La portata delle leggi comunitarie

Balbo Paola 20/12/07
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Al rapporto esistente tra i poteri regionali e nazionale sono state dedicate pagine di dottrina e copiosa giurisprudenza. Di questo rapporto riveste tuttavia un interesse particolare quello del quale la Corte costituzionale è stata investita negli anni relativo all’applicazione delle disposizioni comunitarie e al potere sostitutivo dello Stato in caso di inottemperanza da parte di Regioni e Province autonome. Il riferimento legislativo principe è rappresentato ormai dalle cd leggi comunitarie[1]. La prima legge comunitaria del 9 marzo 1989 n. 86 – conosciuta come legge La Pergola, ha dettato le linee generali ed è stata abrogata solo dalla legge comunitaria 4 febbraio 2005, n. 11.
La legge n. 86 del 1989 fissava all’art. 1 la regola secondo la quale lo Stato si faceva garante dell’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee, che conseguono:
a) all’emanazione di regolamenti, direttive, decisioni e raccomandazioni (CECA) che, in conformità alle norme dei trattati istitutivi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, della Comunità economica europea e della Comunità europea dell’energia atomica, vincolano la Repubblica italiana ad adottare provvedimenti di attuazione;
b) all’accertamento giurisdizionale, con sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, della incompatibilità di norme legislative e regolamentari con le disposizioni dei suddetti trattati. Nello specifico l’art. 1bis, commi 1 e 2, individuava quali degli atti dovessero essere recepiti e cioè i progetti degli atti normativi e di indirizzo degli organi dell’Unione europea e delle Comunità europee, gli atti preordinati alla formulazione degli stessi, e le loro modificazioni, nonché quelli relativi alle misure previste dal Titolo VI del Trattato sull’Unione europea, ratificato ai sensi della legge 3 novembre 1992, n. 454 e quelli di cui al Titolo V dello stesso Trattato volti alla definizione della politica estera e di sicurezza comune”.
Negli artt. 2 e 3 si definiva la cosiddetta ‘legge comunitaria’ seguita dall’anno di riferimento come disegno di legge recante: "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee". Si stabiliva che la relazione a detto disegno di legge dovesse:
a) riferire sullo stato di conformità dell’ordinamento interno al diritto comunitario e sullo stato delle eventuali procedure d’infrazione dando conto, in particolare, della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee relativa alle eventuali inadempienze e violazioni degli obblighi comunitari da parte della Repubblica italiana;
b) fornire l’elenco delle direttive attuate o da attuare in via amministrativa;
c) dare partitamente conto delle ragioni dell’eventuale omesso inserimento delle direttive il cui termine di recepimento è già scaduto e di quelle il cui termine i recepimento scade nel periodo di riferimento, in relazione ai tempi previsti per l’esercizio della delega legislativa. Si dà altresì conto della legislazione regionale attuativa di direttive comunitarie, fornendo i dati di cui all’articolo 9, comma 2 bis, i cui contenuti (art. 3) sono dati “. Il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento comunitario è assicurato, di norma, dalla legge comunitaria annuale, mediante:
a) disposizioni modificative o abrogative di norme vigenti in contrasto con gli obblighi indicati all’articolo 1, comma 1;
a bis) disposizioni modificative o abrogative di vigenti norme di attuazione di direttive comunitarie che costituiscono oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione delle Comunita’ europee nei confronti dell’Italia; (1)
b) disposizioni occorrenti per dare attuazione, o assicurare l’applicazione, agli atti del Consiglio o della Commissione delle Comunità europee di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 1, anche mediante conferimento al Governo di delega legislativa;
c) autorizzazione al Governo ad attuare in via regolamentare le direttive o le raccomandazioni (CECA) a norma dell’articolo 4”. Si stabiliva altresì che (art. 4) nelle materie già disciplinate con legge, ma non riservate alla legge, le direttive possono essere attuate mediante regolamento se così dispone la legge comunitaria.
Veniva altresì demandato alla legge comunitaria di dettare le disposizioni relative alle modalità di attuazione delle direttive ovvero le sanzioni penali o amministrative che si rendessero necessarie o, ancora, individuare le autorità pubbliche cui affidare le funzioni amministrative inerenti alla applicazione della nuova disciplina. Si confermava altresì la possibilità delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di competenza esclusiva, di dare immediata attuazione alle direttive comunitarie. Si fissava anche un altro principio importante rispetto al quale rilevanti saranno le innovazioni con la legge di abrogazione, vale a dire che la legge comunitaria o altra legge dello Stato che dia attuazione a direttive in materia di competenza regionale indica quali disposizioni di principio non sono derogabili dalla legge regionale sopravvenuta e prevalgono sulle contrarie disposizioni eventualmente già emanate dagli organi regionali. Nelle materie di competenza esclusiva, le regioni a statuto speciale e le province autonome si adeguano alla legge dello Stato nei limiti della Costituzione e dei rispettivi statuti (Art. 9).
La legge comunitaria 2005 ha abrogato il testo del 1989 e si caratterizza per la sua natura di principio rispetto alle leggi comunitarie intercorse che hanno riservato i primi articoli alle enunciazioni generali complessivamente piuttosto simili, entrando poi nel dettaglio delle direttive oggetto di recepimento, tenendo conto della sopravvenuta modifica dell’art. 117 Cost. Impellente si è dimostrata anche la necessità di dettare le regole di attuazione delle direttive europee non tralasciando la pesante e costante condizione di inadempienza con le conseguenti procedure contro lo Stato. Vengono formalizzate ed esplicitate le finalità della legge comunitaria all’interno dei principi enunciati dal Trattato dell’Unione europea, caratterizzate dal fatto di disciplinare il processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione europea e garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, sulla base dei principi di sussidiarietà, di proporzionalità, di efficienza, di trasparenza e di partecipazione democratica (art. 1, comma 1). Queste finalità, che configurano degli obblighi giuridici, conseguono:
a) all’emanazione di ogni atto comunitario e dell’Unione europea che vincoli la Repubblica italiana ad adottare provvedimenti di attuazione;
b) all’accertamento giurisdizionale, con sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, della incompatibilità di norme legislative e regolamentari dell’ordinamento giuridico nazionale con le disposizioni dell’ordinamento comunitario;
c) all’emanazione di decisioni-quadro e di decisioni adottate nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (art. 1, comma 2).
Con l’art. 2 vengono messi in gioco gli organi componenti deputati alla realizzazione di tali obblighi comunitari, componenti che di fatto identificano anche i rappresentanti dei poteri ripartiti regionale e nazionale, intesi nel senso della potestà esclusiva e ripartita.
Viene creato il Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE), convocato e presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Ministro per le politiche comunitarie e al quale partecipano il Ministro degli affari esteri, il Ministro per gli affari regionali e gli altri Ministri aventi competenza nelle materie oggetto dei provvedimenti e delle tematiche inseriti all’ordine del giorno. Al CIACE possono chiedere di partecipare il presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano o un presidente di regione o di provincia autonoma da lui delegato e, per gli ambiti di competenza degli enti locali, i presidenti delle associazioni rappresentative degli enti locali quando si trattano questioni che interessano anche le regioni e le province autonome.
Va sottolineato altresì come si sia introdotto l’art. 3 destinato a disciplinare le fasi della partecipazione del Parlamento al processo di formazione delle decisioni comunitarie e dell’Unione europea individuando ai commi 1 e 2 dell’art. 3 (i) i progetti di atti comunitari e dell’Unione europea, (ii) gli atti preordinati alla formulazione degli stessi, (iii) le loro modificazioni, (iv) i documenti di consultazione, quali libri verdi, libri bianchi e comunicazioni, predisposti dalla Commissione delle Comunità europee. In questa fase preliminare il Parlamento è chiamato a stabilire le date presunte di discussione e di adozione. Da parte sua il Governo, prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, riferisce alle Camere ed è tenuto ad illustrare la posizione che intende assumere e, su richiesta delle Camere, a riferire ai competenti organi parlamentari prima delle riunioni del Consiglio dei Ministri dell’Unione europea, organi che possono formulare osservazioni e adottare ogni opportuno atto di indirizzo al Governo richiedendogli una relazione tecnica che dia conto dello stato dei negoziati, delle eventuali osservazioni espresse da soggetti già consultati nonché dell’impatto sull’ordinamento, sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sull’attività dei cittadini e delle imprese. L’apposizione in sede di Consiglio dei Ministri dell’Unione europea della riserva di esame parlamentare da parte del Governo avviene a seguito dell’inizio dell’esame dei progetti individuati all’art. 3, commi 1 2, e soltanto a conclusione di tale esame o comunque decorso il termine presunto, il Governo può procedere alle attività di propria competenza per la formazione dei relativi atti comunitari e dell’Unione europea. Vale contestualmente la regola per la quale i progetti vengano trasmessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Ministro per le politiche comunitarie, contestualmente alla loro ricezione, alla Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano e alla Conferenza dei presidenti dell’Assemblea, dei Consigli regionali e delle province autonome, ai fini dell’inoltro alle Giunte e ai Consigli regionali e delle province autonome, indicando la data presunta per la loro discussione o adozione assicurando alle regioni e alle province autonome un’informazione qualificata e tempestiva sui progetti e sugli atti trasmessi che rientrano nelle materie di competenza delle regioni e delle province autonome, curandone il costante aggiornamento (art. 5, commi 1 e 2 ). L’attenzione alle competenze e agli interventi degli enti locali trova altresì una dettagliata precisazione all’art. 6, comma 1, ove si introduce il principio procedurale secondo il quale qualora i progetti e gli atti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 3 riguardino questioni di particolare rilevanza negli ambiti di competenza degli enti locali, la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le politiche comunitarie li trasmette alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali, nonché, per il tramite della Conferenza Stato-città ed autonomie locali, alle associazioni rappresentative degli enti locali che, per il tramite della Conferenza Stato-città ed autonomie locali, possono trasmettere osservazioni al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per le politiche comunitarie e possono richiedere che gli stessi siano sottoposti all’esame della Conferenza stessa. Analoga misura viene stabilita per le parti sociali e le categorie produttive (art. 7).  Sostanzialmente uguale rimane invece la definizione di ‘legge comunitaria’ di cui agli artt. 8 e 9 della l. n. 11/2005, che mantiene l’impianto già della Legge La Pergola. Innova in certa misura la legge là ove regolamenta (art. 10) l’adeguamento agli obblighi comunitari introducendo delle misure urgenti nei diversi ambiti oggetto per l’appunto di adeguamento:
1. la possibilità da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le politiche comunitarie di proporre al Consiglio dei Ministri l’adozione dei provvedimenti, anche urgenti, necessari a fronte di atti normativi e di sentenze degli organi giurisdizionali delle Comunità europee e dell’Unione europea che comportino obblighi statali di adeguamento solo qualora la scadenza risulti anteriore alla data di presunta entrata in vigore della legge comunitaria relativa all’anno in corso;
2. l’assunzione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per i rapporti con il Parlamento delle iniziative necessarie per favorire un tempestivo esame parlamentare dei provvedimenti di cui al punto 1;
3. l’informazione agli enti interessati, nel caso in cui gli obblighi di adeguamento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario riguardino materie di competenza legislativa o amministrativa delle regioni e delle province autonome, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le politiche comunitarie, con l’assegnazione di un termine per provvedere e, ove necessario, la richiesta che la questione venga sottoposta all’esame della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano per concordare le iniziative da assumere. In caso di mancato tempestivo adeguamento da parte dei suddetti enti, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le politiche comunitarie propone al Consiglio dei Ministri le opportune iniziative ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui agli articoli 117, quinto comma, e 120, secondo comma, della Costituzione, secondo quanto previsto dagli articoli 11, comma 8, 13, comma 2, e 16, comma 3, della presente legge e dalle altre disposizioni legislative in materia;
4. l’adozione dei decreti legislativi di attuazione di normative comunitarie o di modifica di disposizioni attuative delle medesime, la cui delega è contenuta in leggi diverse dalla legge comunitaria annuale, fatti salvi gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti dalle disposizioni della legge di conferimento della delega, ove non in contrasto con il diritto comunitario, e in aggiunta a quelli contenuti nelle normative comunitarie da attuare, nel rispetto degli altri principi e criteri direttivi generali previsti dalla stessa legge comunitaria per l’anno di riferimento, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per le politiche comunitarie e del Ministro con competenza istituzionale prevalente per la materia, di concerto con i Ministri degli affari esteri, della giustizia, dell’economia e delle finanze e con gli altri Ministri interessati in relazione all’oggetto della normativa. Si tratta di una disposizione applicabile, altresì, all’emanazione di testi unici per il riordino e 1’armonizzazione di normative di settore nel rispetto delle competenze delle regioni e delle province autonome. Viene lasciata alla legge comunitaria la riserva di precisare se, e in tal caso, in quali materie di cui all’ articolo 117 , secondo comma, della Costituzione, già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge, le direttive possono essere attuate mediante regolamento se così dispone la legge comunitaria e delle quali il Governo presenta alle Camere, in allegato al disegno di legge comunitaria, un elenco per l’attuazione delle quali chiede l’autorizzazione di cui all’articolo 9, comma 1, lettera d). Di tali regolamenti il comma 3 dell’art. 11 precisa le modalità stabilendo che si conformino a norme generali, nel rispetto dei principi e delle disposizioni contenuti nelle direttive da attuare, mediante:
a) l’individuazione della responsabilità e delle funzioni attuative delle amministrazioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà;
b) l’esercizio dei controlli da parte degli organismi già operanti nel settore e secondo modalità che assicurino efficacia, efficienza, sicurezza e celerità;
c) l’esercizio delle opzioni previste dalle direttive in conformità alle peculiarità socio-economiche nazionali e locali e alla normativa di settore;
d) la fissazione di termini e procedure, nel rispetto dei principi di cui all’ articolo 20 , comma 5, della legge 15 marzo 1997, n. 59 e successive modificazioni.
Di particolare incisività è il comma 8 dell’art. 11 che prevede un potere sostitutivo in caso di inerzia da parte delle regioni e delle province autonome. “In relazione a quanto disposto dall’ articolo 117 , quinto comma, della Costituzione, gli atti normativi possono essere adottati nelle materie di competenza legislativa delle regioni e delle province autonome al fine di porre rimedio all’eventuale inerzia dei suddetti enti nel dare attuazione a norme comunitarie. In tale caso, gli atti normativi statali adottati si applicano, per le regioni e le province autonome nelle quali non sia ancora in vigore la propria normativa di attuazione, a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva normativa comunitaria, perdono comunque efficacia dalla data di entrata in vigore della normativa di attuazione di ciascuna regione e provincia autonoma e recano l’esplicita indicazione della natura sostitutiva del potere esercitato e del carattere cedevole delle disposizioni in essi contenute. I predetti atti normativi sono sottoposti al preventivo esame della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano”.
Disposizioni procedurali vengono fissate con l’art. 14 in caso di decisioni delle Comunità europee: «1. A seguito della notificazione di decisioni adottate dal Consiglio o dalla Commissione delle Comunità europee, destinate alla Repubblica italiana, che rivestono particolare importanza per gli interessi nazionali o comportano rilevanti oneri di esecuzione, il Ministro per le politiche comunitarie, consultati il Ministro degli affari esteri e i Ministri interessati e d’intesa con essi, ne riferisce al Consiglio dei Ministri.
2. Il Consiglio dei Ministri, se non delibera l’eventuale impugnazione della decisione, emana le direttive opportune per l’esecuzione della decisione a cura delle autorità competenti.
3. Se l’esecuzione della decisione investe le competenze di una regione o di una provincia autonoma, il presidente della regione o della provincia autonoma interessata interviene alla riunione del Consiglio dei Ministri, con voto consultivo, salvo quanto previsto dagli statuti speciali.
4. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le politiche comunitarie trasmette il testo delle decisioni adottate dal Consiglio o dalla Commissione delle Comunità europee alle Camere per la formulazione di eventuali osservazioni e atti di indirizzo ai fini della loro esecuzione. Nelle materie di competenza delle regioni e delle province autonome le stesse decisioni sono trasmesse altresì agli enti interessati per il tramite della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano e della Conferenza dei presidenti dell’Assemblea, dei Consigli regionali e delle province autonome, per la formulazione di eventuali osservazioni».
Non solo, la legge introduce la materia delle informazioni al Parlamento su procedure giurisdizionale e di pre-contenzioso riguardante l’Italia (art. 15-bis):
«1. Il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per le politiche europee, sulla base delle informazioni ricevute dalle amministrazioni competenti, trasmette ogni sei mesi alle Camere e alla Corte dei conti un elenco, articolato per settore e materia:
a) delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee e degli altri organi giurisdizionali dell’Unione europea relative a giudizi di cui l’Italia sia stata parte o che abbiano rilevanti conseguenze per l’ordinamento italiano;
b) dei rinvii pregiudiziali disposti ai sensi dell’articolo 234 del Trattato istitutivo della Comunità europea o dell’articolo 35 del Trattato sull’Unione europea da organi giurisdizionali italiani;
c) delle procedure di infrazione avviate nei confronti dell’Italia ai sensi degli articoli 226 e 228 del Trattato istitutivo della Comunità europea, con informazioni sintetiche sull’oggetto e sullo stato del procedimento nonché sulla natura delle eventuali violazioni contestate all’Italia;
d) dei procedimenti di indagine formale avviati dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia ai sensi dell’articolo 88, paragrafo 2, del Trattato istitutivo della Comunità europea.
2. Il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per le politiche europee, trasmette ogni sei mesi alle Camere e alla Corte dei conti informazioni sulle eventuali conseguenze di carattere finanziario degli atti e delle procedure di cui al comma 1.
3. Nei casi di particolare rilievo o urgenza o su richiesta di una delle due Camere, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per le politiche europee trasmette alle Camere, in relazione a specifici atti o procedure, informazioni sulle attività e sugli orientamenti che il Governo intende assumere e una valutazione dell’impatto sull’ordinamento».
La legge 1 marzo 2002, n. 39 disciplina alcune disposizioni attinenti i decreti legislativi eventualmente adottati nelle materie di competenza legislativa regionale e provinciale (art. 1). In specifico si statuisce che tali decreti legislativi saranno informati ai seguenti principi e criteri direttivi generali:
a) le amministrazioni direttamente interessate provvederanno all’attuazione dei decreti legislativi con le ordinarie strutture amministrative;
b) per evitare disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, saranno introdotte le occorrenti modifiche o integrazioni alle discipline stesse;
c) salva l’applicazione delle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, saranno previste sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi. Le sanzioni penali, nei limiti, rispettivamente, dell’ammenda fino a 103.291 euro e dell’arresto fino a tre anni, saranno previste, in via alternativa o congiunta, solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi generali dell’ordinamento interno, ivi compreso l’ecosistema. In tali casi saranno previste: la pena dell’ammenda alternativa all’arresto per le infrazioni che espongano a pericolo o danneggino l’interesse protetto; la pena dell’arresto congiunta a quella dell’ammenda per le infrazioni che rechino un danno di particolare gravità. La sanzione amministrativa del pagamento di una somma non inferiore a 103 euro e non superiore a 103.291 euro sarà prevista per le infrazioni che ledano o espongano a pericolo interessi diversi da quelli sopra indicati. Nell’ambito dei limiti minimi e massimi previsti, le sanzioni sopra indicate saranno determinate nella loro entità, tenendo conto della diversa potenzialità lesiva dell’interesse protetto che ciascuna infrazione presenta in astratto, di specifiche qualità personali del colpevole, comprese quelle che impongono particolari doveri di prevenzione, controllo o vigilanza, nonché del vantaggio patrimoniale che l’infrazione può recare al colpevole o alla persona o ente nel cui interesse egli agisce. In ogni caso saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi;
d) eventuali spese non contemplate da leggi vigenti e che non riguardano l’attività ordinaria delle amministrazioni statali o regionali potranno essere previste nei soli limiti occorrenti per l’adempimento degli obblighi di attuazione delle direttive; alla relativa copertura, nonché alla copertura delle minori entrate eventualmente derivanti dall’attuazione delle direttive, in quanto non sia possibile fare fronte con i fondi già assegnati alle competenti amministrazioni, si provvederà a norma degli articoli 5 e 21 della legge 16 aprile 1987, n. 183 osservando altresì il disposto dell’ articolo 11 ter, comma 2, della legge 5 agosto 1978, n. 468 e successive modificazioni;
e) all’attuazione di direttive che modificano precedenti direttive già attuate con legge o decreto legislativo si procederà, se la modificazione non comporta ampliamento della materia regolata, apportando le corrispondenti modifiche alla legge o al decreto legislativo di attuazione della direttiva modificata;
f) i decreti legislativi assicureranno in ogni caso che, nelle materie trattate dalle direttive da attuare, la disciplina disposta sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime, tenuto anche conto delle eventuali modificazioni comunque intervenute fino al momento dell’esercizio della delega;
g) quando si verifichino sovrapposizioni di competenze fra amministrazioni diverse o comunque siano coinvolte le competenze di più amministrazioni statali, i decreti legislativi individueranno, attraverso le più opportune forme di coordinamento, rispettando i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e le competenze delle regioni, le procedure per salvaguardare l’unitarietà dei processi decisionali, la trasparenza, la celerità, l’efficacia e l’economicità nell’azione amministrativa e la chiara individuazione dei soggetti responsabili.
Il raggiungimento di tali risultati trova fondamento nel diritto costituzionale e nel superiore diritto comunitario sottoposti al vaglio della Corte costituzionale italiana nell’arco di parecchi anni.
Il disegno di legge al Senato n. 1448 relativo alla legge comunitaria 2007 è da ultimo destinato a segnare il passo andando a completare l’impianto rinnovato già con la legge comunitaria n. 11 del 2005. Innanzitutto viene prevista una riduzione dei termini per l’esercizio della delega legislativa che dovrà coincidere con la scadenza del termine di recepimento della direttiva o, in alternativa, entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge ove il termine menzionato sia scaduto o scada nei tre mesi successivi alla data di entrata in vigore della legge comunitaria. Il termine sale a dodici mesi nei casi in cui le direttive non prevedano in sede comunitaria un termine di recepimento. Viene altresì ribadita con fermezza la ‘clausola di cedevolezza[2] già introdotta nei decreti legislativi precedenti in materia di competenza regionale in conformità alla legge costituzionale 18 ottobre n. 3 e prevista anche nella legge 6 febbraio 2007 n. 13 (legge comunitaria 2006), nonché nell’art. 16 comma 3, e 11, comma 8, della legge 4 febbraio 2005, n. 11. La esplicitazione e formalizzazione di tale clausola che prevede il potere sostitutivo dello Stato trova conforto in decisioni della Corte costituzionale, come ribadisce la relazione al disegno di legge ove si sottolinea che allo Stato competono tutti gli strumenti necessari per non trovarsi impotente di fronte a violazioni di norme comunitarie determinate da attività positive od omissive dei soggetti dotati di autonomia costituzionale. “Gli strumenti consistono non in avocazioni di competenza a favore dello Stato ma in interventi repressivi o sostitutivi e suppletivi – questi ultimi anche in via preventiva, ma cedevoli di fronte all’attivazione dei poteri regionali e provinciali normalmente competenti – rispetto a violazioni o carenze nell’attuazione e nell’esecuzione di norme comunitarie da parte delle regioni e delle province autonome” (C. cost., sentenza n. 126 del 1996 e sent. n. 425 del 1999). Viene richiamato il disposto introdotto con la legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007, art. 1, commi da 1217 a 1222) relativo all’azione di rivalsa da parte dello Stato nei confronti dei soggetti (regioni e province autonome) che violino la normativa comunitaria rendendosi eventualmente responsabili di infrazioni produttive di danni allo Stato, danni per i quali dovranno sostenere il peso in termini finanziari. 
Decisa novità è costituita dal fatto che la delega al Governo per l’emanazione di testi unici o codici di settore delle disposizioni attuative deriva proprio dal rendere tale delega uno strumento utile per operare un’azione periodica di coordinamento e riordino del sistema normativo non solo più in termini di testi unici, ma anche di codici di settore.
Essenziale è il rapporto che deve intercorrere tra gli artt. 10 e 11 della Costituzione e i Trattato istitutivi della CEE prima e dell’Unione europea poi, pur in una interpretazione che tende ad ampliarsi e in certa misura si è ampliata, in ogni ipotesi in cui entri in gioco l’applicazione delle disposizioni comunitarie su quelle nazionali e ciò non solo con riferimento ai Trattati istitutivi della CEE e alle direttive e/o regolamenti, nei limiti in cui attribuiscono ‘efficacia diretta’ nel territorio italiano a determinati atti normativi o a determinati provvedimenti assunti dalla competenti Autorità della Comunità stessa[3] prevalgono, ma anche con riguardo alla giurisprudenza delle corti europee. La giurisprudenza della Corte di giustizia europea, del resto, si è pronunciata con chiarezza a tal proposito sostenendo il primato del diritto comunitario e l’effetto diretto dei regolamenti comunitari negli ordinamento degli Stati membri[4]. La Corte costituzionale, intervenuta, come si vedrà di seguito attraverso alcuni esempi, e chiamata a pronunciarsi in merito è pervenuta ad analogo orientamento affermando che il regolamento comunitario va applicato sia che segua, sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili[5]. Ciò che invece ha creato un distinguo è la distinzione che la Corte costituzionale ha operato tra diritto comunitario e diritto pattizio, confermata in due recenti decisioni del 2007.
Parte della giurisprudenza della Corte costituzionale si è orientata negli anni a stabilire le relazioni tra il potere sostitutivo dello Stato rispetto a regioni e province autonome e il diritto comunitario. Le interpretazioni che ritroviamo attraverso la lunga serie di decisioni riguardanti gli argomenti più svariati sono interessanti in quanto non solo la Corte si è trovata a dare indicazioni in merito al ruolo delle leggi ordinarie nazionali rispetto a quelle europee e ai regolamenti comunitari, ma anche rispetto al peso che la giurisprudenza della Corte di giustizia europea o della Corte dei diritti umani hanno nell’ordinamento interno; peso e ruoli che troviamo disciplinati nelle leggi comunitarie.
Cosa si intenda per potere sostitutivo dello Stato a fronte della tesi secondo la quale costituirebbe un controllo statale sugli enti autonomi non previsto né consentito dall’ordinamento costituzionale, e abbraccerebbe peraltro l’intero ambito delle loro competenze, essendo previsto che esso operi con riferimento all’inattività non soltanto degli organi amministrativi, ma anche dei legislatori regionali[6], la Corte ha chiarito e riconosciuto “il fondamento costituzionale del potere sostitutivo del Governo – qual é configurato nell’articolo 27 della legge n. 153 del 9 maggio 1975 ("Attuazione delle direttive comunitarie per la riforma dell’agricoltura"), disposizione della cui legittimità si controverteva – in caso di "persistente inadempimento" degli organi regionali "nello svolgimento delle attività amministrative di attuazione delle direttive comunitarie". Tale intervento sostitutivo del Governo, é stato detto con la pronunzia citata, non lede la sfera delle Regioni, nemmeno di quelle a statuto speciale in quanto trova giustificazione nel generale interesse nazionale ad un puntuale e tempestivo adempimento degli obblighi comunitari nell’intero territorio dello Stato. Diversamente, non vi sarebbe nel nostro ordinamento alcun mezzo per rimediare alla mancata attuazione delle direttive della C.e.e. da parte delle Regioni, né, dunque, per prevenire la conseguente insorgenza di un illecito sul piano dell’ordinamento comunitario, della quale, in quanto soggetto di diritto internazionale, lo Stato é il solo responsabile.”. La facoltà statale di intervento per altro si legittima soltanto dopo che detto termine sia inutilmente trascorso e deve trattarsi di inattività accertata, protratta fino "al punto di comportare inadempimento agli obblighi comunitari". Occorre al riguardo osservare che le direttive comunitarie fissano di regola il termine entro il quale gli Stati destinatari sono tenuti ad attuarle nei rispettivi ordinamenti interni.
Definisce senza ulteriori dubbi la Consulta il principio sostanziale e procedurale per il quale “costituisce violazione di un obbligo comunitario, l’inosservanza non soltanto del contenuto precettivo della direttiva, ma anche del termine da essa stabilito per la sua applicazione nell’ordinamento dello Stato destinatario”. Premesso ciò, il potere sostitutivo diventa a tutti gli effetti uno strumento e l’unico introdotto dal legislatore “indispensabile per sollevare lo Stato dalla responsabilità internazionale: siamo di fronte a un’ipotesi, che é stata rigorosamente circoscritta dal legislatore, e nella quale si può ragionevolmente presumere che – se gli organi dello Stato non fossero in grado di porvi rimedio – l’inadempienza della direttiva, risultante dall’inattività della Regione, sarebbe denunziata ed accertata nelle competenti sedi comunitarie, ai sensi degli artt. 169,170 e 171 del Trattato istitutivo della C.e.e.”
 Chiude la Consulta ribadendo che “Col prevedere l’intervento sostitutivo dello Stato, il legislatore ordinario non ha illegittimamente alterato il sistema dell’organizzazione costituzionale, e si é d’altronde uniformato ad un orientamento ormai costante della recente prassi normativa statuale con riguardo all’attuazione delle direttive comunitarie. Basta ricordare, in merito, che lo stesso schema della sostituzione del Governo alle amministrazioni regionali inadempienti, così com’é congegnato dalla disposizione censurata, figura, oltre che nel citato art. 27 della legge n. 153 del 1975, in altre disposizioni legislative di carattere generale: l’art. 1, comma terzo n. 5, della legge n. 382 del 22 luglio 1975 ("norme sull’ordinamento regionale e l’organizzazione della pubblica amministrazione"), in virtù della quale il Governo é stato delegato a trasferire alle Regioni, nelle materie a queste spettanti ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, le funzioni amministrative relative all’attuazione dei regolamenti della C.e.e. e di sue direttive; l’art. 6 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, emanato in attuazione della delega suddetta”.
Si ha dunque l’esercizio di un potere-dovere, che residua necessariamente allo Stato, anche quando la materia oggetto della direttiva comunitaria cada nell’ambito delle competenze trasferite, e non semplicemente delegate alla Regione. La Consulta, richiamando la propria sentenza n. 142 del 1972, afferma che “il presupposto giustificativo di "ogni distribuzione" – e così anche del trasferimento – "dei poteri di applicazione delle norme comunitarie, che si effettui a favore di enti minori diversi dallo Stato" sta appunto in ciò, che gli organi centrali devono in ogni caso disporre degli strumenti idonei a rimediare all’eventuale inerzia delle Regioni, e garantire il buon adempimento degli obblighi, di cui lo Stato assume la responsabilità di fronte alla Comunità europea”.
Sotto il profilo costituzionale la Corte, a proposito dell’applicazione interna di un atto, che promana da un’organizzazione a carattere sopranazionale, interpreta la questione[7] nel senso che l’adesione dell’Italia alla C.e.e., e le limitazioni che nella sfera statuale ne discendono anche per i poteri degli enti autonomi, sono sicuramente fondate sull’art. 11 della Costituzione. Segue una considerazione che ricompare nel 2007[8] in materia di distinzione tra diritto comunitario e diritto internazionale pattizio sebbene riferito nel caso odierno al ruolo delle decisioni della CEDU rispetto all’ordinamento interno, ovvero che “il fenomeno della normazione, e specificamente delle direttive comunitarie, incide con crescente rilievo – e più largamente e frequentemente degli obblighi scaturenti dal diritto internazionale pattizio – sulle materie riservate alla competenza legislativa della Regione: specialmente nel settore qui considerato dell’agricoltura. Se i poteri necessari per la relativa attuazione nell’ordinamento interno fossero esclusivamente accentrati in capo al legislatore nazionale, ne seguirebbe – come ammette la stessa difesa dello Stato – l’erosione di quella sfera di autonomia che alle Regioni é invece garantita. E, dunque, una esigenza del nostro sistema costituzionale che l’attuazione in via legislativa delle direttive comunitarie non prescinda dall’osservanza dei fondamentali principi dell’autonomia e del decentramento: ma ad avviso della Corte tale esigenza é pienamente soddisfatta dal criterio secondo cui la norma impugnata ha previsto che le competenze normative occorrenti nella specie siano ripartite tra Stato e Regioni. Criterio razionale, peraltro, e suffragato dall’esperienza di sistemi stranieri, anche del tipo federale, nei quali l’intervento sostitutivo é lo strumento di cui dispongono gli organi centrali, se le unità costitutive della federazione non hanno tempestivamente adempiuto agli obblighi internazionali nella sfera delle proprie attribuzioni legislative”. Con le decisioni del 2007 il giudice delle leggi precisa che:
« le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell’art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.
            Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacché questa Corte aveva escluso, già prima di sancire la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell’ordinamento interno, che potesse venire in considerazione, a proposito delle prime, l’art. 11 Cost. «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto.
            L’art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il precitato orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».
Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale.
            Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
             La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti – da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.
(….) Si condivide anche l’esclusione – argomentata nelle ordinanze di rimessione – delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall’ambito di operatività dell’art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte sul punto. La citata disposizione costituzionale, con l’espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l’adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell’ordinamento giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005)».
Il percorso giurisprudenziale della Corte costituzionale ha, nel tempo intercorrente fra le decisioni qui riportate, concretizzato alcuni passaggi che occorre rilevare per completare il tema in esame. Un altro principio altrettanto importante sempre sulla scorta della propria giurisprudenza partire dalla sentenza n. 142 del 1972 si coglie[9] nella affermazione secondo cui «non é sufficiente richiamarsi all’art. 189 comma 3 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità, che fa rinvio agli ordinamenti interni degli Stati partecipanti per la disciplina del concreto esercizio delle attività necessarie all’adempimento degli impegni da essi assunti; ciò perchè ogni distribuzione dei poteri di applicazione delle norme comunitarie che si effettui a favore di enti minori diversi dallo Stato contraente (che assume la responsabilità del buon adempimento di fronte alla Comunità) presuppone il possesso da parte del medesimo degli strumenti idonei a realizzare tale adempimento anche di fronte all’inerzia della Regione che fosse investita della competenza dell’attuazione». Posto che l’art. 189 del Trattato C.E.E. dichiara le direttive vincolanti per lo Stato, che solo allo Stato é riferibile la responsabilità internazionale nel caso di violazione degli obblighi comunitari e che di conseguenza lo Stato trova la sua giustificazione nel generale interesse nazionale ad un puntuale e tempestivo adempimento degli obblighi in questione nell’intero territorio dello Stato, in inscindibile correlazione con l’esclusiva responsabilità internazionale dello Stato, è altresì vero che “il fenomeno della normazione. e specificatamente delle direttive comunitarie, incide con crescente rilievo sulle materie riservate alla competenza legislativa della Regione”. La conseguenza è che tali norme sono vincolate non soltanto dai contenuti della direttiva, bensì anche dalla normativa statale di attuazione in quanto necessaria all’esecuzione dell’obbligo comunitario. La legislazione nazionale per altro, in linea con quanto altresì affermato dalla Consulta, “a partire dalla legge 16 maggio 1970 n. 281 si è sviluppata nei successivi provvedimenti sia di carattere generale sia di specifica attuazione di determinate direttive- quale la legge n. 113 del 1981, oggetto dei ricorsi in esame-fino alla legge 16 aprile 1987 n. 183, avente per oggetto il coordinamento delle politiche comunitarie e l’adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari. Detta legge dispone con l’art. 13 che “le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano nelle materie di competenza esclusiva possono dare immediata attuazione alle direttive comunitarie, salvo adeguarsi, nei limiti previsti dalla Costituzione e dai relativi statuti speciali alle leggi dello Stato di cui al comma 1 dell’articolo 12”.
Si tratta di una interpretazione che, prosegue la Corte nella sentenza del 1998, é ulteriormente confermata dal testo del disegno di legge n. 835 presentato al Senato nel corso dell’attuale legislatura (avente per oggetto <Norme generali sulle procedure per l’esecuzione degli obblighi comunitari>). In particolare l’art. 7 (Competenze delle Regioni e delle Province autonome) stabilisce che la legge statale di attuazione detta “tutte le norme necessarie all’esecuzione degli obblighi comunitari”; la legge stessa deve indicare ‘quali delle disposizioni in essa dettate per dare attuazione alle direttive non sono derogabili dalla legge regionale sopravvenuta e prevalgono sulle contrarie disposizioni della legge regionale eventualmente già emanata. Nelle materie di competenza esclusiva, le Regioni a statuto speciale e le Province autonome si adeguano alla legge dello Stato nei limiti previsti dalla Costituzione e dai relativi statuti speciali’; é ribadito poi che ‘in mancanza della legge regionale, sarà applicato l’atto normativo dello Stato in tutte le sue disposizioni’. L’espressione ‘disposizioni non derogabili’ che sostituisce quella ‘norme di principio’, adoperata in precedenza e diretta evidentemente ad eliminare ogni dubbio che possa sorgere in riferimento ai ‘principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato’ previsti dall’art. 117, primo comma Cost. Troviamo dunque una decisione esplicitamente che si richiama espressamente al contenuto delle legge comunitaria.
Più complesso si fa il discorso nel caso di decisioni che coinvolgono l’area penale[10]. In tal senso, rispetto ad esempio alla violazione dell’art. 142 del T.U.L.P.S. (regiodecreto 18 giugno 1931, n. 773, <Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza>), troviamo un caso di ricorso alla Corte di giustizia europea in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 del Trattato di Roma, sulla compatibilità della norma incriminatrice e della connessa sanzione penale (artt. 142 e 17 del T.U.L.P.S.) con gli artt. 3 lett. c e 56, comma 1, dello stesso Trattato. Il giudice comunitario aveva concluso, con sentenza 12 dicembre 1989, per la non compatibilità con la norma del diritto comunitario relativa alla libera circolazione delle persone il comportamento di uno stato membro che imponga ai cittadini di altri stati membri l’obbligo, sanzionato penalmente in caso di inosservanza, di rendere una dichiarazione di soggiorno nel termine ritenuto troppo breve di tre giorni dall’ingresso nel Paese.
Anche in tema di applicazione di disposizioni più favorevoli per il reo in ordine al termine di prescrizione del reato, contenute nell’art. 6 della legge n. 251 del 2005 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitata, quanto ai processi di primo grado già in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore della stessa legge, a quelli per i quali non «sia stata dichiarata l’apertura del dibattimento»[11], la Consulta, investita della verifica del rispetto di principi sopranazionali, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento», motivando la propria decisione con la considerazione che:
« l’art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale stabilisce che «se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»: disposizione alla quale si collega la riserva dell’Italia nel senso dell’applicazione limitata ai procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia intervenuta una decisione definitiva.
In relazione a tale norma di diritto internazionale convenzionale va ricordata la forza giuridica che questa Corte ha più volte riconosciuto alle norme internazionali relative ai diritti fondamentali della persona (sentenze n. 62 del 1992; n. 168 del 1994; n. 109 del 1997; n. 270 del 1999). In particolare, a proposito del Patto di New York, con la sentenza n. 15 del 1996 si è affermato che le sue norme non possono essere assunte «in quanto tali come parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi» (cosicché «una loro eventuale contraddizione da parte di norme legislative interne non determinerebbe di per sé – cioè indipendentemente dalla mediazione di una norma della Costituzione – un vizio d’incostituzionalità»), ma che ciò «non impedisce di attribuire a quelle norme grande importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione».
Dal suo canto, il comma 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea – nel testo risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam il 2 ottobre 1997, ratificato con legge 16 giugno 1998, n. 209 – ha affermato che «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».
La Corte di giustizia delle Comunità europee, a sua volta, ha affermato che tali diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto, che essa garantisce (da ultimo, sentenze 12 giugno 2003, C-112/00; 10 luglio 2003, C-20/00 e C-64/00).
Di recente (sentenza 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02) la stessa Corte – decidendo un caso nel quale il primato del diritto comunitario si assumeva compromesso dalla retroattività di una disciplina che assicurava al reo un trattamento più favorevole (anche per la riduzione dei termini di prescrizione conseguente alla riduzione della misura della pena) – ha statuito che delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri fa parte il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite. Tale principio – secondo la Corte di giustizia – deve essere senz’altro osservato dal giudice interno «quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario», ma esso – si ribadisce – nel caso esaminato viene in rilievo nella sua valenza di principio generale dell’ordinamento comunitario, desunto dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali e dei trattati internazionali dei quali gli Stati membri sono parti contraenti.
6.2.— Il medesimo principio, sancito nell’art. 15 del già citato Patto di New York, è stato esplicitamente confermato dall’art. 49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 – la quale viene qui richiamata, ancorché priva tuttora di efficacia giuridica, per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei – secondo cui «se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».
6.3.— Da questi dati normativi e giurisprudenziali si ricava che per le leggi in esame l’applicazione retroattiva è la regola e che tale regola è derogabile in presenza di esigenze tali da prevalere su un principio il cui rilievo, si è già osservato, non si fonda soltanto su una norma, sia pure generale e di principio, del codice penale.
Il livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior – quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario – impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo; cfr. sentenze n. 24 del 2004; n. 10 del 1997, n. 353 e n. 171 del 1996; n. 218 e n. 54 del 1993). Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole.
In definitiva, soltanto nel senso sopraindicato può trovare giustificazione la deroga alla applicazione retroattiva della disposizione più favorevole al reo.
In particolare – per quanto attiene al tema che qui rileva – la deroga al regime della retroattività deve ritenersi ammissibile nei confronti di norme che riducano la durata della prescrizione del reato, purché tale deroga sia non solo coerente con la funzione che l’ordinamento oggettivamente assegna all’istituto, ma anche diretta a tutelare interessi di non minore rilevanza»[12].
 
 


[1] Le leggi comunitarie approvate fino al 2007 sono:
Legge 9 marzo 1989, n. 86 (Legge La Pergola)
Legge 29 dicembre 1990, n. 428
Legge 19 febbraio 1992, n. 142
Legge 19 dicembre 1992, n. 489
Legge 22 febbraio 1994, n. 146
Legge 6 febbraio 1996, n. 52
Legge 24 aprile 1998, n. 128 (1995/1997)
Legge 5 febbraio 1999, n. 25
Legge 21 dicembre 1999, n. 526
Legge 29 dicembre 2000, n. 422
Legge 1 marzo 2002, n. 39
Legge 3 febbraio 2003, n. 14
Legge 31 ottobre 2003, n. 306
Legge 18 aprile 2005, n. 62
Legge 6 febbraio 2007, n. 13
 
 
[2] Si tratta di una disposizione che prevede che i decreti legislativi a tal fine eventualmente adottati nelle materie riservate alla competenza legislativa delle regioni e delle province autonome, qualora queste ultime non abbiano provveduto con proprie norme attuative secondo quanto previsto dall’art. 117, quinto comma, Cost., entrino in vigore alla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della normativa comunitaria e perdano efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore della normativa attuativa regionale o provinciale.
 
[3] RIZ, Diritto penale e diritto comunitario; M. BOSCARELLI, Réflexions sur l’influence de droit communautaire sur le droit pénal des Etats membres, in AA.VV., Droit Communautaire et droit pénal, Milano 1981 ; G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, p. 227 ss, UTET 1999. 
[4] Per tutte CG, sent. C-26/62 del 5 febbraio 1963, Van Gend en Loos; C-106/77 del 9 marzo 1978, Simmenthal.
T. MARTINES, Diritto costituzionale, p. 100 ss, Giuffrè 1988.
[5] Corte cost., sent. n. 170 del 1984, 98/65; 183/73; 232/75.
G. TESAURO, Diritto comunitario, Cedam 2003
[6] Corte cost., sentt. 12 luglio 1979, n. 81; 14 luglio 1976, n. 182
[7] Corte cost., sent. 18 dicembre 1973 n. 183; 22 ottobre 1975 n. 232; 14 luglio 1976, n. 182,
[8] Corte cost., sentt. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349
[9] Corte cost., sent. 8 giugno 1988, n. 632; 22 luglio 1976 n. 182; 26 luglio 1979 nn. 81 e 86.
[10] Corte cost., sentenza 14 novembre 1990, n. 527 (con decreto penale di condanna emesso il 29 marzo 1988, il Pretore di Volterra condannò il sig. Messner Lothar per violazione dell’art. 142 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio-decreto 18 giugno 1931, n. 773, per non essersi presentato entro tre giorni dall’ingresso nel territorio dello Stato alla autorità di pubblica sicurezza per rendere la prescritta dichiarazione di soggiorno)
[11] Corte cost., ord. 20 giugno 2007, n. 266
[12] Corte cost., sent. 23 novembre 2006, n. 393

Balbo Paola

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