La genitorialità tra letteratura e diritto

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La generosità della genitorialità

Si fa un gran parlare della genitorialità definendola in vario modo, da quella competente a quella a rischio, ma diventa difficile delinearla. Sarebbe interessante leggere qualche pagina della letteratura, che offra spunti di riflessione di carattere giuridico.

Famoso il brano de “Il Profeta” (1923) di Gibran Kahlil Gibran “I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha in sé. Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro, e benché stiano con voi non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri, perché essi hanno i propri pensieri. Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime, perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno. Potete sforzarvi d’essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con ieri. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi”. Altrettanto esemplificativa l’immagine tratteggiata da don Antonio Mazzi1: “I figli non sono piantine da tenere nei vasi in casa, ma alberi da piantare davanti casa.” Questa similitudine è davvero emblematica perché: a) il significato simbolico dell’albero è che ha radici (i valori), chioma (il pensiero), frutti (l’impegno), è un organismo vivente (e non come sono talvolta trattati i bambini, come oggetti da ostentare o pacchi da trasportare da una parte all’altra), con una propria identità, che ha bisogno di cure e tempo, che cresce, cambia e realizza il proprio modo d’essere; b) vicino alla casa familiare, per sottolineare l’importanza dei punti di riferimento; c) fuori di casa, perché i figli sono proiettati verso l’esterno. Non a caso l’immagine dell’albero è stata proposta anche dall’UNICEF per raffigurare l’albero dei diritti per l’infanzia e per il parallelo tra “un bambino e un albero che hanno bisogno di venti anni per crescere”.

Essere genitori non deve significare avere dei figli come una proprietà (da cui parte anche la concezione sbagliata di diritto ad avere un figlio ad ogni costo in caso d’infertilità) tanto che si dovrebbe evitare di adoperare gli aggettivi possessivi (con un senso d’appartenenza; non a caso il nostro legislatore non usa aggettivi quando si riferisce al rapporto genitori-figli). Essere genitori significa dare la vita ai figli ed anche il codice della vita mediante l’educazione e l’istruzione, che sono e restano i compiti fondamentali della famiglia. E’ questo il nucleo della genitorialità che indica proprio la relazione genitori – figli; è questo il vero significato di genitorialità che non s’identifica (o non solo) con geneticità o generatività ma con generosità (dal latino gens, complesso di più famiglie o popolo; quindi indica apertura verso gli altri).

Il summenzionato brano di Gibran dovrebbe indurre, come già più volte auspicato, il nostro legislatore ad abbandonare il concetto e la categoria di potestà dei genitori, di memoria romanistica, per seguire l’esempio di altri ordinamenti europei e di quello comunitario in cui si parla di “responsabilità”.

La legge 19 maggio 1975 n.151 di riforma del diritto di famiglia ha convertito la patria potestà in potestà dei genitori, ma non ha abbandonato del tutto una prospettiva patriarcale. Per esempio si veda l’art. 316 comma 4 in cui ci si riferisce solo al padre; oppure negli artt. 348 e 350 compariva ancora la locuzione patria potestà, sostituita poi nel 1981 con potestà dei genitori. Si noti che nel codice civile ci si riferisce ai “diritti del minore” in senso ampio solo nel campo patrimoniale (art. 323). E comunque si parla ancora di patria potestà nel linguaggio comune e addirittura in alcune sentenze.

La novella legislativa del ’75 ha introdotto timidamente il concetto di responsabilità solo nell’art. 279 del codice civile a proposito dei figli naturali non riconoscibili. Altre espressioni più confacenti sono state usate in leggi speciali e purtroppo il nostro legislatore non ha saputo cogliere l’occasione per rivedere il contenuto della genitorialità nemmeno nella legge 8 febbraio 2006 n.54. Quest’ultima legge, pur novellando interamente l’art. 155 del codice civile, ne ha lasciato intatta l’infelice rubrica “Provvedimenti riguardo i figli” (anziché intitolarlo “Diritti dei figli”, come situazione giuridica attiva corrispondente ai doveri verso i genitori, di cui all’art. 315) e non ha accolto la proposta di prevedere un risarcimento danni per i figli in caso di gravi inadempienze da parte dei genitori o di atti che comunque arrechino pregiudizio ai minori durante l’affidamento (com’era previsto nella cosiddetta proposta Tarditi n.66 del 2001 della XIV legislatura). Apprezzabile, però, nel nuovo testo dell’art. 155 è l’espressione “potestà genitoriale” ontologicamente diversa dalla consueta “potestà dei genitori”, nel senso che la potestà non è una sfera che appartiene ai genitori in qualità di singoli ma afferisce alla genitorialità in quanto relazione con altri soggetti (quella genitorialità espressamente prevista in altre proposte prima dell’emanazione della suddetta legge n.54).

Tutto ciò dovrebbe mettere in guardia i genitori che attraversano una crisi di coppia a non tenere quegli atteggiamenti negativi che causano nei figli la P.A.S. (Parental Alienation Syndrome, sindrome di alienazione genitoriale) o altri disturbi, quali quelli del comportamento alimentare, in continuo aumento anche in età infantile. I genitori non devono dimenticare che sono i primi responsabili della salute e educatori alla salute (a cominciare da quella mentale) dei figli, anche in caso di separazione, come ricorda il novellato testo dell’art. 155 comma 3 del codice civile.

Inoltre l’appartenenza dei figli alla Vita, di cui scrive Gibran, suffraga la genitorialità sociale, categoria mutuata, come quella della proximité, dalla dottrina francese (parenté sociale: les ressources de la communauté pour soutenir les parents, la paternalité).

La genuinità della genitorialità

Un tema tanto caro a Luigi Pirandello è la paternità, anche in seguito al suo rapporto controverso col padre. Interessante a tale proposito è la commedia in tre atti “Tutto per bene” (1906) centrata sul fare il padre ed essere padre. Nel terzo atto si parla del rappresentare le varie parti in famiglia, del credersi padre ed essere creduto padre, del guadagnarsi la stima e l’affetto. La paternità (ma vale anche per la maternità) è un riconoscimento reciproco, psicologico nonché sociale. Non a caso nelle antiche società il padre riconosceva come suo il neonato, sollevandolo da terra e posandolo sulle sue ginocchia ed il bambino reagiva naturalmente piangendo (da qui l’etimologia di genuino, dal latino genu, ginocchio).

Quella paternità oggi tanto contesa a cui è dedicato l’art. 30 comma 4 della Costituzione dove si parla di “ricerca della paternità” quasi preludendo alla situazione odierna in cui si denuncia, tra l’altro, la latitanza dei padri2.

La legislazione degli anni ’70 ha ridisegnato, anche se con qualche contraddizione, la figura paterna non più caratterizzata da autoritarismo e compiti esterni alla famiglia ma da parità e collaborazione con la figura materna e piena partecipazione alla vita familiare, mentre le leggi precedenti si erano occupate prevalentemente della maternità e dell’infanzia.

Per esempio nella legge 6 dicembre 1971 n. 1044 sull’istituzione degli asili nido si nomina più volte la famiglia, mentre una sola volta la donna: “politica per la famiglia”, “adeguata assistenza alla famiglia”, “esigenze delle famiglie”, “partecipazione delle famiglie”. Nel D.P.R. 31 maggio 1974 n. 416 sugli organi collegiali della scuola si parla di rappresentanti dei genitori, mentre sino ad allora la carriera scolastica dei figli era ritenuto campo d’interesse delle madri. Nella legge 29 luglio 1975 n.405 sull’istituzione dei consultori familiari, tra le varie situazioni previste si menziona, per due volte, la coppia. Nella legge 22 maggio 1978 n. 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza è coinvolto nelle procedure anche “il padre del concepito, ove la donna lo consenta” (quest’ultima previsione è una contraddizione).

Oggi, purtroppo, si assiste o all’assenza del padre o alla maternalizzazione del padre contravvenendo alla naturalità della genitorialità che, in quanto tale, richiede entrambi i ruoli non solo al momento del concepimento ma in qualsiasi momento della vita del figlio. La disciplina costituzionale della famiglia (artt. 29-31) è, a tale proposito, paradigmatica, perché si parla distintamente e progressivamente di “società naturale”, “genitori”, “paternità”, “maternità”. Da notare, poi, che il costituente ha menzionato la paternità nello stesso articolo, art. 30, che è quello centrale, in cui si disciplinano i doveri e i diritti di entrambi i genitori, proprio per richiamare che si è padri e madri, con identità diverse e quindi modalità differenti, nell’ambito della stessa sfera giuridica e relazionale, che non è altro che quella che oggi è denominata genitorialità (che per la sua duplice natura non avrebbe bisogno di essere qualificata bigenitorialità o cogenitorialità).

La legislazione dell’ultimo decennio sta dando sempre più concretezza ai principi costituzionali, a cominciare dalla legge 8 marzo 2000 n. 53 “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città”, meritevole già dalla sua rubrica.

La genialità della genitorialità

Nel romanzo “Pura vita” (2001) Andrea De Carlo racconta un viaggio di vacanza di un padre e della figlia adolescente. Molto significativi sono i dialoghi tra i due protagonisti.

Nel sesto capitolo il padre spiega alla figlia: “Dentro i muri ogni famiglia diventa un teatrino privato. Un tempo i padri facevano l’impresario e il regista e lo scenografo e l’attore principale. Nessuno poteva uscire, anche se il repertorio era limitato ed era stato ripetuto così tante volte che tutti lo conoscevano a memoria”. In questo brano emerge l’arretramento che ha subito la figura paterna, dall’essere schiacciante all’essere evanescente; è interessante soffermarsi su questa metafora teatrale perché il teatro, oltre a richiamare numerosi significati positivi, fa venire in mente anche la recitazione di un ruolo fisso. “E’ una famiglia disturbata quella in cui ogni membro ha un ruolo fisso, e la comunicazione è rigidamente limitata alle espressioni che si adattano a questi ruoli. Nessun membro è libero di esprimere pienamente le sue esperienze, i desideri, i bisogni e i sentimenti, ma deve limitarsi a recitare la sua parte, in conformità a quella che recitano gli altri componenti della famiglia. In tutte le famiglie esistono dei ruoli ma, con il cambiare delle circostanze, anche i vari membri devono cambiare e adattarsi alle novità perché la famiglia resti sana. Così il tipo di cure materne appropriate per un bambino di un anno sarà del tutto inopportuno per un tredicenne; anche il ruolo materno deve cambiare per adattarsi alla realtà. Nelle famiglie disturbate, molti aspetti importanti della realtà vengono negati, e i ruoli restano rigidi. Quando nessuno può discutere quello che riguarda un singolo membro della famiglia o la famiglia nel suo insieme, quando questi discorsi sono proibiti implicitamente (se si cambia argomento) o esplicitamente (“Noi non parliamo di queste cose!”), si impara a non credere alle proprie percezioni e ai propri sentimenti”3.

Ovvero i genitori devono essere consapevoli che, spesso, la famiglia è e può essere per i figli fucina di disagi esistenziali, i quali possono sfociare in forme di devianza o delinquenza minorile. E’ interessante soffermarsi anche sull’aggettivo usato dall’autore, “privato”, che, oltre alle accezioni negative di famiglia come ambiente chiuso o, ancora peggio, deprivato, vuole essere un monito al recupero della natura intima della famiglia, mentre oggi si tende ad esternalizzare ogni esperienza, nel senso che si delega per molte cose (per es. le feste di compleanno), ci si rivolge ad esperti o addirittura a trasmissioni televisive.

Proseguendo nel romanzo si legge: “E adesso?” ”Adesso mi sembra sia cambiato il genere di teatro, ma non è molto meglio.” “Qual è?” “Quello dove il regista e la costumista si infiacchiscono e si distraggono e si fanno suggestionare da ogni tipo di consigli e suggerimenti di specialisti, fino a ritirarsi in platea a fare gli spettatori. E gli ex attori secondari ed ex spettatori obbligati occupano la scena e vanno avanti a improvvisare, anche se biascicano le battute e si muovono come scimmie. Tanto sanno di ricevere applausi e noccioline a ogni gesto e suono che producono”. “Vuoi dire i figli?” “Eh”.

Questo è il risultato di alcuni fenomeni che investono sempre più adulti, come l’adultescenza, neologismo con cui si indica un’età adulta psicologicamente non adeguata rispetto al ruolo che si riveste e alle conseguenti responsabilità; per questo i genitori non dicono no ai figli, si spacciano per amici dei loro figli o addirittura si mettono in competizione con loro nell’abbigliamento o negli atteggiamenti. I più autorevoli esperti di problematiche minorili sostengono a viva voce che i genitori, quando è necessario, devono saper dire no ai figli e recuperare la disciplina, non nel senso d’imposizione di regole ma di condivisione attiva. Quelle regole che venendo a mancare, in un circolo vizioso, hanno portato anche all’esautoramento della scuola, perché “la scuola pubblica rimane oggi l’ultimo luogo della società di mercato in cui il bambino cliente debba pagare di persona, piegarsi al do ut des: sapere in cambio di studio, conoscenze in cambio di sforzi, accesso all’universalità in cambio dell’esercizio solitario della riflessione, una vaga promessa di futuro in cambio di una piena presenza in classe, ecco ciò che la scuola esige da lui”4.

Ancora nel romanzo di De Carlo il protagonista abbozza una tipologia delle famiglie italiane: “Tipo magari una famiglia allargata, una tribù più che una famiglia. O una famiglia con una madre e nessun padre. Una famiglia con un padre e nessuna madre. Una famiglia con due madri. Una famiglia di soli fratelli e sorelle. Una famiglia di soli zii e nipoti e cugini, come nelle storie di Walt Disney”.

Allora, visto che non ci sono risposte precostituite, si potrebbe indicare una via applicando alla genitorialità quanto recita l’art. 2028 del codice civile per la gestione degli affari altrui: “Chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso”. In altre parole la genitorialità deve essere caratterizzata da gratuità (bisogna fare i figli senza aspettative, né per riconciliare la coppia o per dare un fratello sano all’altro figlio disabile), consapevolezza, responsabilità e continuità. Interessante anche l’art. 2029 cod. civ. in cui si parla di capacità del gestore, che evoca il contenuto dell’art. 6 comma 4 legge 184/1983 sull’adozione come novellato dalla legge 149/2001: “I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare” (questa previsione legislativa non dovrebbe riguardare solo la genitorialità adottiva, ma ogni forma di genitorialità). L’art. 2030 richiama la disciplina del mandato, in cui agli artt. 1710 e ss. si legge “diligenza del buon padre di famiglia”, “limiti”, “comunicazione”, “obbligo di rendiconto”, tutte prescrizioni che ben si attagliano alla genitorialità; in particolare la comunicazione o, come alcuni preferiscono dire, la buona comunicazione, elemento che spesso manca in famiglia in cui può capitare che si parli tanto senza dirsi in verità nulla, come nel racconto “Dialogo imperfetto”5, basato sulla storia di un’adolescente e della madre convinta di sapere tutto della figlia e di questo si vanta conversando con un’altra mamma, senza in realtà conoscere e capire in fondo la figlia.

Nell’ultima pagina del romanzo “In nome della madre” (2006) di Erri De Luca, Miriam (Maria) dopo aver partorito Ieshu (Gesù) si esprime così: “Che vuoto mi hai lasciato, che spazio inutile dentro di me deve imparare a chiudersi. Il mio corpo ha perso il centro, da adesso in poi noi siamo due staccati, che possono abbracciarsi e mai tornare una persona sola”.

Appropriato è l’uso del verbo “imparare” perché al di là di corsi sulla genitorialità, servizi di sostegno (e non di surrogazione) alla genitorialità, questa è e rimane un’arte che s’impara e si applica sul campo inventando e reinventando continuamente. Ebbene i genitori devono imparare ad amare non di un amore che lega, ma di un amore che libera, con un affetto nel sano distacco, perché altrimenti si cade nel familismo “amorale” o, peggio, in vincoli “incestuosi”, in atteggiamenti “violenti”.

Amando così in modo autentico ed equilibrato i genitori educano alla “biofilia”6, all’amore per la vita in tutte le sue forme e a quello che veramente vale nella vita. Quei valori insormontabili ed intramontabili della vita ben espressi nella nostra Costituzione, a cominciare dai suoi principi fondamentali: educare alla laboriosità (artt. 1 e 4), alla socialità e alla solidarietà (art. 2), alla dignità (art. 3), al rispetto dell’ambiente (art. 9), all’accoglienza dello straniero (art.10), alla pace (art. 11) e così di seguito.

Facendo un gioco linguistico basato sulla comune radice “gen-“ (nascita), tra il tautogramma e la tautologia, si può sostenere che la genitorialità è generosità, genuinità, genialità; mutuando ancora una volta il pensiero di don Antonio Mazzi, uomini e donne non possono più limitarsi ad “essere” genitori, ma devono saper “diventare” veri padri e vere madri.

 

Marzario Margherita

Docente, laureata in giurisprudenza e perfezionata in diritto minorile, cultrice di scienze umane

 

 

1  Durante la presentazione del suo libro Stop ai bulli. La violenza giovanile e le responsabilità dei padri (Mondadori, 2008), a Matera il 17 gennaio 2009.

2  Fra i tanti, Claudio Risè, Il padre. L’assente inaccettabile, Edizioni San Paolo, 2003.

3 Robin Norwood, Donne che amano troppo, Milano 2009, p. 23.

4 Così Daniel Pennac in Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 232-233.

5 In Sognario. Dieci racconti per adolescenti adulti e adulti adolescenti, di Leonardo Nicoletti, Kimerik, Patti (ME) 2009.

6 Termine usato prima da Erich Fromm e poi da Edward O. Wilson.

Dott.ssa Marzario Margherita

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