e dalla conciliazione (stragiudiziale e giudiziale), oltre, ad avviso di chi scrive, dalla procedura di transazione fiscale.

[2] In proposito la giurisprudenza di legittimità ha precisato in tempi recenti che proprio il raggiungimento di un accordo di adesione non costituisca una preclusione per l’accertamento della configurabilità del reato tributario da parte del giudice penale (Cass. Pen., sez. III, 27 marzo 2013, n. 28937 in Diritto e Giustizia online  2013, 9 luglio)

[3] Per tale interessate tesi vedasi Finocchiario S., L’impegno a pagare il debito tributario e suoi effetti su confisca e sequestro, in Dir. Pen. Cont., 4/2015, pag. 170.

Sentenza collegata

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Giulio Magliano

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