La mediazione in una parabola del Vangelo

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La mediazione, di cui oggi si parla tanto e di cui si avverte tanto la necessità tanto da renderla obbligatoria in alcuni settori, ha origine antiche e in particolare affonda le sue radici anche nella religione cristiana, in cui si afferma che Gesù è mediatore, Maria la mediatrice, il sacerdote mediatore tra Dio e gli uomini.

Molti sono i brani dei Vangeli che offrono spunti per riflettere sulla mediazione ma ve n’è uno che consente di interpretare la mediazione in seno alla cosiddetta “giustizia del quotidiano”. Si tratta della parabola del padrone della vigna e degli operai (vangelo di Matteo, cap. 20 versetti 1-16), dove il padrone della vigna è il mediatore e gli operai sono i confliggenti.

In alcune traduzioni il padrone è chiamato “padre di famiglia” (anche la parola “padrone” deriva da “padre”), figura che si addice al mediatore, che come un padre di famiglia deve avere capacità di gestione dei conflitti con “neutralità formativa” e “decantazione narrativa” (il pedagogista Daniele Novara), ovvero senza parteggiare, nemmeno a favore del più debole, deve far “raccontare” (ripercorrere i propri vissuti, mettersi in relazione con i propri irrisolti) a ciascuno la propria versione dei fatti senza offendere o minacciare l’altro in modo che “decomponendo” la conflittualità gli interessati possano autonomamente “comporre” una soluzione.

Il padrone della vigna fa da traghettatore, da ponte, dà la possibilità di rimuovere un ostacolo, come fa il mediatore. Chiama a sé gli operai inoperosi che stavano senza far nulla perché l’animosità porta a non far nulla, alla vischiosità, all’offuscamento della mente e all’annientamento dell’azione, a non riuscire più a venirne fuori.

Il mandare gli operai nella vigna rappresenta incanalare, imbrigliare la conflittualità, ma anche ridare a ciascuno la propria identità, la propria sfera giuridica e psicologica. Passare dalla piazza alla vigna significa anche passare dallo spiattellare i conflitti (sino alla spettacolarizzazione), dall’esacerbarli a riprendersi una dimensione di riservatezza (che è uno dei principi della mediazione). La vigna rappresenta pure la stanza della mediazione in cui il mediatore fa da supervisore, mentre i confliggenti si sporcano le mani, affondano le mani nella conflittualità per districarne i nodi.

Il padrone chiama gli operai in diverse ore: la reiterazione delle chiamate può simboleggiare le diverse sedute di mediazione.

L’evangelista non scrive quello che gli operai dicono o fanno nella vigna; questo sta a significare che i confliggenti devono riacquistare il vero silenzio, devono crearsi una “zona neutra” nella loro testa che sia pronta ad accogliere nuove esperienze. La delimitazione della vigna ricorda anche quelle pratiche relazionali come il “gruppo di parola”, il “circle time” o altre, in cui c’è un confronto, un fermarsi e sedersi (sitting) che esprimono la disponibilità all’ascolto.

Il padrone della vigna si fa aiutare dal fattore, immagine che evoca la comediazione, la mediazione condotta da due mediatori o da un team multidisciplinare.

Uno dei verbi più usati nella parabola è il verbo “prendere”, che richiama precipuamente il concetto di “presa in carico”. “Prendere” si addice al percorso della mediazione per i significati che gli derivano dalla lingua latina come “fermare qualcuno” e “intuire”, perché la mediazione vuole fermare il circolo vizioso dei conflitti e far intuire ad ogni persona il malessere dell’altra. Inoltre i confliggenti tornano a imparare a “prendere la parola”, a “prendere parte”, a “prendere la responsabilità”. Si possono riferire alla mediazione anche i verbi composti quali “intraprendere”, “apprendere”, “comprendere”, “sorprendere”, “riprendere”. Anzi questi verbi possono indicare le tappe, gli steps della mediazione: s’intraprende la mediazione per apprendere nuove modalità relazionali, ci si comprende e ci si sorprende vicendevolmente per riprendere la vita relazionale in modo nuovo o comunque diverso (etimologicamente “volgere in opposta direzione”). Inoltre il prendere presuppone un dare nella circolarità della relazionalità; la mediazione cerca così di realizzare una sorta di antropologia della reciprocità. Mentre il verbo “lavorare”, che compare pure nel brano evangelico, richiama il concetto di “lavorare su se stessi”, ciò che dovrebbe fare innanzitutto il mediatore per essere libero da pregiudizi e conflitti interiori.

Alla fine della giornata gli operai ricevono tutti la stessa ricompensa perché tutti hanno lo stesso valore, la stessa dignità e nel contempo la stessa responsabilità. Inoltre il padrone dà a tutti la stessa ricompensa perché il suo intervento è uguale per tutti per costruire nuove e più equilibrate relazioni. Tutti hanno la stessa paga (etimologicamente “pacificare”), la stessa ricompensa (etimologicamente “mettere in contrappeso, equilibrare”) perché tutti si aspettano e meritano la stessa soddisfazione interiore, lo stesso benessere.

Gli operai della prima ora che, dopo aver ricevuto la paga (versetto 11), cominciano a brontolare, a mormorare (questi rappresentano dei “rumori interni”, in inglese “noise”, delle interferenze nella comunicazione) vogliono mantenere la distanza dagli ultimi, invece il padrone vuole eliminare questa distanza, vuole che tutti avvertano la fatica (versetto 10), il peso, vuole ripristinare la comunicazione (dal latino “cum”, con e “munus”, incarico, “che compie il suo incarico insieme con altri”). Quando si avverte un peso, una sofferenza nono conta l’entità, ma l’intensità, per cui la mediazione vuole creare un’osmosi relazionale. Questo significa che la mediazione, a differenza della conciliazione, è un percorso anche interiore che coinvolge i propri conflitti interiori (cosiddetti “tasti dolenti”) e non è detto che giunga a compimento.

Il padrone che rispetta l’accordo con tutti (versetto 13) indica il mediatore che rispetta il suo ruolo senza travalicare.

Quando il padrone della vigna parla di “vedere di mal occhio” o “occhio cattivo” o “essere invidioso” (differenti traduzioni del versetto 16) e conclude dicendo che “gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi” vuol essere un’educazione dello sguardo, un’educazione a vedere l’altro con occhi diversi, a riacquistare il “rispetto” (etimologicamente “guardare di nuovo, guardare indietro”), evitare il vivere la vita in competizione, in concorrenza, cercando di primeggiare, rinfacciandosi recriminazioni. La mediazione è un ribaltamento del pensare comune nel quale ci sono vincitori e vinti.

Il padrone si rivolge ad uno degli operai chiamandolo “amico” (versetto 13) come il mediatore cerca di creare un ambiente (setting) amichevole.

Alla fine il padrone pone delle domande (versetti 13-15) in cui usa il “forse”, non dà consigli o certezze, usa la “pedagogia della domanda” (dall’educatore Danilo Dolci) in modo tale che le persone cerchino in se stesse le risposte e la strada (self empowerment).

Tutta la parabola e soprattutto la sua conclusione vertono sul concetto di giustizia. La mediazione attua una giustizia diversa da quella del senso comune, è la giustizia della “prossimità”, in cui il mediatore non deve essere “super partes” come il giudice ma “inter partes” (è questo il significato letterale di mediazione), infatti, è opportuno parlare di sua “equivicinanza” alle persone e non di “equidistanza”. Prossimità perché ognuno si fa prossimo all’altro, perché il risultato è quello più prossimo alle “esigenze” (etimologicamente “ciò che viene fuori”) delle persone e non a quelle eteroimposte dalla legge.

Dott.ssa Marzario Margherita

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