La responsabilità penale dei magistrati

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Nell’ordinamento giuridico italiano, a differenza di quello che avviene in altre esperienze straniere, come, ad esempio, in Germania e in Francia dove sono disciplinati, rispettivamente, i reati di corruzione e di rifiuto del magistrato di rendere giustizia, non è prevista una disciplina specifica sulla responsabilità penale dei magistrati.
In relazione all’acceso dibattito sulla responsabilità civile dei giudici, disciplinata dalla legge n. 117/1988 (“legge Vassalli”) e delle modifiche introdotte alla responsabilità disciplinare dei magistrati, da diverse parti si invoca l’introduzione di un sistema unitario, in virtù dell’unitarietà del ruolo della stessa funzione giurisdizionale.

Un efficace sistema di responsabilità, più rigoroso e caratterizzato da fattispecie delimitate che, nonostante tengano conto delle differenze che caratterizzano le diverse forme di responsabilità (civile, penale, disciplinare, contabile e altro) possa assicurare il necessario bilanciamento della garanzia di giustizia e dell’indipendenza del potere giurisdizionale.

Sul piano sostanziale e processuale, al magistrato, in relazione ai reati dei quali possa essere chiamato a rispondere, si applicano le norme applicabili a qualunque altro cittadino, vale a dire quelle sulla qualità di pubblico ufficiale, per le fattispecie delittuose compiute nell’esercizio delle funzioni.
L’ordinamento non prevede né reati “propri”, né procedimenti speciali da seguire per il perseguimento delle fattispecie di reato che s rivolgano ai giudici, fatta salva l’ipotesi, sul piano processuale, disciplinata dall’articolo 11 del codie di procedura penale, la quale, a garanzia dell’imparzialità del giudizio, stabilisce che:

i processi nei quali siano parte i magistrati, che sarebbero di competenza dell’ufficio giudiziario ricompresso nell’ambito del distretto di Corte d’appello dove il magistrato esercita le proprie funzioni, sono affidati al giudice, ugualmente competente per materia, situato nel capoluogo del più vicino distretto di Corte di appello“.

Il magistrato rivestendo la qualità di pubblico ufficiale, potrà essere chiamato a rispondere dei reati relativa a questa qualifica soggettiva nell’esercizio delle funzioni.
Così, potrà integrare il reato di “corruzione in atti giudiziari” ex art. 319-ter del codice penale, il giudice che riceva indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetti la promessa, al fine di favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, attraverso l’omissione o il ritardo di un atto del suo ufficio, ovvero compiendo un atto contrario ai doveri d’ufficio, anche se tale atto in sé e per sé non è illegittimo (Cass. n. 24349/2012).
Analogamente, potrà essere dichiarato responsabile del reato del quale all’articolo 323 del codice penale, (rubricato abuso d’ufficio), il magistrato che, nell’esercizio delle sue funzioni, in violazione di norme di legge o di regolamento oppure omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, procuri, intenzionalmente, a sé o altri un ingiusto vantaggio patrimoniale.

Ai fini dell’integrazione dell’abuso d’ufficio, per la giurisprudenza della Cassazione, “è necessario che sussista la cosiddetta “doppia ingiustizia”, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, perché connotata da violazione di legge, e ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia.

Successivamente è necessaria una duplice distinta di valutazione in proposito, non potendosi fare derivare l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata esistenza dell’illegittimità della condotta”.

In applicazione di questo principio, la Suprema Corte ha affermato la responsabilità a norma dell’articolo 323 del codice penale del magistrato del Pubblico Ministero. il quale, “aggirando il precetto della legge, ha concentrato gli incarichi di consulenza nelle mani di un ristretto gruppo di soggetti i quali avevano, d’altro canto, percepito onorari illegittimi, in violazione del limite normativamente stabilito delle 8 vacazioni giornaliere”.

Il giudice che rifiuta indebitamente un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia, sicurezza e ordine pubblico, igiene e sanità, debba essere compiuto senza ritardo, risponde, inoltre, del reato di “Rifiuto di atti d’ufficio” previsto dall’articolo 328 comma 1 del codice di procedura normale, punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

È punibile, anche con la reclusione sino a un anno o con la multa sino a 1.032 euro, secondo il disposto del comma 2 dell’articolo 328, il giudice che, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse, non compia l’atto del suo ufficio e non risponda per esporre le ragioni del ritardo.

Secondo la Suprema Corte, ai fini dell’integrazione della fattispecie della quale al comma 1 dell’aricolo 328 del codice penale, è sufficiente un’inerzia omissiva, non essendo necessario un rifiuto esplicito.

L’ipotesi della quale al comma due, si integra con l’omissione e la mancata risposta sui motivi della stessa.

Il delitto in esame, può essere integrato anche quando manchi una richiesta o un ordine, nell’ipotesi nella quale il fatto concreto faccia apparire il compimento dell’atto quale necessario o urgente.

Nell’esperienza italiana, uno snodo cruciale del cammino verso la piena consapevolezza del ruolo del giudice nell’ordinamento è stato senz’altro rappresentato dal Convegno dell’Associazione nazionale Magistrati svoltosi a Gardone nel 1965, in occasione del quale, tra gli orientamenti più radicali, si manifestò addirittura l’idea secondo la quale i magistrati avrebbero dovuto essere considerati portatori di un proprio “indirizzo politico”.

                                                                                 

Dott.ssa Concas Alessandra

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