La nuova disciplina sui distacchi transanazionali

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1.         Premesse

Dopo il D. Lgs. 136/2016, entrato in vigore nel luglio 2016 al fine di recepire nel nostro ordinamento la Direttiva 2014/67/UE (detta Direttiva Enforcement) di applicazione della Direttiva 96/71/CE sul distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, con efficacia dal 30 settembre 2020, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.lgs. 15 settembre 2020, n. 122 (il “Decreto”), tramite il quale è stata data attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva UE 2018/957 (la “Direttiva”), recante modifiche alla suddetta Direttiva Enforcement.

Con tale nuova disciplina, il legislatore non ha certo inteso stravolgere l’impianto complessivo della regolamentazione vigente in materia, che resta pur sempre disciplinata da molte delle norme di cui al D.lgs. n. 136/2016, ma ne ha rafforzato i contenuti, garantendo una migliore protezione dei lavoratori distaccati.

In particolare, il recente intervento legislativo è stato mosso dall’intento di contrastare non solo fenomeni illeciti (quali il distacco transnazionale fraudolento o il dumping sociale e salariale), ma anche quelle fattispecie che, per quanto lecite o comunque fisiologiche, hanno l’effetto di alterare la concorrenza tra le imprese europee, permettendo ad alcune realtà di avvantaggiarsi nel libero mercato a scapito delle imprese ‘locali’ che si trovano a operare in aree geografiche che impongono costi del lavoro maggiori.

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  1. Il distacco nazionale e transnazionale.

Prima di affrontare nel dettaglio le novità portate dalla disciplina da ultimo entrata in vigore, occorre ribadire che cosa si intende con la nozione distacco di un lavoratore dipendente.

Nell’ordinamento italiano, l’istituto del distacco trova la sua disciplina normativa nel D.lgs. 10 settembre 2003 n.276 (c.d. Legge Biagi), ed in particolare all’art.30 dello stesso, ai sensi del quale il distacco, per l’appunto, costituisce quella fattispecie in cui “un datore di lavoro per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa“.

La fattispecie del distacco presuppone, quindi, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza di tre parti:

  • il datore di lavoro distaccante,
  • il lavoratore dipendente di quest’ultimo
  • un altro soggetto, definito distaccatario, che utilizza la prestazione del dipendente del distaccante.

Il distacco è, inoltre, è legittimo allorquando (i) sussista uno specifico interesse del datore di lavoro distaccante, che deve persistere per tutta la durata del distacco e deve avere (ii) una durata temporalmente definita.

Nel tempo, la dimensione transnazionale delle aziende ha imposto di guardare in un’ottica sovranazionale anche i rapporti di lavoro e il loro concreto svolgimento.

In particolare, lo sviluppo del mercato transnazionale dei servizi favorito dal principio di libera prestazione dei servizi (art. 56 – Trattato di funzionamento dell’UE -TFUE) e del principio di libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (art. 45 TFUE), ha indotto alcuni operatori ad un utilizzo strumentale di tali principi al fine esclusivo di limitare i costi sociali, mediante l’utilizzo di manodopera low cost perché proveniente da imprese localizzate in altri Stati membri, che avendo sistemi di sicurezza sociali di livello inferiore, determinano (direttamente o indirettamente) diversità di costi del fattore lavoro.

I cambiamenti incidenti sullo scenario competitivo internazionale degli ultimi decenni – riflesso dell’evoluzione di modelli produttivi spesso implicanti il ricorso all’outsourcing o alla subfornitura – hanno portano alla ribalta le questioni legate a tale fattispecie e il distacco intracomunitario, da tema di nicchia per gli addetti ai lavori, è diventa elemento essenziale per le scelte economiche delle aziende avente carattere internazionale.

Ed è così che, per la prima volta nel 1996, con la Direttiva n.96/71 cui si è fatto cenno, l’Unione Europea ha posto concretamente la sua attenzione sulle anzi dette problematiche, ad ha conseguentemente fornito un quadro regolatorio di riferimento compatibile con le preesistenti fonti internazionali, al fine di assicurare condizioni di lavoro e di occupazione al lavoratore che svolga temporaneamente la propria prestazione in uno Stato membro diverso da quello di provenienza[1].

A mente dell’art. 2, comma 1, lett. d), D.lgs. n. 136/2016 (attualmente ancora in vigore), quindi, lo status di lavoratore distaccato è conferito al prestatore «abitualmente occupato in un altro Stato membro che, per un periodo limitato, predeterminato o predeterminabile con riferimento ad un evento futuro e certo, svolge il proprio lavoro in Italia».

Gli elementi essenziali per l’identificazione di un distacco transnazionale (legittimo) sono quindi: (i) l’abitualità dell’occupazione del lavoratore in un Paese diverso dall’Italia, (ii) alle dipendenze di una impresa non stabilita in Italia, nonché la (iii) la temporanea durata del distacco transnazionale.

Ciò che distingue, peraltro, il distacco transnazionale dalla fattispecie nazionale è l’ambito di applicazione dell’istituto.

Il distacco nazionale, infatti, si applica ad ogni ipotesi di distacco nell’ambito del territorio italiano, sia esso attuato all’interno di un gruppo di imprese, sia operato tra due soggetti giuridici differenti, in quanto l’art. 30 del D.lgs. 276/2003 non fa alcuna differenza in tal senso.

Le ipotesi di distacco transnazionale, invece, disciplinate dalla normativa europea, quanto meno sino alla Direttiva da ultimo trasposta in Italia con il Decreto in commento, erano tre, e segnatamente: (i) quella della prestazione transnazionale di servizi, (ii) quella del distacco infragruppo e (iii) quella della somministrazione transnazionale di lavoro.

Come è stata prima d’ora osservato[2], l’ipotesi del distacco infragruppo contemplata dalla normativa comunitaria è strutturalmente differente e comunque meno ampia di quella nazionale. La fattispecie del distacco comunitario, infatti, non può prescindere dal presupposto della sussistenza di una fornitura di un servizio, perché non è rilevante di per sé, ma soltanto nel “quadro di” detta fornitura. Con la condivisibile conseguenza che il parallelo con l’istituto del distacco previsto dall’art. 30 D.lgs. 276/2003 è impossibile, trattandosi di fattispecie strutturalmente diverse tra loro.

3.         Le novità della recente riforma

Ma cosa è cambiato per effetto della entrata in vigore della Direttiva, trasposta in Italia ad opera, come detto, dal Decreto?

Innanzi tutto, è stata ampliato l’ambito di applicazione della disciplina che è stata estesa anche:

  • alle agenzie di somministrazione di lavoro stabilite in uno Stato membro diverso dall’Italia che distaccano presso un’impresa utilizzatrice con sede nel medesimo o in un altro Stato membro uno o più lavoratori da tale ultima impresa inviati, nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi diversa dalla somministrazione, presso una propria unità produttiva o altra impresa, anche appartenente allo stesso gruppo, che ha sede in Italia (articolo 1, comma 2-bis, primo periodo, Decreto). In tal caso i lavoratori sono considerati distaccati in Italia dall’agenzia di somministrazione con la quale intercorre il rapporto di lavoro;
  • alle agenzie di somministrazione di lavoro stabilite in uno Stato membro diverso dall’Italia che distaccano presso un’impresa utilizzatrice che ha la propria sede o unità produttiva in Italia uno o più lavoratori da tale ultima impresa inviati, nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi diversa dalla somministrazione, nel territorio di un altro Stato membro, diverso da quello in cui ha sede l’agenzia di somministrazione (articolo 1, comma 2-bis, secondo periodo, D.lgs. 122/2020). Anche in questo caso il lavoratore è considerato distaccato dall’agenzia di somministrazione con la quale intercorre il rapporto di lavoro.

Detto in altri termini, con tale novella, l’Unione Europea ha ritenuto opportuno assicurare protezione a quei lavoratori forniti da un’agenzia interinale ad una prima impresa utilizzatrice, ma nuovamente distaccati da quest’ultima nel territorio di un altro stato membro (che nel caso che ci interessa sarebbe l’Italia). In questo (nuovo) complesso rapporto di servizi “trilaterale” (agenzia interinale – impresa utilizzatrice – terza impresa/sede), le cui parti si trovano all’evidenza in tre diversi Stati membri, sarà quindi necessario che la normativa italiana si coordini con quella dello Stato membro in cui i lavoratori, già somministrati in Italia, siano poi successivamente dall’utilizzatore effettivo, ancora una volta, inviati a lavorare in ulteriore altro Stato membro.

Al fine di garantire i medesimi standards di tutela sull’intero territorio nazionale, inoltre, l’articolo 1 del Decreto, innovando integralmente l’articolo 4, D.lgs. 136/2016, ha poi individuato le materie con riferimento alle quali, durante il periodo di distacco, dovranno essere riconosciute al lavoratore distaccato, se più favorevoli, le medesime “condizioni di lavoro e di occupazione” previste per i lavoratori che effettuano prestazioni lavorative subordinate analoghe nel luogo in cui si svolge il distacco.

Si tratta in particolare delle disposizioni normative (e, in Italia e negli Stati membri ove sussistente, previste anche dalla contrattazione collettiva) con rifomento a “(a) periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; (b) durata minima dei congedi annuali retribuiti; (c) retribuzione, comprese le tariffe maggiorate per lavoro straordinario (con la sola eccezione dei regimi pensionistici di categoria); (d) condizioni di somministrazione di lavoratori, con particolare riferimento alla fornitura di lavoratori da parte di agenzie di somministrazione; (e) salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; (f) provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; (g) parità di trattamento fra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione; (h) condizioni di alloggio dei lavoratori, quando questo è fornito dal datore di lavoro ai lavoratori distaccati lontani dalla loro abituale sede di lavoro; (i) indennità o rimborsi a copertura delle spese di viaggio, vitto e alloggio per i lavoratori fuori sede per esigenze di servizio […]”.

La ratio ispiratrice di tale riforma risiede sia nel noto principio della parità di trattamento tra lavoratore distaccato e lavoratore, per così dire, “locale”, quanto sul divieto di qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità, dai quali discende anche il principio di parità della retribuzione.

Ed è proprio in tema di retribuzione che si concentra la portata innovativa della disciplina comunitaria, che ha avuto inizio con la sostituzione della riduttiva espressione “tariffe minime salariali” con l’omnicomprensiva nozione di “retribuzione”, e con l’ulteriore precisazione – contenuta proprio nella Direttiva – che essa deve comprendere “tutti gli elementi (…) resi obbligatori da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, da contratti collettivi o da arbitrati che sono stati dichiarati di applicazione generale nello stato membro”.

Non a caso, anche al fine di fare chiarezza sul punto, con riferimento allo specifico concetto di retribuzione, il Decreto in esame (e ancor prima la Direttiva) prevede che saranno considerate parte della retribuzione anche “le indennità riconosciute al lavoratore che non sono versate a titolo di rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio effettivamente sostenute a causa del distacco”, che sono rimborsate dal datore di lavoro in linea con la normativa applicata al rapporto di lavoro nello Stato membro dell’impresa distaccante.

Un’ultima ulteriore, importante modifica alla disciplina dei distacchi internazionali riguarda l’introduzione del c.d. distacco di lunga durata, previsto dall’art.4 bis del Decreto. Sulla base del presupposto (essenziale) della temporaneità del distacco, infatti, la nuova disciplina ha ridotto la durata massima del distacco da 24 a 12 mesi, con possibilità di proroga fino a 18 mesi con provvedimento (notifica) motivata del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 4bis, comma 2, Decreto). Trascorso tale periodo, la norma prevede espressamente, al fine di garantire maggiori tutele al lavoratore distaccato trascorso un certo lasso di tempo, che a quest’ultimo siano applicate tutte le condizioni di lavoro e di occupazione previste in Italia da disposizioni normative e dai contratti collettivi, ad eccezione di quelle concernenti: (i) il licenziamento e le dimissioni; (ii) le clausole di non concorrenza; (iii) la previdenza integrativa di categoria.

4.         Alcuni spunti di riflessione problematica proprio in tema di retribuzione.

E’ evidente che le modifiche da ultimo introdotte dalla nuova disciplina comunitaria (e nazionale) in tema di distacco transnazionale siano volta a contrastare con sempre maggiore efficacia il fenomeno del dumping salariale, al fine di scoraggiare quelle imprese che sfruttano l’esistenza di fortissimi squilibri sul piano del costo del lavoro per conseguire vantaggi concorrenziali.

C’è da chiedersi, però, se le nuove regole siano effettivamente sufficienti ad escludere efficacemente possibilità di sfruttamento illegittimo del costo del lavoro.

Per meglio comprendere, varrebbe forse la pena analizzare, in prima battuta, la disciplina del distacco transnazionale alla luce dei principi generali sui quali si fonda il funzionamento del mercato unico; principi che la Corte di giustizia ricava direttamente dal TFUE e che, quindi, sono insuperabili ed ineludibili anche per l’attuale (oltre che futuro) legislatore europeo.

In base a questi principi, sin dalla sentenza Rush Portuguesa del 1990[3], la Corte ha chiarito che il lavoratore distaccato in uno Stato membro da un’impresa stabilita in un altro Stato membro non può rivendicare i diritti garantiti dal principio della libertà di circolazione dei lavoratori (ex art.45 TFUE), ovvero non è garantito dalla parità di trattamento rispetto ai lavoratori dello Stato ospitante (quanto meno per ciò che concerne i lavori distaccati nell’ambito di un appalto transnazionale di servizi), in quanto è l’impresa che lo distacca a poter invocare la libertà di prestare servizi in un altro Stato membro ai sensi dell’art. 56 TFUE. E la parità di trattamento tra lavoratori distaccati e lavoratori nazionali potrebbe rappresentare un ostacolo all’esercizio di questa libertà, se determina un aggravio del costo del lavoro a causa dei maggiori oneri previsti dalla legislazione e dai contratti collettivi dello Stato dove il distacco è eseguito[4].

Non solo. Occorre considerare come sui livelli salariali (e la conseguente determinazione dell’ammontare che possa integrare il concetto di “giusta retribuzione”) incida in modo sempre più pregnante la contrattazione decentrata. I sistemi di relazioni sindacali degli Stati membri, infatti, sono diversi tra loro e ciò è stato causa, e lo è tutt’oggi, di molti nodi giuridici, dalla cui soluzione dipende la possibilità o meno di arginare il dumping salariale all’interno dell’UE.

In ogni caso, la politica europea ne esce con un’immagine quanto meno ambivalente.

Se è vero, infatti, che, da un lato, con la Direttiva, il legislatore europeo ha imposto l’estensione dei medesimi standard salariali per lavoratori nazionali e stranieri distaccati, dall’altro, nei fatti, gli organi di governo dell’Unione (attraverso la governance economica della stessa) hanno indotto – e inducono – gli Stati membri a riconfigurare al ribasso tali standard, attraverso politiche che tendono, di fatto, a sminuire il ruolo della contrattazione collettiva nazionale a vantaggio di quella aziendale, che viene maggiormente sostenuta e promossa.

La portata della nozione di “retribuzione” accolta nella nuova disciplina del distacco e potenzialmente comprensiva dell’insieme delle voci previste dal contratto di categoria viene quindi molto ridimensionata, giacché, in sistemi nei quali il contatto collettivo nazionale ha perso la sua tradizionale funzione di determinazione tariffaria, non resta che riconoscere nella legge la fonte inderogabile di definizione dei minimi salariali a livello nazionale. Ne è un esempio la Germania, dove la necessità di conciliare una struttura contrattuale sempre più decentrata con i vincoli posti dal mercato interno ha portato al varo della legge federale sul salario minimo, che oggi definisce lo standard retributivo inderogabile su tutto il territorio nazionale, sia per lavoratori nazionali sia per i lavoratori stranieri distaccati da altri Stati membri.

A ciò si aggiungono i problemi strutturali di quei sistemi legislativi nei quali non esiste un contratto collettivo dotato di efficacia generale, il che avviene sempre in quei paesi che (come l’Italia) non conoscono meccanismi per garantire l’efficacia erga omnes. Se infatti un contratto collettivo di un determinato settore non ha efficacia generale per le imprese nazionali, il principio di non discriminazione impedisce di estenderlo obbligatoriamente alle imprese straniere, che quindi restano vincolate alla sola legge.

Per risolvere il problema la Direttiva 96/71 aveva previsto che uno Stato membro potesse far riferimento anche a contratti collettivi che “di fatto” siano comunque rispettati da tutte le imprese nazionali (secondo le modalità previste dall’art. 3, par. 8 della suddetta direttiva. E, trattandosi di disposizioni che sono riflesso del fondamentale principio di non discriminazione, esse non sono state modificate dalla recente Direttiva (né tanto meno dal Decreto).

Ma se quindi, la possibilità di pretendere il rispetto di contratti collettivi vigenti sul territorio nazionale da parte delle imprese straniere è condizionata dalla prova che tali contratti siano “di fatto” rispettati da tutte le imprese nazionali, ne emerge, con tutta evidenza, la scarsa rilevanza che ha, ancora oggi, nell’ordinamento italiano, la nuova nozione di «retribuzione» di cui all’art. 3, par. 1 lett. c, della Direttiva, posto che tale prova è superabile (al più) soltanto in relazione a quelle voci riconosciute dalla giurisprudenza come espressione del diritto costituzionale all’equa retribuzione (ex art. 36 Cost.): ovvero, in pratica, alle «tariffe minime salariali» cui si riferiva l’originaria versione della Direttiva 96/71.

Il che rende ancor più evidente come, anche dopo l’adozione della Direttiva (e la successiva attuazione in Italia della stessa ad opera del Decreto), il basso costo del lavoro parrebbe essere ancora oggi un elemento di competizione tra le imprese che operano sul territorio dell’Unione Europea.

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Note

[1] Occorre tuttavia evidenziare che la normativa europea vincolava (e vincola tutt’oggi) i soli paesi membri della UE e quelli aderenti all’accordo SEE (Spazio Economico Europeo), pertanto nel caso di lavoratori distaccati extra UE occorrerà fare riferimento, se esistenti, alle convenzioni bilaterali tra i diversi paesi.

[2] F. Bano, Diritto del lavoro e libera prestazione dei servizi nell’Unione Europea, Il Mulino, 2008, 158.

[3] Corte Giust., 27.3.1990, causa C-113/89, Rush Portuguesa Lda.

[4] E’ a partire dalla sentenza Corte Giust., 25.7.1992, causa C-76/90, Säger, che la libertà di prestare servizi è interpretata dalla Corte in maniera da garantire alle imprese con sede in altri Stati membri non solo la rimozione di misure che configurano trattamenti più sfavorevoli rispetto alle imprese nazionali, ma anche “la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali ed a quelli degli altri Stati membri, allorchè essa sia tale da vietare o da ostacolare in altro modo le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi” (punto 12).

Avv. Giorgia Lovecchio Musti

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