La responsabilità del commercialista per le violazioni commesse nell’attività di consulenza e assistenza professionale

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1. Premessa

Il consulente fiscale – al pari di ogni altro professionista – esercita una professione di natura intellettuale, disciplinata dagli artt. 2222 e ss. c.c..

Dal momento del conferimento dell’incarico si instaura tra il professionista ed il cliente un rapporto che attribuisce al creditore (cliente) la pretesa di esigere lo svolgimento della specifica attività oggetto del contratto. Da ciò deriva che, in termini più generali, il consulente fiscale ha nei confronti del proprio cliente una responsabilità di natura contrattuale[1] che implica, in caso di inadempimento, l’obbligo da parte del consulente di risarcire i danni subìti dal cliente.

Accanto alla disciplina civilistica, peraltro, si colloca anche la normativa di natura più strettamente tributaria – stabilita dal D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472 – la quale prevede l’attribuzione di sanzioni amministrative a carico diretto del professionista che si renda colpevole di violazioni di disposizioni di carattere fiscale.

I diversi principi di riferimento posti alla base delle due diverse tipologie di norme impongono una rappresentazione separata dei profili di responsabilità civile ed amministrativa.

 

2. La responsabilità del professionista.

2.1 Le norme civili.

In base al combinato disposto dell’art. 2222 con l’art. 2230 c.c. si ricava la definizione di ‘prestazione professionale’ che è il contratto che ha ad oggetto una prestazione di natura intellettuale con cui una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.

La dottrina (con l’avallo della Giurisprudenza più autorevole) tradizionalmente distingue le prestazioni contrattuali generalmente intese in ‘obbligazioni di risultato’ ed ‘obbligazioni di mezzi’. Nelle prime il prestatore d’opera si impegna a fornire un risultato specifico ed oggettivamente determinato, mentre nelle seconde questi si impegna semplicemente ad una attività diligente (rectius tecnica) in vista del risultato stesso (che può anche non essere raggiunto)[2]. La diversa natura della prestazione incide sul ‘grado’ di responsabilità (e sull’onere probatorio) che è, evidentemente, maggiore nell’ipotesi di ‘obbligazione di risultato’ nella quale il debitore, per essere considerato adempiente, deve provare l’attuazione completa dell’obbligazione e non solamente la sua diligente esecuzione.

Di regola, l’obbligazione assunta da un professionista intellettuale nell’esercizio della propria attività di consulenza deve qualificarsi come ‘obbligazione di mezzi’ “in quanto, con l’assunzione dell’incarico, il professionista si impegna a prestare l’opera intellettuale solo al fine di raggiungere il risultato sperato ma non a conseguirlo”[3]. Va, peraltro, aggiunto che non si esclude in modo assoluto che possano esservi anche prestazioni professionali aventi le caratteristiche di ‘obbligazioni di risultato’, come nell’ipotesi in cui il professionista prometta un proprio ‘opus’ (ad esempio una protesi dentaria o un progetto di ingegneria)[4].

Nel caso del consulente fiscale, l’impegno a predisporre una dichiarazione dei redditi, ad esempio, configura una ‘obbligazione di mezzi’ e, quindi, l’inadempimento del professionista dovrà essere desunto non dal mancato raggiungimento del risultato utile (cioè evitare accertamenti) ma sarà valutato alla stregua del dovere di diligenza. Questo assunto, naturalmente, trova un’eccezione nell’attività di trasmissione telematica della dichiarazione che, per i suoi caratteri meramente materiali, deve essere ritenuta espressiva piuttosto di ‘obbligazione di risultato’.

Il principio secondo cui la prestazione del professionista è una ‘obbligazione di mezzi’ (con rilevanza del c.d. ‘elemento soggettivo’) trova un riscontro – oltre che in dottrina e giurisprudenza – anche sul piano più strettamente normativo. Sotto tale profilo, le disposizioni ‘sensibili’ per l’attività professionale sono rispettivamente l’art. 1176, comma 2 c.c. e l’art. 2236 c.c..

 

2.1.2   L’art. 1176, comma 2, codice civile. La diligenza professionale.

L’art. 1176, comma 2, c.c. – rubricato ‘diligenza nell’adempimento’ – stabilisce che “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

Questa norma fornisce le caratteristiche dell’attività professionale la quale deve sempre essere improntata al massimo scrupolo. Infatti – rispetto all’ordinaria ‘diligenza del buon padre di famiglia’ ex art. 1176, comma 1, c.c. – la disposizione in esame indica un metro di diligenza più severo, rappresentato dall’applicazione delle regole tecniche elaborate da una determinata disciplina ed atte all’esecuzione dell’obbligo (c.d. ‘perizia tecnica’). Di conseguenza, nella prospettiva di una rigorosa identificazione della ‘perizia tecnica’, il giudizio di responsabilità si risolve nella valutazione dell’imperizia; “vale a dire nella verifica circa la corrispondenza con il comportamento che si sarebbe potuto pretendere dal ‘buon professionista’, esercente la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale”[5].

Detto principio viene ben focalizzato anche in una sentenza di merito di alcuni anni fa nella quale si specifica che “la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione medie” (Tribunale di Roma, 2 giugno 2003)[6].

Alla luce di ciò, quindi, ove il professionista, nello svolgimento della attività, non ponga la diligenza media, la sua responsabilità verso il cliente è disciplinata dai comuni principi della responsabilità contrattuale. Perciò il professionista risponde, oltre che per il dolo, anche per colpa lieve[7].

 

2.1.3   L’art. 2236, codice civile. Attenuazione della responsabilità professionale.

Chiarito il metro di responsabilità generale a cui deve sempre richiamarsi il professionista nell’esercizio della sua attività, va, peraltro, aggiunto che l’art. 2236 c.c. – con una sorta di delimitazione del principio fissato dalla prima norma – precisa: “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

Per quanto attiene al senso della citata disposizione, va evidenziato che essa deve essere letta in rapporto con l’art. 1176, comma 2, c.c.. In tal senso, l’art. 2236 c.c. costituisce non una deroga ma una precisazione aggiuntiva rispetto al parametro comportamentale ordinario del professionista. Ciò significa che, ogni volta, il giudice dovrà innanzitutto verificare il rispetto della prudenza e diligenza (1176, comma 2 c.c.) e, poi – tenendo conto dei problemi tecnici affrontati dal professionista nella fattispecie concreta –, in caso di ‘speciale difficoltà’ provata, appurare l’esistenza di dolo o colpa grave[8].

Da quanto sopra, quindi, si ricava che comportamenti improntati ad incuria o imprudenza sono, comunque, fonte di responsabilità per il professionista. In tal caso il giudice si arresterà al ‘primo livello’ di verifica ex art. 1176, comma 2, c.c. (cioè esistenza di dolo o colpa lieve), potendo già desumere da ciò – se l’attività è particolarmente delicata – anche l’esistenza di una responsabilità maggiore. Pertanto, il professionista che abbia assunto una prestazione esorbitante le sue possibilità risponderà per responsabilità aggravata dal mancato uso dei criteri di diligenza e di prudenza determinativi dell’assunzione dell’obbligazione[9].

In merito al significato da attribuire alla ‘speciale difficoltà’ di cui all’art. 2236 c.c., la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare, in termini generali, che essa ricorre “soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà trascendenti la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati” (Cass. Civ., Sez. III, 2 febbraio 2005, n. 2042)[10].

Con riferimento più specifico all’ambito tecnico-legale (nel quale può essere fatta rientrare anche l’ipotesi di redazione della dichiarazione dei redditi), la Cassazione ha ritenuto configurabile la sussistenza di ‘problemi tecnici di speciale difficoltà’ “nei casi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili” (Cass. Civ., Sez. III, 4 dicembre 1990, n. 11612).

In altre parole, le fattispecie comprese sono quelle per cui l’impegno intellettuale richiesto è superiore a quello professionale medio ed il professionista deve impegnarsi in attività di carattere più elevato. Pertanto, non si ha un problema di ‘speciale difficoltà’ quando si devono applicare le ordinarie regole professionali.

 

2.1.4   La responsabilità civile.

Come precisato in precedenza, la responsabilità del professionista per la sua attività è tendenzialmente di natura contrattuale. Ciò comporta l’applicazione del regime specifico di responsabilità previsto per le obbligazioni contrattuali dall’art. 1218 c.c. in base al quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Tale regime implica delle peculiarità – rispetto all’ipotesi di illecito extracontrattuale ex art. 2043 c.c. – sotto il profilo dell’ambito del danno risarcibile e del termine di azione.

Per quanto riguarda l’ambito del danno risarcibile, se il professionista (inadempiente) ha agito con dolo, egli risponde tanto dei danni prevedibili quanto dei danni non prevedibili; se, invece, l’inadempimento è stato colposo, il professionista è tenuto a risarcire solo i danni che potevano prevedersi al momento nel quale è sorta l’obbligazione (art. 1225 c.c.)[11]. Il danno oggetto di risarcimento è tendenzialmente solo quello patrimoniale. D’altro canto, in base alla nuova interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. sostenuta recentemente dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non si può escludere ‘a priori’ la risarcibilità anche del danno non patrimoniale[12].

Con riferimento, poi, al termine entro cui agire in giudizio per il risarcimento, va precisato che, nel caso di responsabilità contrattuale – come quella derivante dall’attività del professionista consulente tributario – l’azione si prescrive, per espressa previsione di legge, in dieci anni (art. 2946 c.c.)[13].

 

2.1.5   L’onere della prova in giudizio.

Diverso è il discorso in merito all’onere della prova in giudizio.

Infatti, nell’ipotesi ordinaria di responsabilità contrattuale, il creditore è tenuto a dare prova: del fatto storico da cui è sorta l’obbligazione, dell’entità del danno e del nesso di causalità tra il danno subìto e l’inadempimento, con esclusione della sua ‘caratterizzazione psicologica’ (colpa o dolo). “Pertanto, spetta al debitore che intende sottrarsi all’obbligo risarcitorio di offrire la prova liberatoria circa l’impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da una causa a lui non imputabile”[14].

Nel caso, invece, di responsabilità professionale – che è fondata su una maggiore rilevanza dell’elemento soggettivo – la posizione del creditore (alias cliente) è più onerosa giacché questi, oltre a provare gli elementi ‘ordinari’ sopra descritti, deve dare la prova anche della negligenza del debitore (alias professionista)[15].

In termini pratici, in una fattispecie di azione di risarcimento per responsabilità professionale, il cliente che assuma un danno dovrà provare: la difettosa o inadeguata prestazione professionale (per negligenza, imperizia o dolo), l’esistenza del danno ed il rapporto di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione. Il professionista, dal canto suo, potrà contestare la richiesta del cliente provando la sussistenza delle particolari difficoltà tecniche ex art. 2236 c.c. che non gli hanno consentito – malgrado la scrupolosa attenzione di adempiere in modo perfetto la propria obbligazione[16].

 

2.2    Le norme sanzionatorie amministrative.

Il professionista che svolga anche attività di consulenza tributaria può essere esposto – oltre all’azione di risarcimento dei danni patrimoniali per violazione dell’obbligo di diligenza – anche all’applicazione diretta delle sanzioni amministrative tributarie allorquando la sua azione abbia realizzato o favorito il verificarsi della condotta punibile del cliente.

Infatti, il D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472 – contenente le ‘disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie’ – ha attribuito al sistema sanzionatorio tributario non penale una dimensione coerente con i principi costituzionali di legalità, imputabilità, adeguatezza, proporzionalità e soprattutto personalità della sanzione. Di conseguenza, in ragione della considerazione che ‘dietro’ la persona fisica o l’ente possono esservi altri soggetti che effettivamente determinano i comportamenti del contribuente, sono state prefigurate specifiche norme che sanzionano personalmente il soggetto autore della condotta illecita.

La responsabilità del professionista ‘consulente fiscale’ può delinearsi in tre diversi modi:

responsabilità diretta esclusiva;

– responsabilità esclusiva in luogo dell’esecutore della violazione;

– responsabilità in concorso con altri.

La ‘responsabilità diretta esclusiva’ è espressa innanzitutto dall’art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 472/97 in base al quale “la sanzione è riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione”, vale a dire al soggetto che ha posto in essere il comportamento trasgressivo rispetto all’obbligo tributario[17]. Il concetto è rafforzato nell’art. 5, comma 1 del D.Lgs. n. 472/97 il quale specifica che “nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”[18]. Pertanto, se l’azione è stata commessa dal consulente tributario sarà questi a rispondere sul piano sanzionatorio[19].

Accanto a tale responsabilità, è prevista anche la ‘responsabilità esclusiva in luogo dell’esecutore della violazione’ rispetto alla quale due sono le disposizioni che assumono importanza. L’art. 10 del D.Lgs. n. 472/97 precisa che “chi, con violenza o minaccia o inducendo altri in errore incolpevole ovvero avvalendosi di persona incapace, anche in via transitoria, di intendere e di volere, determina la commissione di una violazione ne risponde in luogo del suo autore materiale[20]. Inoltre, l’art. 6, comma 3, D.Lgs. n. 472/97, aggiunge che “il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”[21].

L’art. 9 del D.Lgs. n. 472/97 configura, infine, la ‘responsabilità in concorso con altri’, stabilendo che “quando più persone concorrono in una violazione, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per questa disposta”. Pertanto, alla luce di tale disposizione, se la violazione fiscale è dipesa dall’attività del consulente tributario, quest’ultimo risponderà dell’illecito insieme al proprio cliente, dipendendo la violazione dalla attività concorsuale di entrambi.

Il detto sistema di responsabilità – composto da norme autonome che, nelle varie circostanze, possono, eventualmente anche intrecciarsi – prevede, comunque, anche delle ‘disposizioni di chiusura’ che hanno la funzione fondamentale di tutelare l’Amministrazione finanziaria nella riscossione delle somme dovute a titolo di sanzione.

In particolare, l’art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 472/97 afferma che “fino a prova contraria, si presume autore della violazione chi ha sottoscritto ovvero compiuto gli atti illegittimi”. Inoltre, la medesima norma, al comma 1 – sempre a garanzia dell’erario – enuncia il principio della ‘solidarietà’ del soggetto rappresentato (persona fisica o ente) con l’autore della violazione per il pagamento della sanzione irrogata[22].

Appare evidente che sono proprio queste le norme che, di fatto, vengono applicate sistematicamente dagli uffici finanziari i quali – anche per evitare lunghi e dispendiosi accertamenti – tendono a rivolgersi direttamente al contribuente, facendo ricorso al principio del ‘responsabile apparente’ di cui all’art. 11, comma 2 del D.Lgs. n. 472/97.

Pertanto – salvo che il contribuente, già in occasione della verifica fiscale, appunti l’attenzione dei verificatori sulla persona del consulente tributario (naturalmente producendo elementi probatori) – nella quasi totalità dei casi, l’ufficio finanziario notificherà le contestazioni solo al contribuente. D’altro canto, ciò non impedirà a quest’ultimo di invocare, nel giudizio tributario di impugnazione dell’atto impositivo, la disapplicazione (parziale o totale) nei suoi confronti delle sanzioni amministrative, affermando (e provando) la responsabilità concorsuale o esclusiva del consulente.

Con riferimento espresso alle violazioni che si traducono in ‘atti sottoscritti’ (come, per esempio, gli illeciti attinenti alla dichiarazione annuale), potrebbe essere configurata l’ipotesi di responsabilità diretta esclusiva del consulente qualora colui che abbia apposto la sottoscrizione (cliente) dia prova che la competenza inerente al compimento dell’attività illegittima non gli apparteneva, essendo stata delegata al professionista.[23]


2.2.1   L’illecito amministrativo commesso dalla persona giuridica. 

Il principio della ‘personalità della sanzione’ – espresso nell’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 472/97 e su cui è stato imperniato l’intero sistema sanzionatorio amministrativo – ha subito una consistente modifica per effetto di quanto disposto dall’art. 7 del D.L. 30 settembre 2003 n. 269 il quale è stato introdotto in attuazione del più ampio programma di riforma fiscale previsto dalla Legge 7 aprile 2003 n. 80[24].

L’art. 7 comma 1 del D.L. n. 269/2003, infatti, prevede che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”. Il successivo comma 3 della medesima disposizione aggiunge che “nei casi di cui al presente articolo, le disposizioni del D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472 si applicano in quanto compatibili”.

In conseguenza di questo intervento normativo, dunque, il ‘principio di responsabilità personale’ subisce una limitazione giacché il legislatore ha posto una linea di demarcazione tra comportamenti illeciti posti in essere da società o enti dotati di personalità giuridica (associazioni riconosciute, fondazioni, società di capitali) e comportamenti illeciti posti da altri soggetti (persone fisiche, associazioni non riconosciute e società di persone), creando, così, un ‘doppio binario’ sanzionatorio per effetto del quale, qualora la violazione tributaria sia commessa da una persona giuridica, nessuna sanzione potrà essere elevata a soggetti terzi coinvolti, con conseguente disapplicazione di tutte le disposizioni sanzionatorie – sopra commentate – che, invece, esaltano l’elemento personalistico.

Poiché per le violazioni commesse nell’ambito di persone giuridiche la responsabilità per sanzioni è “esclusivamente a carico della persona giuridica”, deve ritenersi, quindi, che siano sollevati da qualsiasi responsabilità non solo i dipendenti, amministratori e loro concorrenti nella violazione amministrativa, ma anche i consulenti per le violazioni agli stessi addebitabili[25]. Infatti – come affermato da molti commentatori – la previsione di applicabilità delle sanzioni ‘in via esclusiva’ alla persona giuridica, con espunzione di tutte le altre disposizioni che risultano in contrasto con il principio enunciato, determina l’inapplicabilità della sanzione nei confronti di tutti i soggetti terzi – interni o esterni alla persona giuridica -, inclusi i professionisti consulenti[26].

 

3. La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III, 26 aprile 2010, n. 9916. Osservazioni.

Chiarito il quadro normativo di riferimento sulla responsabilità civile ed amministrativa del professionista, a questo punto la nostra attenzione si appunta sulla recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III, del 26 aprile 2010, n. 9916 che ha suscitato tra gli esperti vivo interesse per le conseguenze che da essa potrebbero derivare a carico del consulente.

La questione sottoposta all’attenzione della Corte riguardava un contribuente che aveva avanzato domanda di risarcimento danni nei confronti del proprio commercialista giacché quest’ultimo aveva esposto in dichiarazione costi non documentati o non di competenza ed aveva operato una detrazione Ilor oltre l’ammontare massimo consentito nell’anno di imposta. Da tali errori era derivata una verifica fiscale che aveva comportato l’irrogazione di sanzioni verso il contribuente.

A sua discolpa, il professionista aveva adombrato l’esistenza di un presunto accordo con il cliente, senza, però, fornire alcuna prova.

Chiamata a pronunciarsi su ricorso del commercialista, rimasto soccombente in appello, la terza sezione civile della Suprema Corte ha confermato la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali a carico del consulente osservando che è “preciso obbligo di diligenza del professionista non appostare costi privi di documentazione o non inerenti all'anno della dichiarazione”, con la conseguenza che il commercialista “avrebbe dovuto escludere i costi dalla dichiarazione dei redditi, qualora il cliente non avesse provveduto a fornire la relativa documentazione”. 
Come ha rilevato più di un esperto[27], la conclusione a cui perviene la Cassazione è quantomeno discutibile. Infatti, secondo i Giudici di Piazza Cavour, pur in mancanza della dimostrazione dell’esistenza di una condotta colpevole – che, come abbiamo detto in precedenza, è requisito fondamentale per la richiesta di risarcimento e di cui è indiscutibilmente onerato il cliente che afferma di aver subìto un danno -, il professionista è comunque tenuto a risarcire i danni lamentati dal contribuente giacché è suo dovere deontologico svolgere in modo scrupoloso la propria attività, verificando materialmente l’esistenza delle informazioni fornite dal cliente. 
In tal modo, oltre ad essere disapplicati i principi generali in tema di onere della prova per il risarcimento danni, viene attribuita rilevanza civilistica (e peraltro in modo oggettivo) alle regole deontologiche la cui violazione produrrebbe, al massimo, conseguenze disciplinari. Inoltre, come se non bastasse, in base al principio enunciato nella sentenza n. 9916/2010, il commercialista viene anche onerato di una attività di ‘vigilanza’ per conto del fisco che, in realtà, esula dalle sue funzioni e che è configurabile solo ed esclusivamente nel caso di apposizione del c.d. ‘visto pesante’[28] o del c.d. ‘visto di conformità’[29] i quali effettivamente comportano da parte del professionista l’assunzione di responsabilità sulla verità delle informazioni riportate in dichiarazione con obbligo di pagamento delle sanzioni amministrative in caso di riscontro di irregolarità fiscali.
Detto ciò ed evidenziati, quindi, i gravi limiti della decisione ‘de qua’, va, peraltro, aggiunto che, nello stesso giorno, la stessa sezione della Corte di Cassazione, in relazione al caso di un commercialista accusato dal proprio cliente di non aver tenuto correttamente la sua contabilità e di non aver impugnato il conseguente accertamento emesso dal competente ufficio finanziario – come da incarico che il cliente sosteneva di aver conferito al professionista –, ha stabilito che “la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita” [30].
Come si può facilmente notare, le conclusioni a cui è pervenuta la Cassazione su una questione sostanzialmente simile a quella in esame sono diverse e molto più aderenti ai principi generali in tema di responsabilità civile del professionista. Ciò porta a concludere che la sentenza n. 9916/2010 sia un decisione isolata e senza seguito, simile a tanti verdetti ‘sui generis’ a cui negli ultimi anni la Suprema Corte ci ha purtroppo abituati.

Ad ogni buon conto, a scopo cautelativo, in attesa di ulteriori pronunce che chiariscano meglio la posizione della Cassazione sulla materia, come qualcuno ha giustamente osservato[31], sarebbe opportuno predisporre degli adeguati accorgimenti professionali, quali la formalizzazione scritta di ogni questione discussa con il cliente ma anche un accurato inquadramento dell’attività da adempiere attraverso la definizione di un mandato professionale il più dettagliato possibile che miri ad evitare situazioni equivoche ed inaspettate attribuzioni di responsabilità a carico del consulente.

 

[1] In linea teorica sarebbe configurabile anche una responsabilità extracontrattuale a carico del professionista che, con il proprio comportamento, vìoli diritti di natura assoluta oppure, più concretamente, operi al di fuori di un incarico contrattuale (M. Zana, Responsabilità del professionista, in Enciclopedia Giuridica, Vol. XXVII, Torino, 1988, pag. 1. In senso conforme: E. Chizzola, Responsabilità civile del professionista, in La Settimana Fiscale, n. 32, 4 settembre 2003, pag. 1).

[2] M. Zana, op.cit., pag. 2. In Giurisprudenza: Cass. Civ., Sez. I, 29 novembre 2004, n. 22487; Cass. Civ., Sez. II, 5 agosto 2002, n. 11728; Cass. Civ., Sez. I, 23 aprile 2002, n. 5928.

[3] Cass. Civ., Sez. II, 8 agosto 2000, n. 10431. In senso conforme: Cass. Civ., Sez. III, 26 febbraio 2002, n. 2836; Cass. Civ., Sez. II, 18 luglio 2002, n. 10454. In dottrina: F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, pag. 1140.

[4] F. Gazzoni, Op. cit. pag. 1141; M. Zana, Op. cit., pag. 2. In senso conforme anche la Giurisprudenza: Cass. Civ., Sez. III, 7 maggio 1988, n. 3389; Cass. Civ., Sez. II, 28 gennaio 1995, n. 1040.

[5] M. Zana, Op. cit, pag. 3. L’Autore, nel tracciare la definizione, cita ampia giurisprudenza di legittimità.

[6] Idem: Cass. Civ, Sez. II, 18 luglio 2002, n. 10454; Cass. Civ., Sez. II, 8 agosto 2000, n. 10431.

[7] Cass. Civ., Sez. II, 2 marzo 2005, n. 4427; Cass. Civ., Sez. III, 4 novembre 2002, n. 15404.

[8] La definizione di ‘colpa grave’ in materia tributaria viene fornita dall’art. 5, comma 3 del D.Lgs. n. 472/97 (v. nota 18).

[9] M. Zana, Op. cit., pag. 4. La Cassazione ha chiarito che “la disposizione dell’art. 2236 cc. – che, nei casi di prestazioni che implichino la soluzione di problemi tecnici particolarmente difficili, limita la responsabilità del professionista ai soli casi di colpa grave – non trova applicazione per i danni ricollegabili a negligenza o imprudenza, dei quali il professionista conseguentemente risponde anche solo per colpa lieve” (Cass. Civ., Sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464. Conforme: Cass. Civ., Sez. III, 10 maggio 2000, n. 5945).

[10] Idem: Cass. Civ., Sez. III, 10 maggio 2000, n. 5945; Cass. Civ., Sez. III, 19 maggio 1999, n. 4852.

[11] F. Gazzoni, Op. cit., pag. 629. Negli stessi termini E. Chizzola, Op. cit., pag. 34.

[12] Le Sezioni Unite della Cassazione, con le sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008, hanno affermato la configurabilità del danno non patrimoniale anche nell’ipotesi di inadempimento di una obbligazione contrattuale, al ricorrere di tre precise condizioni: i) l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; ii) la lesione dell’interesse sia grave; iii) il danno non consista in meri disagi o fastidi.

[13] Nel caso di errata compilazione della dichiarazione dei redditi, si ritiene che questo termine dovrebbe iniziare a decorrere dalla data di presentazione della dichiarazione.

[14] F. Gazzoni, Op. cit., pag. 621.

[15] F. Gazzoni, Op. cit., pag. 621. “Qualora, invece, sia dedotto in obbligazione un ‘opus’ determinato [obbligazione di risultato], essendo il professionista tenuto alla realizzazione del fine ultimo che il cliente intende perseguire, la prova dell’inadempimento sarà limitata alla dimostrazione del mancato conseguimento di tale scopo”, con irrilevanza della componente soggettiva e conseguente applicazione della ‘regola’ ex art. 1218 del codice civile (M. Zana, Op. cit., pag. 5).

[16] In giurisprudenza: Cass. Civ., Sez. II, 22 aprile 2005, n. 8546; Cass. Civ., Sez. III, 4 novembre 2002, n. 15404; Cass. Civ., Sez. II, 23 aprile 2002, n. 5928.

[17] Circolare Ministeriale 10 luglio 1998 n. 180/E, art. 2.

[18] La disposizione, peraltro, viene mitigata – attraverso un espresso richiamo all’art. 2236 c.c. – con l’ulteriore precisazione che “le violazioni commesse nell’esercizio dell’attività di consulenza tributaria e comportanti la soluzione di problemi di speciale difficoltà sono punibili solo in caso di dolo o colpa grave”. L’art. 5, comma 3, D. Lgs. n. 472/97, specifica che “la colpa è grave quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari”.

[19] Una conferma giurisprudenziale del riferito principio è data dalla recente Cass. Civ., Sez. Trib., 30 novembre 2009, n. 25136 in cui è stato affermato che non è punibile il contribuente che sia incorso in una violazione imputabile al professionista, anche in assenza di una sentenza penale definitiva a carico del professionista stesso.

[20] Si tratta del c.d. ‘autore mediato’ configurabile rispetto alle ipotesi di ‘consulenza in senso stretto’, espressa attraverso pareri nei quali viene suggerita al cliente la condotta da assumere nel caso concreto.

[21] La Legge 11 ottobre 1995 n. 423 prevede che la riscossione delle sanzioni – nei casi di omesso, ritardato o insufficiente versamento – è sospesa nei confronti del contribuente qualora la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, di dottori commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, avvocati, notai e altri professionisti, iscritti nei rispettivi albi, in dipendenza del loro mandato professionale. Per un approfondimento sulla riferita legge e sui rapporti con il D.Lgs. n. 472/97 si rinvia all’interessante articolo di A. Giolo, Non sono dovute le sanzioni dal contribuente ‘vittima’ del consulente ‘di fiducia’: sull’applicazione della causa di non punibilità ‘per il fatto del terzo’ in Diritto e Pratica Tributaria n. 5/2009, pag. 1055 e ss.

[22] Ai sensi dell’art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 472/97, nei casi di solidarietà, se vi è ‘colpa lieve’, l’autore dell’illecito è responsabile fino ad € 51.645,00.

[23] R. Fanelli, C. Nocera, Il coinvolgimento del consulente fiscale nell’illecito amministrativo, in Corriere Tributario n. 35/2000, pag. 2551 e ss.. Un esempio di riconoscimento di esclusione di responsabilità per il contribuente è stato fornito dalla Cassazione la quale – facendo richiamo al principio di responsabilità personale ex art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 472/97 – ha disapplicato le sanzioni a carico di un contribuente, avendo verificato che l’inosservanza degli adempimenti fiscali era dipesa unicamente dal comportamento del consulente fiscale a cui il contribuente si era rivolto per le incombenze tributarie (Cass., Civ., Sez. Trib., 23 gennaio 2004, n. 1198).

[24] il D.L. n. 269/2003 è stato convertito dalla Legge 24 novembre 2003 n. 326.

[25] R. Fanelli, Eliminata (in parte) la responsabilità personale per le sanzioni tributarie, in Corriere Tributario n. 41/2003, pagg. 3369 e ss.

[26] A. Stesuri, Le sanzioni tributarie amministrative alla luce della riforma fiscale, in Diritto e Pratica delle Società, n. 18/2004, pagg. 37 e ss.. Conforme: M. Thione, W. Montanari, Per le violazioni commesse in dichiarazione da fine 2003 ne risponde direttamente l’impresa, in Guida normativa, n. 96/2004, pagg. 65 e ss.

[27] A. Buccisano, G. Ingrao, R. Lupi, Il consulente fiscale risponde verso il cliente per violazioni fiscali ‘decise assieme’, in Dialoghi Tributari n. 5/2010, pagg. 557 e ss. Parimenti critici: E. Zanetti, Sulla responsabilità la Cassazione perde la bussola, in www.eutekne.info del 28 aprile 2010; V. Stroppa, C. Bartelli, Ora paga il commercialista, in Italia Oggi del 28 aprile 2010, pag. 25.

[28] Con il ‘visto pesante’ (o certificazione tributaria) il professionista attesta, oltre alla rispondenza della dichiarazione alle scritture e ai documenti contabili, anche la corretta applicazione delle norme fiscali in tema di determinazione del reddito d’impresa.

[29] Con il ‘visto di conformità’ il professionista attesta l’esistenza formale del credito – riscontrata tramite la regolare tenuta delle scritture contabili e la corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione alle risultanze contabili – al fine di effettuare compensazioni orizzontali (cioè con altri debiti tributari) per importi superiori a euro 15.000.

[30] Cass. Civ., Sez. III, 26 aprile 2010, n. 9917. In senso conforme: Cass. Civ., Sez. III, 9 giugno 2004, n. 10966. Sul punto v. anche A. Borgoglio, Il commercialista è responsabile per le sanzioni del fisco, in Il Fisco, n. 21/2010, pag. 3370 e ss.

[31] A. Martinelli, La responsabilità del professionista in Pratica fiscale e professionale n. 21 del 2010, pag. 33.

Conforti Vincenzo

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