La norma c.d. “anti-precari”, il principio di ordinaria eccezionalità e le misure di incentivazione degli abusi nel quadro dell’ordinamento comunitario

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1. introduzione – È attualmente all’esame del Senato la legge di conversione del D.L. 112/2008 che incide, significativamente, anche sulla disciplina dei contratti a termine.
La notizia, riportata sulle prime pagine dei giornali, scuote e fa discutere l’opinione pubblica, mentre da più parti politiche si eleva il coro di quanti, ignari, disconoscono la paternità del d.d.l. 1386-A.
Lasciando ai costituzionalisti il vaglio del provvedimento, è nostra intenzione analizzare il testo legislativo nell’ambito sempre più stringente dell’ordinamento comunitario.
A tal fine, procederemo, preliminarmente, a richiamare il quadro normativo di riferimento e le modifiche introdotte dalla norma c.d. “anti-precari” per poi ricondurre le scelte, rectius libertà, del legislatore nazionale sia ai principi generali del diritto comunitario sia alle rigide prescrizioni della direttiva 70/1999/CE.
Quanto precede, naturalmente, al dichiarato scopo di verificare se il D. Lgs. 368/2001 – che ha trasposto, dunque, la richiamata direttiva nell’ordinamento giuridico interno – è ancora conforme al diritto comunitario, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. 112/2008 e dal d.d.l. 1386-A.
 
2.  il quadro normativo di riferimento e le modifiche introdotte dal d.d.l. 1386-a – Il rapporto di lavoro a termine è figura contrattuale tutt’altro che nuova all’interno del nostro ordinamento giuridico: la L. 230/1962 disciplinò, infatti, in ossequio al principio di tassatività, le ipotesi eccezionali legittimanti l’apposizione del termine di durata della prestazione lavorativa.
Se, tuttavia, per circa 40 anni il legislatore italiano ha goduto di ampia e piena discrezionalità, con l’emanazione della direttiva 70/1999/CE sono sorti precisi obblighi che hanno indubbiamente compresso, vincolandoli nel fine, i poteri legislativi esercitabili da ciascuno Stato membro.
È così che nasce, dunque, il D. Lgs. 368/2001 intitolato “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES".
Non più esplicazione della potestà legislativa rimessa alla mera discrezionalità statuale, ma attuazione di precisi obblighi assunti dallo Stato italiano a livello comunitario.
L’Accordo quadro sul contratto a tempo determinato concluso in data 18.03.1999 tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, CEEP e UNICE) – che costituisce, appunto, la parte precettiva della direttiva 70/1999/CE – riconosce, infatti, che: «i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità di vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento» (vd. 6° considerando).  
Locuzione, quella appena richiamata, che sancisce il principio dell’eccezionalità dei contratti a termine rispetto alla disciplina comune dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato; locuzione, quella contenuta nell’accordo quadro, fedelmente trasposta nello stesso art. 1 del D. Lgs. 368/2001[1] che dispone inequivocabilmente: «il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato».
È bastato, tuttavia, un semplice inciso, un’insospettabile frase, un’innocua espressione per far divenire regola l’eccezione e per conferire a quest’ultima quel carattere di eccezionale normalità.
Questa, infatti, la prima novità introdotta dal legislatore.
L’art. 1 del D. Lgs. 368/2001 – nel testo risultante dalle modifiche già apportate dall’art. 21 del D.L. 112/2008 – recita, ora, testualmente: «è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro»[2].    
Una questione di ordinaria eccezionalità, verrebbe quasi da dire!
E a quanti avranno l’ardire di affermare che la norma, così come novellata, sovverte il rapporto regola-eccezione, dettato dal legislatore comunitario, si potrà sempre obiettare che il richiamato art. 1 delinea pur sempre un limite invalicabile, id est la necessaria riferibilità del contratto a termine all’attività, ordinaria o straordinaria, del datore di lavoro. 
Così, evidentemente, rafforzando la tutela dei lavoratori … i quali, da oggi in poi, non potranno più essere assunti a termine per svolgere – è questo l’unico limite ora imposto dal nostro ordinamento – attività che non rientrano nell’oggetto sociale della società. 
Più che una norma anti-precari, sembrerebbe quasi una norma contro i lavori occulti – svolti, magari, da circa 50.000 dipendenti di una non altrettanto occulta società – volta ad impedire l’instaurazione di contratti a termine (solamente) nei casi in cui le mansioni concretamente svolte dai lavoratori non sono riferibili né all’attività straordinaria né all’attività ordinaria del datore di lavoro.
In tal modo, chiaramente, scongiurando l’ipotesi – magari consacrata nel testo di una sentenza emessa da un Tribunale o, addirittura, da una Corte di Appello della Repubblica Italiana – che un postino, per lunghi anni assunto a termine, possa chiedere la stabilizzazione del proprio rapporto di lavoro semplicemente perché ha ripetutamente svolto, e per lunghi periodi, l’ordinaria attività di recapito della corrispondenza.
Ma non è tutto!
Il principio di ordinaria eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato non esaurisce, infatti, le modifiche introdotte alla disciplina dei contratti a termine.
Il d.d.l. 1386-A, in corso di approvazione al Senato proprio da parte di quanti ne hanno disconosciuto la paternità, interviene incisivamente – conformemente a quanto prescrive la direttiva 70/1999/CE – anche sulla disciplina degli abusi in tema di utilizzo dei contratti a termine.
Con la sola ed unica differenza, tuttavia, che mentre il legislatore comunitario ha imposto l’adozione di un sistema generale di prevenzione degli abusi (infra), il legislatore nazionale ha, invece, ritenuto di dover incentivare quanto la direttiva ha prescritto di impedire.
Vediamo come.
Innanzi tutto, lo ribadiamo a noi stessi, introducendo il principio di ordinaria eccezionalità che, ora, consente l’indiscriminata apposizione del termine alla durata della prestazione di lavoro anche per esigenze «[…] riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro».
In secondo luogo – al fine di sanare il pregresso ed incentivare per l’avvenire la violazione della norma quanto meno con riferimento alla disciplina della proroga (art. 4 del D. Lgs. 368/2001) – escludendo categoricamente l’obbligo di reintegro laddove il termine è stato illegittimamente apposto o prorogato.
Il d.d.l. 1386-A, intervenendo, infatti, sul testo dell’art. 21 del D.L. 112/2008, introduce l’art. 4 bis nel corpo del D. Lgs. 368/2001 e la richiamata disposizione prevede testualmente quanto segue:
«Art. 4-bis – (Indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine).
In caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».
La norma è assai chiara e qualsiasi commento da parte nostra sarebbe meno loquace ed eloquente di quanto il legislatore ha compiutamente ed inequivocabilmente espresso.
Un solo rilievo si impone:  la violazione dell’art. 1 del D. Lgs. 368/2001 (rubricato “Apposizione del termine”) presuppone, nell’attuale formulazione, una vera e propria inclinazione alla trasgressione nella misura in cui è, realmente, difficile violare una disposizione legislativa che ormai consente, indiscriminatamente, la stipula dei contratti a termine.  
Con riferimento all’art. 1, in altri termini, bisogna dare atto che il legislatore più che incentivare gli abusi, ha eliminato tout cour la nozione stessa di abuso.
Il principio di incentivazione e, contestuale, eliminazione degli abusi è, dunque,
il secondo principio dettato dal legislatore.
Ma procediamo oltre.
Il d.d.l. 1386-A, senza a questo punto neanche più sorprendere, introduce la terza novità della riforma: l’applicazione di quanto disposto dall’art. 4bis, sopra richiamato,«anche ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
In tal modo, evidentemente, consacrando il terzo principio della disciplina dei contratti a termine, sicuramente meno innovativo rispetto ai primi due.
Si tratta, infatti, del principio dell’assoluta potestà legislativa che consente al Parlamento di intervenire, in funzione sostitutiva, ogni qual volta l’intervenuta decisione giudiziaria non ha raccolto il pieno ed incondizionato gradimento del legislatore.
Riforma snella, insomma, quella in corso di approvazione, di facile lettura ed immediata comprensione.
 
3. la direttiva 70/1999/ce e le misure di prevenzione degli abusi – Il problema che si pone, tuttavia, dopo la disamina delle introdotte modifiche e integrazioni, è verificare in che modo il legislatore nazionale ha adempiuto gli obblighi dettati a livello comunitario.
A tal fine, procederemo, preliminarmente, ad individuare i principi dettati dalla richiamata direttiva per, poi, analizzare il problema dell’efficacia delle direttive comunitarie nell’ordinamento giuridico degli Stati membri nonché esaminare il rapporto esistente tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale.
Ora, la direttiva 70/1999/CE dispone che: «i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità di vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento»[3], in tal modo chiaramente consacrando il principio di eccezionalità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro. 
Principio, quello ora richiamato, evidentemente collidente con l’attuale art. 1 del D. Lgs. 368/2001 che, nell’attuale versione, consente la stipula del contratto a termine anche per lo svolgimento di mansioni riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro.
La menzionata direttiva, poi, prescrive la sanzione applicabile nelle ipotesi di illegittima apposizione del termine, id est la conversione del contratto a termine – cui il datore di lavoro ha fatto abusivamente ricorso – in un contratto a tempo indeterminato.
La clausola 5, comma 2, dell’Accordo quadro prevede, infatti, che: «Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati successivi; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato».
Si tratta del c.d. sistema di prevenzione degli abusi attraverso il quale il legislatore comunitario ha inteso, appunto, scongiurare l’ipotesi dell’illegittima instaurazione di contratti di lavoro a termine.
Anche tale sistema di prevenzione è stato, tuttavia, radicalmente vanificato dal legislatore italiano il quale ha, ora, espressamente previsto che l’unica sanzione applicabile nel caso di illegittima apposizione o proroga del termine è costituita dall’obbligo di indennizzo.
 
4. l’efficacia delle direttive comunitarie nell’ordinamento giuridico interno – È principio consolidato quello secondo cui le direttive comunitarie, al pari dei regolamenti, sono immediatamente applicabili[4], sin dalla loro pubblicazione, nell’ordinamento giuridico interno, senza, cioè, la necessità per il singolo Stato membro di adottare misure di ricezione.
A differenza dei regolamenti, tuttavia, le direttive non sono sempre direttamente applicabili e la loro capacità di creare diritti ed obbligazioni in capo ai singoli è, in molti casi, subordinata alla preventiva adozione, da parte dello Stato membro, di appropriate misure di esecuzione che siano in grado di conferire alla norma comunitaria – già vigente nell’ordinamento giuridico interno in forza della sola pubblicazione sulla gazzetta ufficiale CE – la capacità di incidere sulla situazione giuridica dei cittadini.
Il potere discrezionale, di cui è titolare lo Stato membro nel dare esecuzione alle direttive comunitarie, non è poi illimitato ed incondizionato proprio in quanto l’art. 249 TCE esclude che detta discrezionalità possa essere esercitata in modo da ridurre, limitare o modificare l’effetto utile della direttiva.
In altri termini, tutti i vincoli imposti al giudice nazionale nell’interpretazione della normativa comunitaria non possono che ritenersi a fortiori sussistenti per il legislatore dello Stato membro che dovrà, pertanto, in sede di esercizio del proprio potere discrezionale, garantire – ai sensi dell’art. 10 del Trattato CE – “la piena efficacia delle norme [comunitarie], disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale …”[5].
Si tratta, d’altronde, di acquisizioni ormai consolidate che trovano i necessari antecedenti, logici e giuridici, nella storica sentenza ”Simmenthal” di cui sia consentito richiamarne i capi fondamentali:
(i) “…. le norme [del diritto comunitario] devono esplicare pienamente i loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità …”
(ii) “… i giudici aditi nell’ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario …”
(iii) “… il riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della comunità, o altrimenti incompatibili col diritto comunitario, equivarrebbe infatti a negare, sotto questo aspetto, il carattere reale d’impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente assunti, in forza del trattato, dagli Stati membri, mettendo cosi in pericolo le basi stesse della comunità …”[6].
 
5. il rapporto esistente tra la normativa italiana e la normativa comunitaria – Le argomentazioni svolte consentono di rilevare il peculiare atteggiarsi dell’ordinamento giuridico interno di fronte alle difformi disposizioni di diritto comunitario, siano esse originarie o derivate.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, infatti, il Giudice nazionale deve sempre interpretare il diritto interno in modo conforme al diritto comunitario e, in caso di contrasto non superabile mediante l’applicazione dei normali canoni ermeneutici, è tenuto a disapplicare la norma interna contrastante con la normativa comunitaria.
La Corte di Giustizia ha, in proposito, autorevolmente confermato che:
(i) il Trattato CEE – a differenza dei comuni trattati internazionali – ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli stati membri all’atto dell’entrata in vigore del trattato, che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare;
(ii) tale integrazione nel diritto di ciascuno stato membro di norme che promanano da fonti comunitarie e, più in generale, lo spirito e i termini del trattato, hanno per corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non è opponibile all’ordinamento stesso;
(iii) scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa comunità;
(iv) il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica, quindi, una limitazione definitiva dei loro poteri sovrani[7].
 
6. la giurisprudenza della corte di giustizia sui contratti a termine – Così delineato il campo di indagine, procederemo ora ad esaminare la giurisprudenza della Corte di Giustizia formatasi in tema di interpretazione e applicazione della direttiva 70/1999/CE.
Una, in particolare, la decisione che merita di essere, seppur succintamente, richiamata.
Caso Konstantinos Adeneler e altri contro Ellinikos Organismos Galaktos (procedimento n. 212/04): domanda di pronuncia pregiudiziale proposta da un Giudice greco in tema di interpretazione ed applicazione della clausola 5 dell’Accordo Quadro.
La questione pregiudiziale concerneva, sostanzialmente, la legittimità di disposizioni legislative formulate in termini generici ed astratte nel riferimento alle “ragioni obiettive” legittimanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro.
La Corte di Giustizia, con la nota sentenza emessa in data 04.07.2006 dalla Grande Sezione, ha statuito sul punto quanto segue: «la nozione di “ragioni obiettive”, ai sensi della clausola 5, n. 1, lett. a), dell’accordo quadro deve essere intesa nel senso che si riferisce a circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in tale particolare contesto l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi.
Tali circostanze – prosegue sempre il Giudice comunitario – possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali siffatti contratti sono stati conclusi e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro.
 Di contro, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale ed astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, non soddisferebbe i requisiti precisati nei due punti precedenti.
 Infatti, una siffatta disposizione, di natura meramente formale e che non giustifica in modo specifico l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi con l’esistenza di fattori oggettivi relativi alle caratteristiche dell’attività interessata e alle condizioni del suo esercizio, comporta un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti e non è pertanto compatibile con lo scopo e l’effettività dell’accordo quadro.
[…] Più in particolare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato sulla sola base di una disposizione legislativa o regolamentare di carattere generale, senza relazione con il contenuto concreto dell’attività considerata, non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia atto a raggiungere lo scopo perseguito e necessario a tale effetto.
Di conseguenza – questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Giustizia – […] la nozione di “ragioni obiettive” ai sensi della detta clausola esige che il ricorso a questo tipo particolare di rapporti di lavoro, quale previsto dalla normativa nazionale, sia giustificato dall’esistenza di elementi concreti relativi in particolare all’attività di cui trattasi e alle condizioni del suo esercizio».
Dictum, quello del Giudice comunitario, assolutamente configgente, dunque, con il principio di ordinaria eccezionalità dei contratti a termine, ora consacrato nell’art. 1 del D. Lgs. 368/2001, nella misura in cui la richiamata norma consente l’apposizione del termine di durata al rapporto di lavoro «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro»[8].   
La sentenza ora richiamata, poi, interviene anche su altra questione, sicuramente rilevante ai fini che a noi interessano.
La Corte di Giustizia ha, infatti, sempre in quella sede, affrontato il problema della nozione di “contratti successivi” ai sensi della direttiva 70/1999/CE; questione, quella esaminata, che comprende, includendola, la nozione di “contratti prorogati” ai sensi e per gli effetti rispettivamente dell’art. 2 e dell’art. 4bis del D. Lgs. 368/2001. 
Il Giudice comunitario ha, così, statuito che: «[il] rinvio alle autorità nazionali per la definizione delle modalità concrete di applicazione dei termini “successivi” e “a tempo indeterminato” ai sensi dell’accordo quadro si spiega con la volontà di salvaguardare la diversità delle normative nazionali in materia; è comunque importante ricordare che il potere discrezionale così lasciato agli Stati membri non è illimitato, poiché esso non può in alcun caso arrivare a pregiudicare lo scopo o l’effettività dell’accordo quadro.
In particolare, tale potere discrezionale non deve essere esercitato dalle autorità nazionali in modo tale da condurre ad una situazione che possa generare abusi e pertanto ostacolare il detto obiettivo.
Una siffatta interpretazione si impone in particolare con riferimento ad una nozione chiave, quale quella del carattere successivo dei rapporti di lavoro, che è determinante per la definizione del campo di applicazione altresì delle disposizioni nazionali volte ad attuare l’accordo quadro.
Orbene, si deve constatare al riguardo che una disposizione nazionale che consideri successivi i soli contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale inferiore o pari a 20 giorni lavorativi dev’essere considerata tale da compromettere l’obiettivo, la finalità nonché l’effettività dell’accordo quadro» (Corte di Giustizia, 04.07.2006).
Che dire, allora, della vigente formulazione dell’art. 1 e dell’introduzione dell’art. 4bis nel corpo del D. Lgs. 368/2001 che consentono, ora, indiscriminatamente, l’apposizione del termine al contratto di lavoro e la proroga dello stesso, senza incorrere – in caso di violazione – nella sanzione della conversione del rapporto?
Non sono, forse, le introdotte modifiche, idonee a compromettere «l’obiettivo, la finalità nonché l’effettività dell’accordo quadro»?
 
7. conclusioni – Le conclusioni sono, invero, assai stringate: la norma c.d. “anti-precari”, il principio di ordinaria eccezionalità del termine e le misure di incentivazione degli abusi – introdotte dal legislatore nazionale – sovvertono, stravolgendoli, i principi dettati dalla direttiva 1999/70/CE.  
 
 
 
Marco Tavernese                                                               Enrico Luberto
Avvocato del foro di Roma                                               Avvocato del foro di Roma
LL. M. in diritto internazionale e comunitario                Patrocinante innanzi le magistrature superiori


[1] Nel testo risultante della integrazioni apportate dall’art. 1, comma 39, della L. 242/2007.
[2] Vd. art. 21 del D.L. 112/2008.
[3]  Vd. 6° considerando dell’Accordo quadro – allegato alla direttiva 70/1999/CE – sul contratto a tempo determinato concluso in data 18.03.1999 tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, CEEP e UNICE).
[4] La nozione di applicabilità immediata indica, infatti, la capacità della norma comunitaria derivata di assumere lo statuto di diritto positivo nell’ordinamento giuridico interno, senza che a tal fine siano necessarie misure di ricezione da parte dei singoli Stati membri.
[5] Corte di Giustizia CE, 8 giugno 2000, n. 258.
[6] Corte di Giustizia C.E.E., 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle Finanze dello Stato contro S.p.A. Simmenthal.
[7] Corte di Giustizia, 15 luglio 1964, causa 6-64, Flaminio Costa contro E.N.E.L.
[8] Vd. art. 21 del D.L. 112/2008.

Luberto Enrico – Tavernese Marco

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