Nozione di rapporto di lavoro a tempo determinato

Redazione 13/11/18
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Il nucleo centrale e qualificante del “Decreto Dignità” è costituito, come si diceva, dagli interventi che riguardano il rapporto di lavoro a tempo determinato. È quindi importante comprendere, preliminarmente, che cosa si intenda per “rapporto di lavoro a tempo determinato” ed in che cosa esso si distingua dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato. A tal fine, si può affermare che il rapporto di lavoro a tempo determinato è quello che, in forza di accordo in tal senso raggiunto fra datore di lavoro e lavoratore in sede di conclusione del contratto ovvero in forza di altra disposizione avente effetto fra le parti o comunque in forza del particolare scopo al quale il rapporto è finalizzato, è caratterizzato dal fatto di avere un termine di durata, raggiunto il quale esso cessa di produrre effetti giuridici senza necessità di un atto unilaterale di recesso ad opera di una delle parti. Esso si contrappone quindi all’altra tipologia fondamentale (anzi, come si vedrà, la “forma comune”) di rapporto di lavoro, vale dire quello a tempo indeterminato, la cui cessazione non è istituzionalmente collegata al mero decorso di un termine temporale ma è subordinata all’atto unilaterale di recesso ad opera di una delle parti (licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero dimissioni rassegnate dal lavoratore) ovvero alle altre cause disciplinate dalla legge (ad esempio il decesso del lavoratore).

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Il principio secondo il quale il modello normale di rapporto di lavoro è quello a tempo indeterminato, mentre il rapporto di lavoro a termine costituisce eccezione alla regola

Trattandosi di tipologie di rapporto di lavoro l’una alternativa rispetto all’altra, è opportuno chiedersi quale sia il modello che gli ordinamenti giuslavoristici (e segnatamente quello nazionale italiano) considerano come modello “normale” e quale invece costituisca l’eccezione alla regola. La domanda non è banale, ove si consideri il fatto che tradizionalmente gli ordinamenti giuridici (ed in particolare quello italiano) vedono con sostanziale disfavore la conclusione di accordi negoziali fra le parti che generano fra di esse legami a tempo indeterminato, ritenendo invece che risultino più confacenti alle esigenze di tutela delle libertà personali e di sviluppo delle relazioni commerciali ed imprenditoriali gli accordi negoziali che prevedono un termine di durata; non a caso, è solitamente considerata come accessorio naturale dei contratti a tempo indeterminato la facoltà di esercitare il recesso unilaterale (e quindi di ottenere lo scioglimento del rapporto contrattuale per effetto della volontà di una sola parte), che invece nei rapporti giuridici a tempo determinato è considerata come fattispecie eccezionale e consentita solo in caso di inserimento della relativa clausola ad opera delle parti in sede di conclusione del contratto. A tale modello di pensiero non si sottraeva l’orientamento più risalente nemmeno con riferimento al rapporto di lavoro, anche in considerazione del fatto che il consentire la stipula di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che quindi legasse il lavoratore al proprio datore di lavoro per un periodo potenzialmente indefinito, richiamava alla mente in tempi remoti il concetto della schiavitù, dal quale il pensiero progressista ottocentesco intendeva ovviamente discostarsi nettamente. Solo in tempi più recenti, quindi, si è fatta strada l’idea che garantire al lavoratore un posto di lavoro stabile e duraturo, potenzialmente in grado di assicurargli un impiego per tutta la vita lavorativa e fino al raggiungimento dell’età pensionabile (ovviamente corredato da un adeguato compendio di tutele) costituisse un valore da perseguire, anziché un retaggio di tempi antichi da abbandonare. In tale contesto, ha progressivamente preso il sopravvento (anche a livello normativo, come meglio si dirà infra) il principio secondo il quale la regola comune in materia di durata del rapporto di lavoro è quella del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, mentre l’apposizione del termine alla durata del rapporto costituisce l’eccezione alla regola. Ha quindi cominciato ad emergere sempre più esplicitamente nei provvedimenti normativi tempo per tempo emanati, sia a livello nazionale sia a livello comunitario, l’indicazione secondo la quale la tipologia contrattuale “normale” – quella la cui disciplina si applica in assenza di pre
visioni in senso contrario legittimamente pattuite in conformità alla normativa – è quella del rapporto a tempo indeterminato; di tal ché esso costituisce la regola mentre il rapporto a tempo determinato costituisce l’eccezione, consentita solo nei casi previsti e disciplinati dalla legge.

Il presente contributo è tratto da:

Decreto Dignità: nuove regole per il contrasto al precariato

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