La mancanza del nesso di causalità esclude la responsabilità del sanitario

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I fatti

La parte attrice citava in giudizio l’azienda sanitaria locale per richiedere l’accertamento della responsabilità sanitaria di quest’ultima e il risarcimento per i danni patrimoniali e non subiti, in relazione al parto della moglie (poi, terza intervenuta nel processo) e al decesso del figlio neonato.

In particolare, l’attore deduceva che a fine decorrenza del periodo di gravidanza, dopo aver trascorso un normale e stabile percorso di gestazione, la moglie veniva punta da un’ape e riversava in uno stato di shock anafilattico, che veniva adeguatamente trattato presso l’Ospedale di Empoli. Nonostante la madre fosse stata stabilizzata dai medici, la condizione di gravidanza allo stadio finale della donna richiedeva un intervento emergenziale sul feto: veniva, infatti, disposto di procedere ad un parto tramite taglio cesareo. L’eccezionalità e gravità del fatto richiedeva, fin da subito, un intervento di rianimazione primaria e di successivo trasferimento del neonato in Pediatria. L’attore sosteneva, poi, che a fronte di un “indice di benessere” APGAR non conforme ai parametri, sarebbe stato necessario l’intervento immediato, oltre che del solo medico pediatra, anche di un cardiologo e/o uno pneumologo. Secondo, la parte attrice, quindi, il circuito terapeutico assistenziale, dapprima con la richiesta di intervento del Cardiologo e, successivamente, con la richiesta di azione preminente del Neonatologo del TIN del Meyer, sarebbe dovuto essere stato attivato ben prima di quanto disposto dall’Ospedale, proprio in quanto ci si trovava in una situazione emergenziale (dettata dallo stato avanzato di gravidanza) e di aggravamento rapido delle condizioni del neonato.

L’attore concludeva sostenendo che l’evento trombo-elitico che aveva determinato la morte del piccolo non fosse stato impedito dalla mancata effettuazione di una ecografia tardiva che non ha, dunque, permesso ulteriori interventi. al contrario, secondo l’attore, se fosse stata eseguita per tempo, l’ecografia avrebbe permesso di accorgersi che il CVO era mal posizionato e un tempestivo intervento sulla causa di ciò avrebbe potuto evitare l’esito della morte. In considerazione di ciò, l’attore affermava la responsabilità della struttura sanitaria convenuta, conseguente alla condotta imperita dei medici che aveva causato direttamente l’evento-morte del neonato.

La parte convenuta, costituitasi in giudizio, eccepiva che la responsabilità dei medici doveva essere esclusa per il fatto che non era stata accertata la causa del decesso ed era invece emerso sulla base di quanto accertato dalla C.T.U.) che i medici avessero rispetto le linee guida. Infatti, secondo la convenuta, posto che la responsabilità medica è una responsabilità presunta, per liberarsi dalla presunzione di colpa, è sufficiente che il medico dimostri di aver agito diligentemente e in modo conforme alle regole della professione (secondo quanto previsto dall’art. 5 della Legge Gelli-Bianco), senza che questi abbia l’onere di fornire la prova concreta della causa reale del danno. Nel caso di specie, proseguiva la struttura sanitaria convenuta, la parte attrice non aveva provato che la condotta dei medici fosse non aderente alle Linee Guida e non conforme alle buone pratiche medico-legali.

Il giudice ha rigettato la domanda di parte attrice (cui aderiva anche la terza intervenuta), ritenendo sostanzialmente che non vi fosse stata alcuna imperizia dei medici della struttura sanitaria convenuta.

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Analisi giuridica

Il caso oggetto di commento riguarda il tema della responsabilità medica, che sussiste quando viene accertato il nesso causale tra la lesione alla salute psicofisica di un individuo e la condotta dell’operatore sanitario, in concomitanza o meno con le carenze e/o inefficienze di una struttura sanitaria.

Tuttavia, affinché sia possibile accertare che vi sia stata una condotta colposa del sanitario, causata da negligenza, imperizia o negligenza, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti e discipline, è necessario accertare l’esistenza del nesso causale tra l’errore commesso dall’operatore sanitario e il danno subito dal paziente, al fine di qualificare il secondo come diretta conseguenza del primo.

Intervento di notevole rilevanza su questo aspetto è rappresentato dalle disposizioni contenute all’interno della Legge 2472017 (c.d. Legge Gelli-Bianco). In particolare, con riferimento al caso oggetto della sentenza in commento, è rilevante il disposto dell’art. 5, comma 1, secondo cui: “Gli esercenti le professioni  sanitarie,  nell’esecuzione  delle prestazioni  sanitarie  con   finalità   preventive,   diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative  e  di  medicina  legale,  si attengono,  salve   le   specificità   del   caso   concreto,   alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate  ai  sensi  del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco  istituito  e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente  legge, e da aggiornare con cadenza  biennale.  In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si  attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”.

L’art. 5 conferma che quanto disposto nelle Linee Guida, elaborate dalla Comunità scientifica, risulta essere fondamentale per la valutazione in sede di processo della condotta del sanitario. Dunque, viene prescritto che, nell’esecuzione delle prestazioni, gli operatori sanitari devono seguire le raccomandazioni in esse contenute e, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali.

Nel caso oggetto di commento, la parte convenuta contesta, infatti, che la parte attrice non abbia dimostrato che la condotta dell’equipe sanitaria fosse stata posta in essere in violazione delle linee guida relative alla gestione della situazione patologica in essere sulla gestante e sul feto.

Infine, è interessante evidenziare che nel caso di specie la parte attrice chieda, oltre all’accertamento della responsabilità dei medici, anche il risarcimento del danno non patrimoniale (ex art.2059 c.c.) quale danno morale subiettivo. In casi simili, infatti, il turbamento psicologico del soggetto offeso è qualificato come danno derivante dal fatto illecito lesivo della salute e costituisce condizione di risarcibilità del medesimo. È indubbio, infatti, che dinanzi a eventi così gravi come la morte di un neonato, possa sussistere un turbamento psicologico dei genitori.

La pronuncia del Tribunale

Il Tribunale fiorentino ha rigettato la domanda risarcitoria di parte attrice e della terza intervenuta, ritenendo insussistente il nesso di causalità, alla luce delle risultanze emerse dalla relazione peritale depositata dai due CTU nominati. Secondo il giudice, infatti, come accertato dai CTU, non sussiste nessun collegamento causale tra le condotte omissive dei medici (in riferimento alla contestazione circa la mancanza dell’ecografia che avrebbe permesso di scoprire preventivamente che il CVO era stato mal posizionato) e l’evento morte, in quanto è emerso che il decesso del neonato è causa consequenziale della condizione di anafilassi in cui versava la madre.

Mancando, dunque, il nesso causale tra la condotta e l’evento, il giudice ha concluso nel senso che non vi fosse responsabilità alcuna imputabile agli operatori sanitari che erano intervenuti, risultando irrilevante la valutazione sulla tempestività della ecografia che avrebbe permesso di accertare in un momento precedente la non corretta collocazione del CVO (proprio perché non è stata tale non corretta collocazione a causare la morte).

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Sentenza collegata

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