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Il principio secondo il quale il modello normale di rapporto di lavoro è quello a tempo indeterminato, mentre il rapporto di lavoro a termine costituisce eccezione alla regola
Trattandosi di tipologie di rapporto di lavoro l’una alternativa rispetto all’altra, è opportuno chiedersi quale sia il modello che gli ordinamenti giuslavoristici (e segnatamente quello nazionale italiano) considerano come modello “normale” e quale invece costituisca l’eccezione alla regola. La domanda non è banale, ove si consideri il fatto che tradizionalmente gli ordinamenti giuridici (ed in particolare quello italiano) vedono con sostanziale disfavore la conclusione di accordi negoziali fra le parti che generano fra di esse legami a tempo indeterminato, ritenendo invece che risultino più confacenti alle esigenze di tutela delle libertà personali e di sviluppo delle relazioni commerciali ed imprenditoriali gli accordi negoziali che prevedono un termine di durata; non a caso, è solitamente considerata come accessorio naturale dei contratti a tempo indeterminato la facoltà di esercitare il recesso unilaterale (e quindi di ottenere lo scioglimento del rapporto contrattuale per effetto della volontà di una sola parte), che invece nei rapporti giuridici a tempo determinato è considerata come fattispecie eccezionale e consentita solo in caso di inserimento della relativa clausola ad opera delle parti in sede di conclusione del contratto. A tale modello di pensiero non si sottraeva l’orientamento più risalente nemmeno con riferimento al rapporto di lavoro, anche in considerazione del fatto che il consentire la stipula di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che quindi legasse il lavoratore al proprio datore di lavoro per un periodo potenzialmente indefinito, richiamava alla mente in tempi remoti il concetto della schiavitù, dal quale il pensiero progressista ottocentesco intendeva ovviamente discostarsi nettamente. Solo in tempi più recenti, quindi, si è fatta strada l’idea che garantire al lavoratore un posto di lavoro stabile e duraturo, potenzialmente in grado di assicurargli un impiego per tutta la vita lavorativa e fino al raggiungimento dell’età pensionabile (ovviamente corredato da un adeguato compendio di tutele) costituisse un valore da perseguire, anziché un retaggio di tempi antichi da abbandonare. In tale contesto, ha progressivamente preso il sopravvento (anche a livello normativo, come meglio si dirà infra) il principio secondo il quale la regola comune in materia di durata del rapporto di lavoro è quella del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, mentre l’apposizione del termine alla durata del rapporto costituisce l’eccezione alla regola. Ha quindi cominciato ad emergere sempre più esplicitamente nei provvedimenti normativi tempo per tempo emanati, sia a livello nazionale sia a livello comunitario, l’indicazione secondo la quale la tipologia contrattuale “normale” – quella la cui disciplina si applica in assenza di pre
visioni in senso contrario legittimamente pattuite in conformità alla normativa – è quella del rapporto a tempo indeterminato; di tal ché esso costituisce la regola mentre il rapporto a tempo determinato costituisce l’eccezione, consentita solo nei casi previsti e disciplinati dalla legge.
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