La giustizia delle emozioni: differenze tra la mediazione e altre forme di giustizia alternativa

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La crisi in cui la giustizia italiana versa da qualche tempo, la litigiosità crescente, l’insicurezza sociale, l’allargamento della tutela dei diritti (es. tutela dei consumatori, dell’ambiente, della privacy) e la conseguente maggiore consapevolezza giuridica hanno determinato dagli anni ’90 numerosi interventi legislativi volti alla cosiddetta degiurisdizionalizzazione (tra gli ultimi, il decreto legislativo 2 febbraio 2006 n.40 sulla riforma dell’arbitrato).
È opinione comune che la mediazione partecipi di questo processo, vale a dire che sia uno dei mezzi sostitutivi o alternativi della lite giudiziaria. Quelli oggi conosciuti, perché disciplinati dal legislatore o perché diffusi nella prassi, sono i seguenti.
Transazione: è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro (art. 1965 c. 1 cod. civ.).
Conciliazione (stragiudiziale e giudiziale): è l’accordo con il quale le parti decidono di definire una controversia, di regola mediante l’intervento di un terzo (il conciliatore).
Arbitrato (rituale e irrituale): cosiddettoprocedimento speciale mediante il quale le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte (art. 806 cod. proc. civ.).
Negoziazione: trattative, di norma mediante un terzo in qualità di negoziatore, per giungere ad un accordo cosiddetto negoziato.
ADR (Alternative Dispute Resolution): risoluzione alternativa delle controversie con cui ci si può riferire tanto ai mezzi suindicati tanto a nuovi mezzi idonei al medesimo scopo.
La mediazione si distingue dalla transazione per la natura, perché non è un contratto; per l’oggetto, che non è una lite (più volte richiamata, anche con sinonimi, nella disciplina codicistica; si vedano gli artt. 1965 e segg. cod. civ.) ma uno stato di conflittualità; per le modalità, in quanto non è finalizzata a reciproche concessioni ma ad un reciproco riconoscimento di diritti e di doveri. Tra l’altro, etimologicamente transazione deriva dal verbo latino transigere, che significa “spingere oltre”, orientamento che non riguarda invece la mediazione (dal latino mediare, “essere a metà”).
La conciliazione e la mediazione si avvicinano per la struttura ternaria e per la logica operativa di fondo, ossia il risultato deve essere condiviso dalle parti, ma i due mezzi differiscono tra loro per la professionalità dell’operatore e per lo scopo. La prima mira all’accordo, la seconda alla rielaborazione della comunicazione.
Tra la mediazione e la conciliazione vi è, pertanto, una differenza semantica e ontologica. Il mediatore non mira alla soluzione di conflitti e, tanto meno, ad una conciliazione (dal latino cum calare, “chiamare insieme”), che significa riunire, legare insieme, rendere amici, ma tenta di ridurre gli effetti indesiderabili di un conflitto più o meno grave, in altre parole di favorire una sospensione, almeno temporanea, delle ostilità e quindi una ripresa del dialogo tra persone che pacificamente possano riconoscersi differenti (riconoscimento dell’alterità e dell’alienità), al fine di consentire loro di riappropriarsi della propria attiva e responsabile capacità decisionale. Le parti confliggenti devono poter passare dalla condizione di “soggetto agito” e agitato dalle proprie reazioni emotive all’interno delle dinamiche del conflitto, a quella di “soggetto agente”, elaborando e proponendo esse stesse un progetto costruttivo di regolamentazione concordata del conflitto.
Vi è, poi, una differenza deontologica: data la peculiarità della materia, quella relazionale (e comunque si tratta di persone che devono continuare a convivere, per esempio nel posto di lavoro, o a condividere qualcosa o qualcuno, come nel caso della genitorialità), il mediatore è ancor più del conciliatore tenuto al dovere di segretezza.
La mediazione e l’arbitrato hanno origini antiche e sono caratterizzate dalla volontarietà, nel senso che le parti volontariamente si sottopongono all’uno o all’altro meccanismo, ma si differenziano sociologicamente e giuridicamente. Sociologicamente perché l’arbitro, in qualità di giudice privato, era ed è considerato con più autorità, mentre il mediatore, in qualità di paciere o moderatore, era ed è considerato con minore autorità. Giuridicamente perché l’arbitrato si fonda sul compromesso (o clausola compromissoria o convenzione, artt. 806 e segg. cod. proc. civ.), non ha per oggetto la materia relazionale ma la controversia ed è finalizzato alla soluzione di quest’ultima, più volte citata nella disciplina codicistica. Mentre l’arbitro decide per le parti, il mediatore accompagna le parti a riappropriarsi della capacità di decidere (self-empowerment). Inoltre la terzietà dell’arbitro si traduce in equidistanza dalle parti, invece quella del mediatore deve intendersi più opportunamente come equivicinanza alle parti.
Le peculiarità della mediazione, che ne costituiscono la portata innovativa (o meglio, la portata cre-attiva) rispetto agli altri mezzi, sono il ruolo che riveste il mediatore (od operatore della mediazione, come preferiscono dire alcuni che non vogliono che s’istituisca un’altra figura professionale), il quale funge da conflict coach (il coach letteralmente è il cocchiere); la prospettiva della parte confliggente che non è un avversario né un nemico, ma uno sparring-partner (espressione mutuata dal pugilato in cui è l’allenatore; nel linguaggio comune è l’interlocutore); l’ambiente in cui si svolge (in gergo setting), la cosiddetta stanza della mediazione, considerata dall’esperta di mediazione Anna Coppola De Vanna una stanza di lievitazione, in cui dal lievito si ricava qualcosa di nuovo e di buono come il pane.
Tecnicamente ed etimologicamente la mediazione è un intervento (dal latino inter venire, venire in mezzo) per interpretare (dal latino inter partes, tra le parti) un conflitto[1] (dal latino confligere, in Lucrezio “far incontrare”, in Cicerone “mettere a confronto”) su un interesse (dal latino inter esse, essere in mezzo), non necessariamente opposto ma il più delle volte comune (un esempio per tutti, l’affidamento dei figli in caso di separazione dei coniugi).
La mediazione, a differenza degli altri mezzi stragiudiziali, cerca di evitare la strumentalizzazione della giustizia e l’esacerbazione degli animi che si verifica in alcuni casi (per esempio beghe condominiali o questioni ereditarie).
In definitiva, con la mediazione, non si realizza la degiurisdizionalizzazione perché comunque le parti confliggenti possono ricorrere al giudice. Si realizza, invece, quella cultura di pacificazione sociale che ha portato all’istituzione del giudice di pace (art. 319 cod. proc. civ.) e all’introduzione di un’apposita udienza per l’interrogatorio libero ed il tentativo di conciliazione nel processo ordinario di cognizione (art. 185 cod. proc. civ. come novellato nel 2005). E si contribuisce all’”umanizzazione” del sistema della giustizia, o meglio alla promozione di una nuova forma di giustizia variamente detta "giustizia emozionale, dei sentimenti, del quotidiano, della prossimità", che tiene conto non solo dei diritti sanciti legislativamente ma anche dei bisogni affettivi e relazionali, dei reali interessi delle parti e non degli pseudo-interessi spesso rappresentati nel processo.
La mediazione – che fa parte di quel vasto fenomeno citizen (collaborativo, partecipativo) che sta interessando ogni settore – vivifica alcuni dei principi fondamentali della nostra Costituzione, tra cui quelli contenuti negli artt. 1-3. Parafrasando il dettato dell’art. 3 comma 2, la mediazione evidentemente rimuove gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione alla vita del Paese. La partecipazione, se si esamina il significato etimologico (dal verbo latino capere), è innanzitutto un processo interiore, proprio quanto avviene nella mediazione.
La mediazione, da quella aziendale a quella territoriale, è una relazione (tecnicamente si dice relazione d’aiuto), e quindi educazione, che recuperando o riorganizzando i rapporti interpersonali concorre alla funzione di comunità educante, o in senso più comprensivo, di società educante.
In altri termini, la mediazione è un nome nuovo per designare un fenomeno antico come la società umana[2].
 
Dott.ssa Margherita Marzario


[1] Cfr. sul significato “positivo” di conflitto, fra gli altri, Cittadinanza come governo dei conflitti di Laura Paoletti, docente universitaria di storia della filosofia italiana e segretario generale della Fondazione Nova Spes
[2] Mediares, n.1 gennaio-giugno 2003, p.25

Dott.ssa Marzario Margherita

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