La pena, le funzioni e i caratteri

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Con la definizione funzione della pena si intende la sua efficacia, cioè l’insieme degli effetti che produce e in vista dei quali è adottata dallo Stato.

Le teorie elaborate da illustri filosofi e giuristi per definire la funzione della pena sono molte.

Retributiva, quando è il corrispettivo per avere violato un comando dell’ordine giuridico, ed è la riaffermazione del diritto da parte dello Stato.

General-preventiva, quando ha nei confronti di tutti i consociati un’efficacia deterrente che dissuade dal porre in essere comportamenti delittuosi in coloro che sono portati a delinquere (Intimidazione).

Special-preventiva, quando esplica un’efficace deterrente anche nei confronti del condannato al fine di evitare altri comportamenti in violazione della legge, e ci sono effetti rieducativi che le modalità di esecuzione della pena a dispiegano sull’individuo ad essa sottoposto (Emenda).

Le finalità della pena sopra descritte sono basate su presupposti  diversi, e per garantirne l’efficacia è necessario che esse non siano in conflitto.

Le teorie più moderne, che ambiscono a un fondamento giustificato di tipo scientistico, individuano la legittimazione delle funzioni della pena non su basi ideologiche, per di più esterne all’ordinamento giuridico, ma nella misura nella quale la sanzione è capace di perseguire gli obiettivi di prevenzione e di controllo delle condotte umane che le vengono assegnati.

Soprattutto in relazione alla prevenzione speciale l’effettività della pena rimane tuttora una realtà indimostrata, e non si può di sicuro affermare che il nostro sistema  “migliori” sia l’intera società, sia il colpevole.

Sembra che dal lato vista legalistico la carcerazione rappresenti l’unica forma di pena politicamente corretta, mentre altri studiosi che seguono il pensiero di Beccaria, come lui ritengono la carcerazione una pena irrazionale, priva di principi e inumana per l’intera società.

Il tasso di recidivismo indica che la permanenza in prigione fa dei disadattati, esacerbando la questione del delitto.

Un detenuto rilasciato non sembra “rieducato” e non mette in evidenza quali possono essere gli effetti della sua pena sul resto della popolazione.

L’obiettivo dichiarato dal carcere non corrisponde ai suoi effetti risultati, esso può essere descritto non sulla base dei suoi successi, ma su quella delle sue limitazioni, la limitazione della libertà dell’individuo, la coercizione di vita in un ambiente residenziale sgradevole, e promotore di altra criminalità.

La pena non può più essere considerata come un semplice castigo, emblematico in questo senso l’articolo 27 della Costituzione nel quale è sancito il principio secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

In relazione all’Ordinamento italiano, l’articolo 27 della Costituzione, che prevede espressamente il trattamento inteso come un programma correzionale, che prenda inizio con la pronuncia della sentenza di condanna e raggiunga il completamento con la cessazione di ogni controllo,  ha trovato attuazione con la riforma penitenziaria del 1975.

Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 l’amministrazione penitenziaria ha acquisito l’indispensabile strumento normativo per adeguarsi ai precetti costituzionali dell’umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo dei condannati.

Per la prima volta la materia penitenziaria è  stata disciplinata con legge anziché che con atti amministrativi.

La Legge 354/75 mostra l’evidente sfavore verso la completa esecuzione della pena intamuraria, e introduce la possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione, sancendo la fine del principio assoluto di intangibilità della sentenza di condanna.

Il principio della funzione rieducativa della pena ha ispirato l’introduzione nel nostro ordinamento delle Misure alternative alla detenzione, le quali, sostituendosi alle pene detentive e abituando il condannato alla vita di relazione, rendono più efficace l’azione di risocializzazione.

Con l’Affidamento in prova ai servizi sociali, il condannato a pena detentiva non superiore a tre anni e al quale non sia stata applicata una misura di sicurezza può essere affidato ai servizi sociali per un periodo di prova, può essere posto al di fuori dell’istituto per l’intera durata della pena ancora da scontare, salvo la revoca della misura.

I presupposti per ottenere questo beneficio consistono dopo l’introduzione della Legge Simeone (L.n. 165/98),  nella durata della pena, che non deve superare i tre anni.

E’ anche necessario che, dopo un periodo di osservazione della personalità di un mese, le prescrizioni, che l’affidato deve osservare nel corso della misura, siano sufficienti alla sua rieducazione e a prevenire una sua ricaduta nel reato.

Competente per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale è il Tribunale di Sorveglianza.

All’affidato vengono imposte delle prescrizioni che ne agevolano l’inserimento nella società, svolgere attività lavorativa che dia sufficiente garanzia, non avere rapporti personali che possano occasionare il compimento di reati, dimorare o meno in determonati luoghi, adoperarsi in favore della vittima del suo delitto.

Il servizio sociale controlla il comportamento del soggetto e lo aiuta nel reinserimento nella vita sociale, riportando periodicamente al giudice di sorveglianza la sua condotta.

L’affidamento viene revocato ogni volta che il comportamento dell’affidato sembri incompatibile con la prosecuzione della prova, al contrario il periodo di prova che ha esito positivo estingue la pena e ogni altro effetto penale.

Una figura specifica di affidamento in prova è quello che si applica in casi particolari, disciplinato dall’articolo 94 del D.P.R. 9-10-1990, n. 309 (così come modificato dalla L. 14-07-1993, n. 222 e definitivamente consacrato dalla Simeone ).

Si tratta dell’affidamento in prova relativo a condannati tossicodipendenti che abbiano in corso o si intendano sottoporre a un programma di recupero.

Costoro possono chiedere in ogni momento di essere affidati in prova al servizio sociale se la pena detentiva loro inflitta o ancora da scontare non superi i 4 anni, e purché abbiano in corso o intendano intraprendere un programma riabilitativo, la quale sussistenza e idoneità deve essere constatata e certificata dal servizio pubblico per le tossicodipendenze.

La riforma del 1986 mirava a rimuovere una palese incoerenza che si era prospettata nell’esperienza applicativa.

La giurisprudenza esigeva, ai fini dell’applicazione della misura, che il condannato avesse iniziato l’esecuzione della pena al momento dell’istanza.

La necessità di non interrompere un percorso rieducativo avviato in sede extramuraria condusse all’introduzione di una modalità di accesso alla semilibertà che prescindeva dalla instaurazione della detenzione.

Ispirato all’analoga soluzione adottata in tema di affidamento in prova, il dettato del comma 6 dell’articolo 50 dell’Ordinamento Penitenziario, prevedeva che la semilibertà per le pene non superiore a sei mesi potesse essere “altrsì disposta” prima dell’inizio dell’esecuzione se il condannato avesse dimostrato la propria “volontà di reinserimento nella vita sociale”.

La semilibertà per pene non superiore a sei mesi si presenta sotto una veste anomala, innestata sul ceppo della figura madre destinata ai condannati a pene medio-lunghe.

Ma la semilibertà “ordinaria” svolge funzioni transitorie tra il regime di piena detenzione e la scarcerazione finale, che la tipologia riformata non possiede.    

La semilibertà ordinaria è concessa sulla base dei progressi compiuti durante il trattamento, ed è finalizzata a facilitare il graduale reinserimento sociale del soggetto.

La disciplina della semilibertà prevede che i condannati alla pena dell’arresto di qualunque entità o della reclusione non superiore a sei mesi possano essere ammessi a trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Il limite dei sei mesi suddetto vale solo per la reclusione, per cui i condannati all’arresto possono sempre essere ammessi a godere della semilibertà.

Nel caso di pena detentiva superiore ai sei mesi al detenuto è concesso il beneficio solo dopo aver scontato metà della pena o  due terzi nei casi dei reati di maggior allarme sociale.

La semilibertà è concessa dal Tribunale di sorveglianza, ed è revocata se il condannato si dimostra inidoneo al trattamento, ovvero se il condannato rimane assente dall’istituto per più di dodici ore o non vi faccia rientro.

Con la Legge 356/92 recante “Provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” si è posto il divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione (tra cui la semilibertà) ai soggetti che abbiano riportato condanna per alcuni tipi di reato: associazione di stampo mafioso o finalizzata allo spaccio di stupefacenti, sequestro di persona con finalità di rapina o di estorsione.

La concessione è ammessa quando il condannato svolga attività di collaborazione con la giustizia e non vi siano a suo carico elementi da lasciare presumere attuali collegamenti con la criminalità organizzata.

Per il condannato questo diventa formativo quando è assunto in un progetto personalizzato e sottoposto a verifica periodica.

Perciò al momento dell’inserimento è necessaria una prima valutazione del reale possesso da parte della persona  di comportamenti coerenti con le necessità e le regole del lavoro.

Nella organizzazione del lavoro in cooperativa è necessario controllare e incentivare l’acquisizione di capacità relazionali necessarie a ricostruire la propria identità sociale gravemente compromessa dalle vicende giudiziarie e detentive.

Ai lavoratori condannati, ne più ne meno che agli altri, ma con maggior attenzione al processo di autonomizzazione, deve richiedersi di essere capaci di comunicare in modo costruttivo, saper collaborare con gli altri,  saper riconoscere e accettare il conflitto,  essere in grado di assumersi responsabilità anche minime.

Aiutare queste persone ad acquisire professionalità significa quindi anche aiutarle ad entrare in relazione e a costruire rapporti, non dimenticandosi che sovente l’incapacità comunicativa, è elemento fortemente criminogeno.

Se è vero, come è vero, che fra le categorie di svantaggio, i detenuti costituiscono quella di maggiore marginalità e isolamento, sia come percezione esistenziale di sé che come realtà di fatto, è chiaro che la cooperativa deve curare in modo particolare la rete di relazioni interne trasformandole in continua occasione di crescita.

Non deve spaventare il rischio di recidiva, molto di più faccia paura, e stimoli di conseguenza il cooperatore, l’incapacità a comunicare e  relazionare con la persona condannata, se questo dovesse accadere ogni lavoro offerto,  anche se positivo e appagante, risulterebbe mero veicolo di transizione fra l’uscita dal carcere e il prossimo rientro.

L’Amministrazione Penitenziaria è difetto perché non soddisfa il dovere di fornire lavoro.

A questo dovere corrisponde un diritto (del condannato) a ottenere quel “trattamento rieducativo” che è incentrato proprio sul lavoro.

In questa situazione, che si trascina da anni, nel 1993, si è  tentato il coinvolgimento dell’esterno, con l’introduzione degli articoli 20 bis e 25 bis.

Ma il tentativo sino a oggi non ha dato gli esiti sperati.

L’Amministrazione avrebbe potuto cedere alcune sue competenze a terzi mediante “contratti d’opera” nel settore della direzione tecnica e della formazione del personale; si sarebbero potute istituire a titolo sperimentale nuove lavorazioni avvalendosi se necessario “dei servizi prestati da imprese pubbliche o private ed acquistando le relative progettazioni”.

Sono state istituite le “Commissioni Regionali per il lavoro penitenziario” ma almeno fino ad oggi non si sono visti apprezzabili risultati e non risulta che abbiano partorito le “direttive” delle quali parla la legge, in base alle quali il Provveditore dovrebbe organizzare le lavorazioni (trovando anche i locali che spesso neanche ci sono).

Il legislatore nel 1993 ha riconosciuto che l’Amministrazione Penitenziaria da sola non è in grado di affrontare un problema del genere; che la stessa per tradizione ha il grave compito di sorvegliare e di custodire i detenuti e di assicurare l’ordine e la disciplina; che al trattamento concorre tutta la comunità, come ricorda l’articolo 17, ancora adesso utilizzato con grande parsimonia e nel senso, sbagliato, di mera “assistenza” a detenuti.

L’articolo 50 del DPR 230, afferma che i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, che non siano stati ammessi al regime di semilibertà o al lavoro all’esterno o non siano stati autorizzati a svolgere attività, artigianali, intellettuali o artistiche o lavoro a domicilio, per i quali non sia disponibile un lavoro corrispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell’articolo 20 della legge (l’O.P. n.d.r.), sono tenuti a svolgere un’altra attività lavorativa tra quelle organizzate dell’istituto.

Dott.ssa Concas Alessandra

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