La mediazione tributaria

Redazione 25/01/21
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Mediazione tributaria: come funziona?

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Per mediazione tributaria, si intende una proposta di accordo che il contribuente inserisce nell’istanza di reclamo contro determinati atti emanati dall’Agenzia delle entrate. Lo scopo di tale mediazione è dunque quello di evitare il ricorso alla giustizia tributaria per la risoluzione di quelle contestazioni risolvibili in sede amministrativa attraverso un esame volto ad anticipare l’esito ragionevolmente atteso del giudizio.
Attraverso la mediazione, si offre al contribuente la possibilità di avvalersi di una procedura più snella ed immediata evitando così gli oneri e le lungaggini di una procedura giudiziaria ordinaria.
La mediazione tributaria trova applicazione con riferimento agli atti suscettibili di reclamo notificati e decorrere dal 1° aprile 2012 e precisamente gli atti ricevuti dal contribuente a decorrere da tale data.
L’art. 17-bis, inserito nel decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 dall’art. 39, comma 9 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni
dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 e modificato, da ultimo, dal decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, prevede, infatti, come obbligatorio il ricorso alla mediazione tributaria se il valore della causa non è superiore a € 50.000,00.
Tale limite è stato variato dal precedente di € 20.000,00 a seguito dell’entrata in vigore della c.d. Manovra correttiva di aprile 2017.
La modifica si applica agli atti impugnabili notificati a decorrere dal 1° gennaio 2018.
Pertanto, per tutti gli atti notificati entro il 31 dicembre 2017 si fa riferimento ancora al vecchio limite di € 20.000,00.

Fase amministrativa preliminare

Il legislatore ha individuato, sulla base di specifici criteri, una tipologia di controversie rispetto alle quali il ricorso deve essere preceduto da una fase preliminare di carattere amministrativo.
Nella specie, i criteri individuati dalla norma attengono: 1. alla tipologia di atto impugnato, che prima della riforma era limitato ai soli atti emessi dall’Agenzia delle entrate, adesso esteso agli atti emessi da qualunque Ente impositore; 2. alla parte resistente nell’eventuale giudizio; 3. al valore della controversia che, come detto, non deve essere superiore a € 20.000,00 per atti notificati fino al 31 dicembre 2017 e a € 50.000,00 per atti notificati dal 1° gennaio 2018.
Il valore della controversia va determinato con riferimento a ciascun atto impugnato ed è dato dall’importo del tributo contestato dal contribuente con il ricorso, al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate.
In caso di impugnazione di sole sanzioni il valore della lite è dato dalla somma delle sanzioni contestate.
Infine, in ipotesi di rettifiche di perdite il valore sarà dato dall’imposta c.d. “virtuale”. Sul punto, la circolare 12/E/2016 precisa che restano valide le indicazioni
relative alle modalità di calcolo del valore della controversia laddove l’avviso di accertamento rettifichi le perdite dichiarate, in quanto in proposito non sono state apportate modifiche all’articolo 17-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546.
Con ordinanza n. 38 del 15 febbraio 2017, la Corte Costituzionale è intervenuta sull’istituto in oggetto precisando che il legislatore ha perseguito l’interesse generale alla deflazione del contenzioso tributario in modo ragionevole, prevedendo il rinvio dell’accesso al giudice con riguardo alle liti (quelle nei confronti dell’Agenzia delle entrate) che notoriamente rappresentano il numero più consistente delle controversie tributarie ed, al contempo, a quelle di esse che comportano le minori conseguenze finanziarie sia per la parte privata che per quella pubblica.

Pertanto, secondo il giudice delle leggi, la scelta del legislatore, in quanto congrua rispetto alla ratio dell’intervento normativo, è frutto di un corretto esercizio della discrezionalità legislativa, non censurabile né sul piano del diritto alla tutela giurisdizionale, né su quello del rispetto dei princìpi di uguaglianza e di ragionevolezza.
Il legislatore ha, quindi, voluto perseguire l’interesse generale alla deflazione del contenzioso tributario in modo ragionevole, prevedendo il rinvio dell’accesso al giudice con riguardo alle liti, che notoriamente rappresentano il numero più consistente delle controversie tributarie ed, al contempo, a quelle di esse che comportano le minori conseguenze finanziarie sia per la parte privata che per quella pubblica.
Tale scelta è frutto di un corretto esercizio della discrezionalità legislativa, non censurabile né sul piano del diritto alla tutela giurisdizionale, né su quello del rispetto dei princìpi di uguaglianza e ragionevolezza.
Il reclamo e la mediazione, col favorire la definizione delle controversie (che rientrino nel menzionato àmbito di applicazione dei due istituti) nella fase pregiurisdizionale tendono a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice aspetto: da un lato, assicurando un più pronto e meno dispendioso (rispetto alla durata
e ai costi della procedura giurisdizionale) soddisfacimento delle situazioni sostanziali oggetto di dette controversie, con vantaggio sia per il contribuente che per l’amministrazione finanziaria; dall’altro, riducendo il numero dei processi di cui sono investite le Commissioni tributarie e, conseguentemente, assicurando
il contenimento dei tempi ed un più attento esame di quelli residui (che, nell’àmbito di quelli promossi nei confronti dell’Agenzia delle entrate, comportano le più rilevanti conseguenze finanziarie per le parti).
Più in generale, la mediazione tributaria costituisce una forma di composizione pregiurisdizionale delle controversie basata sull’intesa raggiunta, fuori e prima del processo, dalle stesse parti (senza l’ausilio di terzi), che agiscono, quindi, su un piano di parità.

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