La funzione nomofilattica dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato

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SOMMARIO: 1. Crisi della legge e valorizzazione dello stare decisis. 2. La funzione nomofilattica nell’ ordinamento italiano e le riforme degli ultimi anni. 3. L’art. 111 Cost. La funzione nomofilattica esterna della Cassazione e quella interna del Consiglio di Stato. 4. Il precedente come fonte culturale. 5. L’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e la nuova interazione con le Sezioni semplici. 6. Il precedente dell’Adunanza Plenaria dopo l’introduzione dell’art. 99 c.d.a. e le sentenze antecedenti l’entrata in vigore del nuovo codice. 7. La funzione nomofilattica nell’esercizio della funzione consultiva del Consiglio di Stato. 8. Conseguenze della violazione dell’art. 99 c.d.a. 9. Bibliografia.

 

1. Crisi della legge e valorizzazione dello stare decisis.

Un principio irrinunciabile di ogni ordinamento giuridico è la certezza del diritto, ovvero il principio in base al quale una norma giuridica deve essere formulata in modo chiaro ed essere soggetta ad una interpretazione univoca.

Il diritto deve, in altri termini, ricevere una applicazione prevedibile al fine di assicurare la parità di trattamento ai soggetti dell’ordinamento, tramite la consapevolezza che casi analoghi riceveranno dal giudice adito trattamento analogo. Viene data in tal modo ai destinatari della norma l’astratta possibilità di prevedere il probabile esito delle controversie.

In realtà non è sempre possibile giungere ad una interpretazione univoca delle norme, pertanto la certezza del diritto, più che una concreta caratteristica dell’ordinamento o un elemento delle norme giuridiche, è un obiettivo a cui il legislatore deve tendere.

Nella tradizione giuridica occidentale si possono individuare due risposte diverse a questa esigenza nei “macrosistemi” noti come common law e civil law1.

La strada intrapresa dalla Francia post-rivoluzionaria e napoleonica (alla cui esperienza storica si riconduce comunemente l’origine del sistema della civil law) e successivamente diffusasi in tutta l’Europa continentale, è quella di assicurare la certezza del diritto attraverso un sistema coerente e completo di norme racchiuse in un Codice. Più in generale, ciò che caratterizza il sistema di derivazione francese è che il ruolo di fonte del diritto viene affidato principalmente alla norma scritta, sia essa la Costituzione, la legge o il regolamento governativo.

Al Giudice viene affidato il ruolo di mera “bouche de la loi”, secondo la nota espressione di Montesquieu. Egli viene cioè sottoposto alla legge e deve limitarsi ad applicarne alla lettera i contenuti2.

Alle sentenze è affidata la funzione di risolvere le controversie fra le parti, i loro eredi ed aventi causa, ma senza il potere di fissare nuovi principi di diritto vincolanti.

Al contrario, nel sistema che si delinea in Inghilterra a partire dalla conquista normanna del 1066 e che sarà seguito, con talune differenziazioni, negli Stati Uniti d’America ed in gran parte delle ex colonie britanniche, la principale fonte del diritto è il precedente giudiziario, cioè la ratio decidendi di una pronuncia giudiziaria emanata per decidere un caso analogo. Alla norma prodotta dal Parlamento (statute law) viene attribuito un ruolo derogatorio del complesso di regole derivante dai precedenti giudiziari e costituente la common law in senso stretto3.

Le differenze fra i due sistemi, un tempo piuttosto marcate, sono andate progressivamente attenuandosi.

Nei Paesi a common law, nella seconda metà del XX secolo, ha conosciuto un’importanza sempre crescente la statute law, grazie alla sua capacità di intervenire rapidamente nell’assetto normativo, consentendo un più celere adeguamento alle istanze derivanti dal progresso tecnologico e dai cambiamenti politici e sociali.

L’avvicinamento dei due sistemi è però derivato principalmente dalla crisi del modello di civil law, fondato sulla supremazia e centralità della legge di formazione parlamentare.

L’inizio di questo processo può datarsi con l’introduzione nell’Europa continentale, prevalentemente nel secondo dopoguerra, delle Corti costituzionali. La legge ordinaria viene sottoposta ad una fonte di livello superiore, la Costituzione, ed il controllo sul rispetto ai principi in essa contenuti viene affidato al controllo di costituzionalità esercitato dalle Corti. Questa storica innovazione ha determinato la parziale affermazione, anche nei Paesi con ordinamento a civil law, di un diritto di matrice giurisprudenziale prevalente sulla legge scritta.

Ma è nei decenni successivi che la crisi del modello continentale assume proporzioni tali da determinare una rivisitazione, ancora in corso, dei presupposti stessi del sistema.

Si manifesta in particolare l’inclinazione verso un maggior ruolo del giudice e l’adozione di strumenti tipici del diritto giurisprudenziale, tanto da far parlare in dottrina di “vocazione del nostro tempo per la giurisdizione”4.

I fattori che concorrono a determinare questo processo evolutivo sono diversi ed eterogenei e possono sintetizzarsi nel concetto di “crisi della legge”.

Essi sono, fra gli altri, il manifestarsi di una sorta di inerzia del legislatore, che conduce ad interventi delle Corti volti a colmare le “lacune” lasciate dal mancato intervento della norma politica (ne sono un esempio le sentenze c.d. “integrative” della Corte Costituzionale5); la perdita delle caratteristiche di generalità ed astrattezza proprie della legge, in favore di norme dirette ad un numero ristretto di destinatari e con contenuti tali da riconoscervi la disciplina di casi concreti (c.d. leggi – provvedimento, già autorevolmente analizzate da tempo6); il ricorso alla delegificazione, che, lasciando alle fonti di rango inferiore il compito di disciplinare le fattispecie, conduce inevitabilmente all’aumento dei ricorsi giurisdizionali e quindi alla composizione degli interessi sulla base di regole di origine giurisprudenziale7.

Volgendo l’attenzione più specificamente verso il caso italiano, l’erosione del ruolo tradizionale della legge statale non è dipesa soltanto da una causa esterna ad essa, quale la crescente “competizione” esercitata dalla giurisprudenza, ma è stato il suo stesso ruolo nell’architettura costituzionale ad essere messo in discussione.

Questo processo si è svolto sia su un fronte sovranazionale, in cui il diritto comunitario ha acquistato efficacia diretta nell’applicazione all’interno degli stati membri, sia su un fronte interno, dovuto al ripensamento della forma di Stato unitario (e quindi della fonte normativa che da esso promana) nell’architettura costituzionale.

E’ un fenomeno manifestatosi soprattutto a partire dagli anni novanta del secolo scorso (ma che ha origine ancor prima, con l’introduzione nel 1970 delle Regioni previste dalla Carta costituzionale del 1948) e che ha conosciuto una serie di riforme volte ad introdurre un modello di Stato sempre più decentrato, all’insegna dei principi del regionalismo e, oggi, del federalismo. Tali riforme hanno segnato il passaggio da un sistema in cui i conflitti fra norme erano risolti dal principio dal tradizionale principio di gerarchia delle fonti, ad un sistema policentrico in cui tale principio deve coesistere col principio di competenza, spesso cedendo ad esso.

Infine, anche la disciplina costituzionale volta a garantire effettivamente l’indipendenza e l’autonomia della magistratura dal potere esecutivo ha determinato l’emergere di un nuovo rapporto fra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato, col primo sempre più incline ad abbandonare quel ruolo subalterno che ne aveva caratterizzato la stessa struttura sin dalle origini piemontesi8.

Questa cornice ha offerto le premesse e gli spazi per una rivalutazione del ruolo del giudice.

La sottoposizione della legge al rispetto dei principi costituzionali e la progressiva consapevolezza della propria indipendenza conquistata in seguito all’istituzione del CSM, hanno consentito ai magistrati di adottare interpretazioni della legge diverse da quelle pensate dal legislatore, adattando le norme al mutare dei tempi e dei costumi sociali e seguendo inevitabilmente un apprezzamento che non può che essere soggettivo.

Lo stesso obbligo di interpretazione della legge conforme a Costituzione è stato declinato dalla Corte Costituzionale nel senso di imporre al giudice una previa valutazione della possibilità di interpretare in senso conforme a Costituzione una legge sui cui vi sia un sospetto di incostituzionalità, prima di rimetterla alla decisione della Corte stessa, valorizzando in tal modo la funzione ed il ruolo della giurisprudenza9.

In parallelo, l’obbligo di cooperazione stabilito dall’art. 10 del Trattato CE attribuisce al giudice nazionale il ruolo di garante della corretta applicazione del diritto comunitario10.

E’ un’evoluzione che segna inesorabilmente il tramonto definitivo dell’idea – già, invero, viziata fin dall’origine da una dimensione utopistica – del giudice come mera bouche de la loi11 e che arriva, con la “dottrina del diritto vivente” elaborata dalla Corte Costituzionale, ad operare una sorta di istituzionalizzazione dell’interpretazione giurisprudenziale costante ed omogenea di una norma, sostituendo, secondo le ancora fondamentali parole di Zagrebelsky “alla libertà interpretativa della Corte il vincolo all’interpretazione affermatasi presso la giurisprudenza, a prescindere dalla sua “esattezza”, dall’adesione che la Corte possa prestarle, dalla sua portata conformativa a Costituzione. Il significato giudiziario applicato del diritto diventa così un “dato” del problema costituzionale da risolvere” 12.

Lo stato dell’arte del processo evolutivo fin qui descritto è segnato dalla recente sentenza Cass. SS. UU. n. 15144/2011, in cui si afferma che la norma “non resta cristallizzata in se stessa, ma è soggetta, ex sé, a dinamiche evolutive” e adegua il suo contenuto alle altre fonti di livello costituzionale e comunitario, giungendo alla conclusione per cui “il diritto vivente è fenomeno oggettivo: per un verso legato alla natura assiologica della norma e, per altro verso, determinato dalle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale. Fenomeno che, per la sua complessità, esige la mediazione accertativa della giurisprudenza, che quindi lo disvela ma non per questo lo crea; nel senso, dunque , che il “diritto vivente” esiste al momento – ma non (solo) per effetto – dell’interpretazione dei giudici.”

In altri termini, il giudice dichiara attraverso le sue decisioni quale è il diritto vivente di quel dato momento storico, “verbalizzando” regole seguite dai consociati, non creando norme. La dottrina13 non ha mancato di rilevare che questa è la tesi con cui Blackstone, nei Commentaries, teorizzò in che modo il giudice inglese potesse produrre norme di diritto obiettivo vincolanti per i giudici e gli altri soggetti dell’ordinamento.

Lo spazio sempre maggiore conquistato dall’interpretazione del giudice ha posto inevitabilmente in crisi un assetto costruito intorno al dogma dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e del giudice come suo mero esecutore. Il carattere soggettivo dell’interpretazione ha messo in crisi l’omogeneità di trattamento e con essa l’astratta prevedibilità della decisione finale. Le norme che affidano ai vertici delle magistrature il compito di assicurare l’uniformità della giurisprudenza, tramite la propria autorevolezza e la capacità persuasiva delle decisioni, si sono dimostrate inadatte a raggiungere lo scopo.

Sì è quindi fatta strada, in misura sempre crescente, l’esigenza di riaffermare la parità di trattamento fra i destinatari delle decisioni giudiziarie, attraverso il recupero della prevedibilità della decisione finale, cioè introducendo nell’ordinamento dei limiti alle possibilità “creative” dei giudici nella loro attività interpretativa.

E’ una esigenza che, per quanto riguarda specificamente l’Italia, richiede di essere conciliata col principio, affermato dall’art. 101 Cost., della sottoposizione del giudice soltanto alla legge.

La soluzione che è stata individuata dal legislatore consiste nell’introduzione di una maggiore forza del precedente giudiziario, attribuendo ad esso una dimensione di vincolatività.

 

2. La funzione nomofilattica nell’ordinamento italiano e le riforme degli ultimi anni.

Il sistema delineato dal Costituente per assicurare la certezza del diritto nella giurisdizione ordinaria è costituito dal combinato disposto del citato art. 101 Cost. e dell’art. 65 ord. giud., in base al quale la Corte suprema di Cassazione “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge“.

Si affida così alla Corte suprema quel ruolo di garante dell’osservanza del diritto da parte dei giudici che corrisponde alla concezione che ne ebbero all’origine i costituenti francesi14.

E’ una funzione che attua il principio di subordinazione del giudice alla legge contenuto nell’art. 101 Cost., nell’ambito di un sistema che affida alla legge (e alle altre fonti normative) il compito di produrre il diritto, e ai giudici quello di riconoscere e ricostruire le norme attraverso gli strumenti dell’interpretazione. Alla Cassazione viene affidato il compito di correggere le scelte sbagliate che i giudici di merito compiono, sia nella ricerca delle norme da applicare al caso concreto su cui sono chiamati a giudicare, sia nell’interpretazione di esse, sia correggendo i giudizi di valore che siano stati posti a base del provvedimento impugnato15.

Va rilevato che in realtà l’art. 65 ord. giud. non prevede alcun “meccanismo” o sistema di regole atte a garantire l’effettività della sua applicazione, cioè tali da attribuire alla Cassazione la concreta capacità di “condizionare” le sentenze dei giudici di merito in modo da garantire la nomofilachia. Né tale compito è assolto da nessun’altra disposizione dell’Ordinamento giudiziario, se si eccettua la previsione dell’art. 68, istitutivo dell’Ufficio del Massimario, cui spettava la funzione di estrarre dalla sentenze della suprema Corte la ratio decidendi e di tradurla in una massima, ossia un principio di diritto. Restava la disposizione dell’art. 374 c.p.c., che rimetteva alle Sezioni Unite i ricorsi che sollevavano questioni di diritto già decise in senso difforme dalle Sezioni semplici o che presentavano una questione giuridica di particolare importanza. Ma le Sezioni semplici conservavano la possibilità di discostarsi dalle decisioni delle SSUU, non ritenendosi da esse vincolate16.

Questa apparente lacuna dell’assetto delineato dal Costituente in realtà si spiega ricordando che l’ordinamento giudiziario Grandi, emanato nel 1941 e cioè in piena epoca fascista, aveva posto la Corte di Cassazione ed i suoi componenti in una posizione di vertice gerarchico dell’intera magistratura, all’interno della quale la progressione in carriera nei vari gradi era legata ad appositi concorsi per titoli ed esami. Le commissioni dei concorsi erano composte da magistrati di Cassazione, i quali tendevano a promuovere i partecipanti al concorso che avessero manifestato idee e indirizzi conformi a quelle della Suprema Corte, penalizzando invece quei soggetti che avessero propugnato tendenze giurisprudenziali più innovative17.

La Costituzione, pur riconoscendo all’art. 107 la distinzione dei magistrati solo per funzioni e segnando così il superamento della visione gerarchica della magistratura, aveva recepito l’ordinamento Grandi in via “provvisoria” nella VII disposizione transitoria, auspicando in tempi rapidi l’approvazione di un nuovo ordinamento conforme a Costituzione. Ma la provvisorietà in realtà non è mai terminata, in quanto il legislatore ha preferito intervenire in modo frammentario negli anni solo su singole norme del testo del 1941, cercando di superarne gli aspetti più incompatibili col nuovo regime democratico e con l’evoluzione dei tempi, ma senza seguire un disegno unitario.

Si può quindi affermare che la nomofilachia nell’ordinamento italiano era assicurata, oltre che dalla intrinseca autorità della Suprema Corte e dalla persuasività delle sue pronunce, anche e forse principalmente dalla posizione di vertice in cui erano collocati i magistrati di Cassazione, più che la Cassazione stessa, e dal sistema della progressione in carriera nei vari gradi della magistratura tramite concorsi.

L’art. 65 appare di converso per molti decenni non tenuto in grande considerazione, tant’è che sul finire degli anni sessanta Virgilio Andrioli ne parlava in termini piuttosto espliciti: “L’art. 65, a chi non si lasci sedurre dalla magniloquenza delle parole, in cui si svolge, è un cannone che spara quasi sempre a polvere o, se si vuole mutuare il paragone dalla zoologia, un cane, che assai di rado azzanna il viandante18.

Su tale assetto interviene il legislatore con le leggi Breganze del 1966 e c.d. “Breganzone” del 1973, che aboliscono il sistema dei concorsi sostituendolo con una progressione in carriera sostanzialmente (anche se non formalmente) automatica per tutti i magistrati, determinando il venir meno del limite più incisivo a quell’ esplicarsi dell’attività interpretativa del giudice in regione dell’evoluzione dei tempi e dei costumi, su cui ci siamo precedentemente soffermati.

Non a caso è a partire dagli anni ottanta del secolo scorso che comincia ad avvertirsi il problema della crisi della funzione nomofilattica della Cassazione e la necessità di rivitalizzare l’art. 65. ord. giud., problemi mai sollevati in precedenza19.

Oltre a quanto già ricordato, si manifestano inoltre in questi anni altri due problemi che contribuiscono a segnare in modo irreversibile la crisi della Cassazione e del suo ruolo nomofilattico: l’abnorme numero di ricorsi e la trasformazione impropria della suprema Corte in una sorta di organo giurisdizionale di terzo grado, a causa della crescente tendenza del giudice di legittimità a sconfinare nel sindacato del giudizio sul fatto.

Si moltiplicano così, a partire da quegli anni, le analisi che puntano l’attenzione sui molteplici aspetti di crisi della Cassazione e dell’art. 65 ord. giud., unitamente alle sollecitazioni al legislatore a porvi rimedio20.

La soluzione adottata in una serie di riforme succedutesi a partire dal 2006 è stata quella di rafforzare il ruolo del precedente giudiziario, ma senza sovvertire il principio della soggezione del giudice solo alla legge contenuta nell’art. 101 Cost.

Il primo intervento è stato il d.lgs. n. 40/2006, che ha modificato l’art. 374 c.p.c, il cui 3°comma stabilisce che se una Sezione semplice della Cassazione “ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso“.

Con questa disposizione si tende a porre rimedio ai contrasti di giurisprudenza sorti all’interno della stessa Corte, codificando il principio dello stare decisis limitatamente alle decisioni delle Sezioni Unite nei confronti delle Sezioni semplici della Cassazione. L’idea del legislatore è chiaramente che questo meccanismo accentrato di produzione di principi di diritto, escludendo i contrasti all’interno della Cassazione, dovrebbe influenzare le decisioni dei giudici di merito con una sorta di “effetto a cascata” , determinando l’instaurarsi di un sistema simile nei suoi effetti, anche se non nella forma, a quello del precedente vincolante tipico degli ordinamenti a common law21. I giudici di merito infatti, col nuovo sistema non potranno più porre i contrasti interpretativi fra le sezioni della Cassazione a fondamento della propria giurisprudenza innovatrice, se non nella prospettiva, divenuta ora alquanto improbabile, di voler rovesciare il principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite.

Inizialmente la dottrina ha evidenziato prevalentemente gli aspetti potenzialmente negativi della riforma.

Ad essa è stata mossa l’accusa di burocratizzare e verticizzare l’ordine giudiziario, sino a compromettere l’esplicarsi dell’attività interpretativa dello stesso giudice di legittimità22 e esautorando di ogni autorità le sezioni semplici23, col rischio, fra l’altro, di condurre ad un sovraccarico dei ruoli delle Sezioni Unite24 e ad una sorta di pietrificazione della giurisprudenza, tale da mortificare ogni possibilità di interpretazione evolutiva25.

La riforma, come già il dibattito dottrinario che l’aveva preceduta, ha sollevato opinioni e contrasti anche accesi in dottrina perché interviene su un tema delicato, ossia il bilanciamento fra ius constitutionis, teso a presidiare la certezza del diritto, e ius litigatoris, le cui esigenze rischiano di essere sacrificate dalla rinnovata attenzione per le ragioni della nomofilachia. E’ certamente opportuno non dimenticare le parole di Elio Fazzalari, che cinquanta anni fa sottolineava che “se il giudizio di Cassazione è dalla legge collocato nel processo che lo Stato celebra in difesa del diritto soggettivo, è giocoforza che qualsiasi altro scopo ceda alle esigenze strutturali e funzionali di tale difesa26, ma va detto che il bilanciamento realizzato dal recente legislatore sembra essere riuscito a raggiungere un equilibrio soddisfacente.

L’opinione maggioritaria in dottrina ha fornito infatti una visione più serena del nuovo sistema delineato dal novellato art. 363, ritenendo che essa non comporti alcun sacrificio dello ius litigatoris rispetto allo ius constitutionis (effetto che al contrario si sarebbe verificato qualora fossero state accolte molte proposte di riforma avanzate nel dibattito antecedente la riforma), né limita l’accesso alla Suprema Corte27. Né è scontato ritenere che il monopolio dell’innovazione giurisprudenziale sia detenuto ora solo dalle Sezioni Unite, in quanto le linee innovative potranno emergere dalle ordinanze motivate con cui le cause saranno ad esse rimesse28.

In particolare, è stato evidenziato che la riforma non introduce in realtà lo stare decisis, poiché non eleva tecnicamente il precedente a “vincolo”, bensì stabilisce un onere di rimessione delle Sezioni semplici alle Sezioni Unite, se le prime non condividono il principio di diritto stabilito dalle seconde. Vi sarebbe cioè un vincolo di tipo esclusivamente processuale, che obbligherebbe alla non emissione di sentenze dal contenuto difforme29. Detto in altri termini, il vincolo a non emettere una sentenza difforme non avrebbe la stessa valenza del vincolo ad emettere una sentenza conforme30. In tal modo non sorgerebbe il problema di compatibilità della nuova disciplina con l’art. 101 Cost., che invece confliggerebbe con l’eventuale introduzione dello stare decisis.

Si è anche osservato che la riforma non solleverebbe rilevanti dubbi di costituzionalità in ordine ad eventuali contrasti con l’art. 101 Cost., in quanto la Cassazione è un organo unico, la cui articolazione in Sezioni deve essere considerata una forma interna di divisione del lavoro31.

In seguito il legislatore ha introdotto anche per la Corte dei Conti e per il Consiglio di Stato discipline analoghe a quella appena vista per la Cassazione, estendendo quindi a tutto l’ordinamento il principio del rafforzamento del precedente.

Per ciò che attiene ai giudizi di fronte alla Corte dei Conti, l’art. 42 legge n. 69/2009 stabilisce che “Il presidente della Corte può disporre che le sezioni riunite si pronuncino sui giudizi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni giurisdizionali, centrali o regionali, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza. Se la sezione giurisdizionale, centrale o regionale, ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni riunite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del giudizio.” Viene quindi introdotta una disciplina analoga a quella prevista per la Cassazione, con la differenza che qui l’onere di rimessione alle Sezioni Riunite, in caso di non condivisione di un principio di diritto dalle stesse enunciato, riguarda non solo le Sezioni Giurisdizionali Centrali, ma anche quelle Regionali.

Una disciplina analoga è stata infine introdotta nella giustizia amministrativa con il d.lgs. n. 104/2010 all’art. 99, il cui comma 3 recita “Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.

 

3. L’art. 111 Cost. La funzione nomofilattica esterna della Cassazione e quella interna del Consiglio di Stato.

Il nostro ordinamento prevede quindi una pluralità di nomofilachie, affidate ai tre organi supremi della magistratura ordinaria, amministrativa e contabile e ulteriormente rafforzate con le citate riforme degli ultimi anni. Tale assetto plurimo trova un riferimento costituzionale nell’art. 111, comma 8, Cost., in base al quale contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti la giurisdizione.

Una corretta visione d’insieme porta a ritenere che il nostro ordinamento preveda una giurisdizione al contempo unica e plurima32.

Il dibattito su unità o pluralità di giurisdizione ha avuto un ruolo centrale nella storia giuridica italiana, sin dal quel movimento per la “giustizia nell’amministrazione” che ebbe come massimo rappresentante Silvio Spaventa33 e che condusse all’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato nel 1889. A scontrarsi in Assemblea Costituente furono soprattutto le posizioni di Piero Calamandrei, fautore del ritorno al modello della giurisdizione unica – che avrebbe dovuto prevedere l’istituzione di un unico ordine giurisdizionale e il divieto di creare giudici speciali – e di Costantino Mortati, sostenitore del mantenimento della giurisdizione amministrativa.

Il testo costituzionale definitivo risultò essere un compromesso, ma si può ritenere che la posizione di Mortati risultò, entro certi limiti, prevalente34. Infatti l’art. 102 sembra accogliere il modello della giurisdizione unica, prevedendo l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di “magistrati ordinari istituiti e regolati dalla norme sull’ordinamento giudiziario” oltre al divieto, contenuto nel comma successivo, di istituire giudici speciali e straordinari e ammettendo solo l’eventualità della creazione di sezioni specializzate. L’art. 103 fa però salva la magistratura amministrativa e contabile, attribuendo al Consiglio di Stato la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi (e, in alcuni casi, dei diritti soggettivi) nei confronti della pubblica amministrazione e alla Corte dei Conti la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.

Il mantenimento della giurisdizione amministrativa trova conferma anche nell’art. 100, che affida al Consiglio di Stato la tutela della giustizia nell’amministrazione.

La previsione dell’art. 111, comma 8, Cost. trova corrispondenza nell’art. 65 ord. giud., che attribuisce alla Corte di Cassazione il compito di assicurare, oltre all’esatta osservanza della legge e alla sua uniforme interpretazione, anche “l’unità del diritto oggettivo nazionale” e il “rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Funzione che è stata rafforzata dalla recente introduzione nel nostro ordinamento della translatio judicii, prevista dall’art.59 della l. n. 69/2009 e dall’art. 11 del codice del processo amministrativo, che fa salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda erroneamente proposta davanti al giudice privo di giurisdizione.

La peculiarità della nomofilachia affidata alla Cassazione è quindi quella di estendere la sua funzione anche alle giurisdizioni diverse da quella ordinaria, di cui è il vertice, seppur entro il confine di garantire il “rispetto dei limiti” delle giurisdizioni. L’art. 65 ha fondato la distinzione, divenuta pacifica nella giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato35, fra limiti “esterni”, che costituiscono oggetto del sindacato della Cassazione, e limiti “interni”, sottoposti invece al giudizio del Consiglio di Stato36.

I limiti esterni si riscontrano nelle violazioni delle regole sul riparto di giurisdizione, nei casi in cui la giurisdizione sia inesistente, come ad esempio nei casi di composizione illegittima dell’organo giudicante per assenza dei requisiti o della legittimazione, o nel caso in cui il Consiglio di Stato eserciti la funzione di merito in un’ipotesi in cui era provvisto solo della giurisdizione di legittimità. I limiti interni sono invece individuati nelle questioni sulla sussistenza dell’interesse legittimo e dell’interesse a ricorrere, nei presupposti processuali quali astensione e ricusazione del giudice, motivazione della sentenza e ammissibilità dei mezzi di impugnazione37.

Questa interpretazione dell’art. 111 comma 8 Cost. e dell’art. 65 ord. giud. in effetti risente del periodo storico in cui è sorta, periodo in cui la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria erano rigidamente divise sia per l’oggetto del loro giudizio, sia per struttura e obiettivi dei rispettivi processi, uno dedicato a conoscere dei diritti, l’altro mirato ad annullare atti amministrativi.

Con tale contesto risultava perfettamente compatibile la pluralità delle nomofilachie, che procedevano come rette parallele senza intersecarsi.

Oggi lo scenario, com’è noto, è radicalmente mutato.

Il processo amministrativo ha mutuato sempre più caratteristiche e ambiti di operatività che un tempo gli erano preclusi o sconosciuti. Con l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa della risarcibilità del danno, e in seguito all’estensione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, i confini sono diventati ben più labili, assottigliandosi spesso fino ad un punto di unione. E’ stata anche evidenziata la possibilità che le due giurisdizioni, conoscendo delle stesse questioni di diritto, producano giurisprudenze contrastanti, col conseguente corto circuito della nomofilachia38.

In tale ottica può sorgere l’opportunità di ripensare la tradizionale interpretazione dell’art. 111 Cost. e l’abituale declinazione della funzione di garantire l’unità dell’ordinamento affidata alla Cassazione, rileggendo lo stesso significato della definizione “giurisdizione” nel senso di riferirla alla funzione giurisdizionale più che al riparto della giurisdizione stessa39.

 

4. Il precedente come fonte culturale.

Prima di procedere ad un’analisi più dettagliata della funzione nomofilattica attribuita all’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, occorre soffermarci sul nuovo ruolo assunto dal precedente nel nostro ordinamento alla luce delle riforme citate.

Nonostante – come si è precisato – sotto il profilo formale il nostro ordinamento continui a non accogliere il principio dello stare decisis, in realtà l’effetto “pratico” delle riforme succedutesi a partire dal 2006 è stato appunto quello di indurre i giudici a seguire i principi di diritto stabiliti dai vertici delle rispettive magistrature. Tali principi saranno modificati solo dagli stessi vertici, mentre le Sezioni semplici (e loro equivalenti) avranno un ruolo di impulso e proposta.

Il precedente acquista pertanto nel nostro ordinamento un’autorità nuova, tale da indurre la dottrina a elaborare la nozione di fonti culturali40.

Nel momento in cui il precedente acquista una forza persuasiva vincolante verso i giudici, i principi e le regole in esso stabilite acquistano efficacia vincolante anche per tutti i soggetti dell’ordinamento, i quali dovranno conformare i loro comportamenti a quanto previsto dalla regola stabilita dalla giurisprudenza. In caso contrario, infatti, la conseguenza sarebbe la soccombenza nell’eventuale controversia, al pari di quanto avverrebbe nel caso di violazione di una norma giuridica posta da una fonte politica.

Va ovviamente ricordato che non tutte le proposizioni di una sentenza acquisteranno validità di precedente, ma che a tal scopo occorrerà distinguere le rationes decidendi dagli obiter dicta, ovvero gli elementi giustificativi della pronuncia da ciò che nella motivazione del provvedimento va al di là del perché la decisione è stata adottata41, avendo solo queste ultime efficacia vincolante (nel senso fin qui precisato) nei confronti dei giudici che dovranno applicare in seguito la stessa norma.

Se il precedente statuito dagli organi di vertice delle magistrature acquista la valenza di fonte, occorre individuarne la collocazione nel sistema e i suoi rapporti con le altre fonti.

Le riforme che hanno interessato i vertici delle magistrature a partire dal 2006 non soccorrono quest’opera di sistematizzazione, in quanto tacciono totalmente sul punto. Tale silenzio è del resto comprensibile, data anche l’evidente difficoltà del legislatore italiano nel qualificare il precedente come fonte, dato il limite dell’art. 101 Cost.

Occorre pertanto ragionare sulle caratteristiche della fonte culturale in relazione agli altri tipi di fonti e rifarsi ai principi generali dell’ordinamento.

Ciò premesso, la prima caratteristica della fonte culturale che si mostra agli occhi dell’osservatore è il suo atteggiarsi a fonte di secondo grado rispetto ad altre fonti, di cui costituisce l’interpretazione e sulle quali, per sua stessa natura, si impone.

Ai giudici spetterà interpretare tutti gli atti – fonte antecedenti al precedente giudiziario alla luce dello stesso. La fonte culturale appare quindi dotata di una forza maggiore rispetto alle altre fonti, sia perché estranea alle consuete regole sulla irretroattività, sia perché capace di imporsi su una qualunque lettura diversa della disposizione interpretata.

Nel contempo, la sua forza è correlata alla vigenza della fonte interpretata: venendo meno questa, il precedente non esplica più la sua efficacia vincolante. Quando una fonte del diritto regola nuovamente una materia già disciplinata da una fonte anteriore, il giudice non è più sottoposto al precedente che aveva interpretato la fonte sostituita42, salva ovviamente l’ipotesi in cui sia possibile rintracciare una identità o analogia di fondo fra la ratio che regge la nuova norma e la precedente.

 

5. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e la nuova interazione con le Sezioni semplici.

L’Adunanza Plenaria viene istituita come organo del Consiglio di Stato dalla l. 7 marzo 1907 n. 62, insieme alla V Sezione del Consiglio.

L’origine dell’istituto deriva dall’istituzione di più Sezioni semplici: la coesistenza della IV e V Sezione, organi pariordinati appartenenti allo stesso ordine giurisdizionale43, esigeva la creazione di un organo adibito alla risoluzione dei possibili conflitti giurisprudenziali44. Inizialmente, infatti, le competenze delle due sezioni erano distinte: alla IV erano affidati i ricorsi di legittimità per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere, mentre la V era competente nelle materie di giurisdizione anche in merito.

Le attribuzioni originarie dell’Adunanza Plenaria erano due: risolvere i conflitti fra la IV e la V Sezione e decidere sui ricorsi che avevano dato luogo a decisioni giurisprudenziali difformi. La legge 30 dicembre 1923, n. 2840, ha superato la distinzione di competenza fra le due sezioni, facendo quindi venir meno la prima attribuzione. L’art. 5 della l. 21 dicembre 1950, n. 1018, ha poi attribuito alla Plenaria la funzione di risolvere le questioni di massima importanza.

La sua composizione, in passato disciplinata dalla l. 24 aprile 1982, n. 186, sull’ordinamento della giurisdizione amministrativa, è oggi regolata dall’art. 6, commi 3 e 4, del Codice del processo amministrativo.

Tali norme stabiliscono che la Plenaria è composta da dodici magistrati del Consiglio di Stato assegnati alle sezioni giurisdizionali, oltre al Presidente del Consiglio di Stato, il quale la presiede. Si nota la distinzione con l’Adunanza Generale, composta anche da magistrati assegnati alle sezioni consultive e per questo inidonea a svolgere il ruolo attribuito alla Plenaria.

La presenza di tutti i componenti deve ritenersi inderogabile, rendendo pertanto la Plenaria un collegio giudicante perfetto.45

La composizione e le funzioni dell’Adunanza Plenaria sono rimaste nel tempo sostanzialmente immutate46.

L’art. 99 c.p.a. , la cui rubrica è intitolata ” Deferimento all’adunanza plenaria”, recita:1. La sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio può rimettere il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria.

2. Prima della decisione, il presidente del Consiglio di Stato, su richiesta delle parti o d’ufficio, può deferire all’adunanza plenaria qualunque ricorso, per risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali.

3. Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

4. L’adunanza plenaria decide l’intera controversia, salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente.

5. Se ritiene che la questione è di particolare importanza, l’adunanza plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l’estinzione del giudizio. In tali casi, la pronuncia dell’adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato”.

L’ultimo comma è stato così modificato dall’articolo 1, comma 1, d.lgs. n. 195 del 2011.

Quando il punto di diritto è controverso è prevista quindi la rimessione all’Adunanza Plenaria ad opera della Sezione semplice “dissenziente” o dello stesso Presidente del Consiglio di Stato47. In particolare, nell’ipotesi in cui occorra risolvere una questione di massima di particolare importanza, la norma prevede che la rimessione sia affidata solo al Presidente del Consiglio di Stato. Ma è da ritenere che analogo potere possa essere esercitato dalle Sezioni semplici48.

Occorre sottolineare una rilevante distinzione fra l’Adunanza Plenaria e la Corte di Cassazione a Sezioni Unite: la Plenaria, come statuito dall’art. 99, può decidere l’intera controversia (e quindi anche il merito), salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla Sezione remittente. Questa distinzione si spiega agevolmente, in quanto a differenza della Cassazione, il Consiglio di Stato è il giudice d’appello che decide anche il merito della causa.

L’Adunanza Plenaria, infine, può enunciare il principio di diritto anche nel caso in cui dichiari il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile o l’estinzione del giudizio, se la questione è di particolare importanza49.

Va sottolineato come, nell’impianto normativo delineato dall’art. 99, all’esercizio della funzione nomofilattica partecipino anche le Sezioni semplici, analogamente a quanto già osservato nel rapporto fra Sezioni semplici e Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Spetterà infatti alla Sezione valutare se il punto di diritto sottoposto al suo esame abbia dato luogo o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali. Si tratta evidentemente di un potere di iniziativa particolarmente rilevante, specie se si considera che la norma non fornisce una definizione specifica di cosa si debba intendere per contrasto giurisprudenziale su un punto di diritto.

La Sezione semplice effettuerà un sindacato sulla rilevanza o meno della questione sottoposta al suo esame, e deciderà per il rinvio alla Plenaria sulla base della sua discrezionalità, che sarà esaltata soprattutto nell’ipotesi di conflitto solo potenziale e non già avvenuto. La maggiore o minore sensibilità della Sezione semplice determinerà un’inevitabile influenza sulla Plenaria, in ordine al numero e tipo di questioni che saranno ad essa sottoposte. Potrà così accadere, ad esempio, che le Sezioni semplici si facciano interpreti di contrasti esistenti solo nella giurisprudenza dei Tribunali amministrativi regionali, favorendo così un esercizio più ad ampio raggio della nomofilachia.

Questa interazione trova il suo raccordo più funzionale nella previsione dell’art. 99, comma 3, che in caso di non condivisione col principio di diritto enunciato dalla Plenaria, prevede che la rimessione della Sezione semplice avvenga con ordinanza motivata: nella motivazione delle ordinanza di rimessione la Sezione darà conto delle ragioni del suo dissenso nei confronti del principio di diritto affermato dalla Plenaria, assumendo così un ruolo propositivo e dialettico nell’esercizio della funzione nomofilattica50.

 

6. Il precedente dell’Adunanza Plenaria dopo l’introduzione dell’art. 99 c.d.a. e le sentenze antecedenti l’entrata in vigore del nuovo codice.

La riforma che ha allineato la disciplina dei precedenti dell’Adunanza Plenaria ai principi già sanciti in forma analoga per la Cassazione è incentrata soprattutto sul 3° comma dell’art. 99 c.d.a., che, come abbiamo visto, introduce l’obbligo per le Sezioni semplici di rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, con ordinanza motivata, qualora ritengano di non condividerne un principio di diritto precedentemente enunciato.

Come nel caso delle Sezioni Unite della Cassazione, in seguito alla nuova disciplina le decisioni dell’Adunanza Plenaria acquistano non solo una maggiore autorevolezza, ma anche un particolare valore giuridico51.

Nonostante le riforme che hanno interessato Le Sezioni Unite della Cassazione e l’Adunanza Plenaria siano connotate dalla medesima ratio – il rafforzamento della funzione nomofilattica dei rispettivi organi – e i meccanismi introdotti siano del tutto analoghi, occorre sottolineare che la Cassazione e il Consiglio di Stato, organi di vertice delle rispettive giurisdizioni, hanno attribuzioni non identiche.

La Cassazione – in linea generale – è giudice di legittimità, posto a presidio della corretta interpretazione della legge, e interviene dopo il giudizio di appello, senza sindacare il merito. Al contrario, il Consiglio di Stato è giudice di appello dopo i Tar e giudice nel merito oltre che nella legittimità.

Le decisioni dei due organi sono quindi strutturate in modo in parte diverso.

L’enunciazione del “principio di diritto” è funzione tipica della suprema corte della giurisdizione civile, che cassa la sentenza di secondo grado e la rinvia ad altro giudice indicandogli il principio cui attenersi, mentre la sentenza della Plenaria esamina il caso concreto e lo decide, soffermandosi su tutti i principi e i passaggi argomentativi seguiti per risolvere la controversia. La decisione della Plenaria di regola non si conclude con la rimessione della controversia alla Sezione semplice, pertanto non vi è enunciazione di un “principio di diritto” analogo a quello indicato nella sentenza di Cassazione, ma una motivazione complessa ed articolata, sulla scorta di principi anche non necessariamente inclusi nella ratio decidendi della problematica specifica sottoposta al vaglio del consesso. Diversa è l’ipotesi prevista al comma 5 dell’art. 99, ovvero l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge: in questo caso il principio viene invece indicato chiaramente in sentenza, anche qualora il ricorso venga dichiarato irricevibile, improcedibile o sia dichiarata l’estinzione del giudizio.

E’ pertanto divenuto necessario, alla luce della nuova disciplina, che l’Adunanza Plenaria recepisca nel suo modus operandi le innovazioni intervenute nell’ordinamento. Le sue decisioni dovranno discernere con maggiore nettezza la sequenza logico – argomentativa volta alla risoluzione del caso concreto in esame, e l’individuazione del principio di diritto che costituisce la vera ratio decidendi del caso, che dovrà essere indicato espressamente in sentenza52.

Per quanto attiene alla rimessione operata dalle Sezioni semplici, questa dovrà avvenire solo in seguito all’emergere di un serio dibattito giurisprudenziale, ovvero quando vi siano state già una serie di decisioni sul tema. Solo così si potrà consentire alla Plenaria di esaminare un quadro articolato di posizioni, rappresentative degli interessi in campo.

Quanto detto finora riguarda pacificamente le decisioni della Adunanza Plenaria emesse dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, ovvero il 16 settembre 2010. Occorre chiedersi come considerare i principi di diritto enunciati nelle sentente anteriori, emesse a partire dall’introduzione della Plenaria nel 1907 e fino al varo del nuovo codice. Molte di queste decisioni risultano inevitabilmente superate da giurisprudenza successiva, ma non necessariamente da nuove sentenze della stessa Plenaria. Potrebbero così trovarsi a vincolare le Sezioni del Consiglio di Stato, che sarebbero tenute ad operare la rimessione alla Plenaria.

Il problema nasce non solo dalla considerazione che l’art. 99 c.d.a. è norma processuale che si applica quindi anche ai processi in corso, ma anche da fatto che nel menzionare “un principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria” fa riferimento allo stesso organo creato nel 1907, prima dell’entrata in vigore dello stesso codice. Da qui il problema della eventuale vincolatività dei principi enunciati in ogni sentenza del supremo organo.

Il problema è stato affrontato da Cons. Stato, sez. IV, n. 8363 del 30 novembre 2010, che ha ritenuto di considerarsi vincolata ad un principio di diritto enunciato dalla Plenaria n. 4 del 1998. Nello specifico, la sentenza di un decennio prima aveva posto una deroga in materia di par condicio creditorum nei confronti di un ente in dissesto. La IV Sezione ha ritenuto il principio vincolante ex art. 99 c.p.a., stabilendo che “la Sezione non intende decampare dal vincolante principio di diritto formulato dall’alto consesso; resta solo da dire, sul punto, che la decisione della Sezione di discostarsene determinerebbe l’obbligo, a mente dell’art. 99, comma 3, c.p.a., (applicabile ratione temporis), di rimettere a quest’ultimo la decisione del ricorso nell’esercizio della funzione nomofilattica che gli appartiene“.

Pertanto al momento la soluzione adottata dalla giurisprudenza è quella di estendere il vincolo giuridico stabilito dall’art. 99 anche ai precedenti della Plenaria anteriori al 16 settembre 2010. Col tempo si potrà verificare se questo orientamento si consoliderà o se interverrà un’apposita sentenza della Plenaria a stabilire il principio di diritto sul punto. Appare però evidente che, qualora l’orientamento “estensivo” fosse confermato, si aprirà una fase in cui la dottrina dovrà attuare una non indifferente opera di sistematizzazione dei precedenti della Plenaria dal 1907 ad oggi, raccogliendoli in raccolte dedicate e distinguendo in essi le rationes decidendi, che caratterizzano il principio di diritto, dagli obiter dicta.

 

7. La funzione nomofilattica nell’esercizio della funzione consultiva del Consiglio di Stato.

La funzione nomofilattica è tradizionalmente connessa con l’esercizio della giurisdizione, ma non si identifica con essa.

Si è sostenuto in dottrina che “la nomofilachia (“custodia della legge”) è la funzione – distinta anche se non disgiunta da quella giurisdizionale – di controllo e di indirizzo, considerati sotto il profilo dell’interesse generale, in ordine all’interpretazione e all’applicazione delle leggi, al fine della loro (tendenziale) uniformità53. Anche Calamandrei, parlando della funzione nomofilattica attribuita alla Corte di Cassazione, ne evidenziava i rapporti di non identità con la giurisdizione sul caso concreto, affermando che questa era per la Cassazione un “mezzo, non fine” e che “il fine ultimo che essa, come suo ufficio esclusivo, persegue, è un fine più vasto ed eccedente i limiti della singola controversia decisa”, in quanto “scopo di carattere costituzionale, di coordinazione tra la funzione legislativa e quella giudiziaria; che attiene, più che alla fase di applicazione del diritto al caso concreto, alla fase di formazione o di formulazione del diritto da applicarsi ai casi futuri54.

Può quindi ritenersi che la caratteristica qualificante della funzione nomofilattica sia il carattere decisorio di una attività pubblicistica e il suo costituire un vincolo o precedente per decisioni future riguardanti casi analoghi55.

Tali considerazioni acquistano una particolare rilevanza nel momento in cui si esamina la funzione nomofilattica attribuita al Consiglio di Stato, che è un organo caratterizzato da un’anima duale, composta dalla funzione di tutela della giustizia nell’amministrazione ma, ancor prima, da quella originaria di consulenza giuridico – amministrativa.

E’ opportuno rilevare che da tempo la dottrina ha riconosciuto anche alla funzione consultiva il carattere di attività di giudizio, consistente in una valutazione fra due o più ipotesi possibili e della corrispondenza alla legge di un atto56. Le stesse modalità con cui i Consiglieri di Stato esplicano la funzione consultiva vengono considerate analoghe a quelle adottate nell’esercizio della funzione giurisdizionale, poiché consistono in una valutazione imparziale ed oggettiva della legittimità della iniziativa amministrativa esaminata e non in un responso volto ad assecondare la PA nella ricerca di modi utili a raggiungere gli obiettivi individuati57.

Negli anni la funzione consultiva del Consiglio di Stato è stata oggetto di interventi riformatori, in particolare ad opera della legge n. 127 del 2007, che ne hanno rafforzato il ruolo nell’attività di formazione normativa.

Fra le varie previsioni, è stata stabilita l’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato per l’emanazione degli atti normativi del Governo e dei ministri e per l’emanazione di testi unici, per la decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica e sugli schemi generali di contratti – tipo e accordi predisposti dai ministri. E’ stata inoltre istituita una sezione consultiva del Consiglio di Stato per gli atti normativi, a cui è stato attribuito l’esame degli schemi di atti per i quali il parere del Consiglio è richiesto dalla legge.

Queste riforme, realizzando una maggiore connessione fra funzione consultiva e funzione legislativa, rendono ancor più necessaria l’affermazione della nomofilachia in capo al Consiglio di Stato. E’ stato infatti rilevato che l’atteggiarsi della funzione consultiva dell’organo di vertice della giustizia amministrativa si distacca sempre più da una dimensione di mera consulenza su attività concrete dell’amministrazione, per assumere sempre più le forme della funzione di giustizia e garanzia oggettiva della conformità alla legge degli atti sottoposti all’esame del consesso. Una funzione che assume caratteristiche connesse alla posizione del Consiglio quale organo di vertice della giustizia amministrativa, più che di un organo ausiliario dell’azione amministrativa; una funzione, pertanto, di unificazione giurisprudenziale e indirizzo dell’ordinamento58.

La dimensione unitaria dell’organo si coglie inoltre rilevando come, nonostante, sotto il profilo tecnico, la funzione consultiva rientri nell’ambito della funzione amministrativa mentre la funzione giudiziaria ricada ovviamente in quella giurisdizionale, la materia di cui si occupano le sezioni consultive e quelle giurisdizionali è la stessa, cioè la materia amministrativa. Vi è una identità di finalità che accomuna le varie sezioni, e cioè assicurare la correttezza dell’agire amministrativo. La differenza sta nel momento in cui ciò avviene: in via preventiva nel rilascio di pareri, al fine di prevenire errori, in via successiva nell’emanazione di sentenze, a tutela di interessi legittimi contro un cattivo esercizio del potere amministrativo59.

Per ciò che attiene all’esercizio della funzione consultiva nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (oggetto di un rilevante intervento del legislatore attuato con legge n. 69/2009), il Consiglio esprime un parere obbligatorio e vincolante60 nella fase istruttoria.

Il parere viene di regola espresso dalla sezione a cui il ricorso è stato assegnato, ma vi sono due ipotesi (previste dall’art. 12, commi 2 e 3, del d.p.R. n. 1171/1973) in cui viene reso dall’Adunanza Generale, e cioè quando il punto di diritto ha dato o può dar luogo a contrasti giurisprudenziali e nel caso in cui il ricorso renda necessaria la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza.

Tale previsione rivela un’analogia di ratio con quella del tutto simile che riguarda l’Adunanza Plenaria, con la differenza che nei casi di intervento dell’Adunanza Generale l’iniziativa può essere solamente d’ufficio, e non spetta anche alle parti come nella disposizione dell’art. 99 c.p.a. Questo ha portato la dottrina61 a ritenere che l’intervento dell’Adunanza Generale, seppur attivato da un caso concreto, persegua finalità di carattere generale, ovvero la coerenza e l’unità dell’ordinamento in materia amministrativa.

Sulla base di quanto fin qui prospettato, può quindi concludersi non solo che la funzione nomofilattica è perfettamente compatibile con l’esercizio della funzione consultiva del Consiglio di Stato, ma che il carattere vincolante del parere emesso dall’Adunanza Generale in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica garantisce la risoluzione di contrasti giurisprudenziali e di questioni di massima particolarmente rilevanti. In tal modo, l’esercizio della funzione nomofilattica in sede giurisdizionale e consultiva consente la riconduzione ad unità del ruolo svolto dal Consiglio, quale organo di vertice dell’ordine giudiziario amministrativo62.

 

8. Conseguenze della violazione dell’art. 99 c.d.a.

Si è visto come l’art. 99 c.p.a. ponga dei vincoli alla possibilità per le Sezioni semplici di decidere le controversie ad esse affidate seguendo principi di diritto difformi rispetto a quelli stabiliti dall’Adunanza Plenaria. Il codice del processo amministrativo non prevede però espressamente alcuna sanzione o rimedio in caso di violazione del citato disposto.

In assenza di precedenti e alla luce dell’impianto normativo codicistico e dei principi generali, la dottrina ha avanzato alcune ipotesi in merito alle possibili conseguenze della violazione dell’art. 99.

Si è in particolare sostenuto63 che la sentenza di una Sezione del Consiglio che decida la controversia non attenendosi al principio di diritto sancito dalla Plenaria e senza rinviare ad essa, potrebbe essere considerata come costituente violazione di un limite esterno di giurisdizione. Si potrebbe cioè ritenere che una Sezione semplice che emetta una sentenza in violazione dell’art. 99 eserciti un potere giurisdizionale di cui non dispone. La conseguenza di tale impostazione sarebbe la possibilità di utilizzare il ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost. contro la sentenza amministrativa.

Altra dottrina64 ha manifestato perplessità nei confronti di tale tesi.

Secondo tale ultimo Autore, sebbene vi sia un precedente65 in cui la Corte di Cassazione ha stabilito che costituisce motivo attinente alla giurisdizione per mancato esercizio dei propri poteri giurisdizionali il caso in cui il giudice amministrativo abbia dichiarato l’inammissibilità della domanda di risarcimento danni nei confronti della Pubblica amministrazione per omessa, preventiva o contestuale richiesta di annullamento dell’atto amministrativo che ha causato il danno, questa pronuncia della Cassazione deve essere giudicata come un’indebita invasione nel campo spettante al giudice amministrativo, che può essere spiegata collocandola nel particolare momento in cui è stata emessa: cioè nel periodo di maggiore scontro fra Cassazione e Consiglio di Stato sul tema della pregiudiziale amministrativa. In tale ottica si può ritenere che l’episodio debba essere considerato isolato, e destinato a non avere seguito in ragione del definitivo superamento di tale contrasto, in seguito all’approvazione dell’art. 30 c.p.a.

Un approccio più disteso alla questione condurrebbe invece – è sempre l’opinione dell’Autore citato – a ritenere inaccettabile la soluzione del ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost. per violazione dell’art. 99 c.p.a., poiché in tal modo si attribuirebbe alle SS.UU. della Cassazione il potere di estendere anche al merito il sindacato sui principi espressi dalla Plenaria, divenendo una sorta di giudice di terzo grado del processo amministrativo. Un esito che andrebbe giudicato eversivo del sistema.

E’ un tema che dovrà essere ancora dibattuto e che potrebbe rendere necessario un nuovo intervento riformatore del legislatore, alla luce della già sollevata66 esigenza di ripensare l’art. 111 Cost. e la pluralità delle nomofilachie dei vertici delle magistrature.

Dalle osservazioni fin qui brevemente svolte, sembra doversi pertanto concludere che, qualora non si accolga l’ipotesi dell’utilizzo del ricorso ex art. 111 Cost. contro le pronunce emesse disattendendo l’art. 99 c.p.a., l’ordinamento non preveda alcun rimedio per invalidare tali decisioni, essendo queste pronunce emesse in ultima istanza. Né sarebbe ipotizzabile l’utilizzo dello strumento della revocazione, essendo questo esperibile in casi tassativi fra i quali non rientra la violazione dell’art. 9967.

Va però rimarcato che l’art 99 pone comunque un obbligo giuridico vincolante per i magistrati delle Sezioni semplici che incorressero nella sua violazione. Pertanto, anche qualora si dovesse propendere per ritenere assente nel nostro ordinamento un rimedio verso le sentenze emesse disattendendo un principio di diritto posto dall’Adunanza Plenaria, occorre valutare se sia ipotizzabile una responsabilità in capo ai magistrati autori della violazione.

A tal proposito va ricordato che i magistrati amministrativi sono sottoposti, come i magistrati ordinari e contabili, alla legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati68.

Secondo tale legge, in estrema sintesi, i magistrati sono responsabili per i danni causati dai loro atti compiuti con dolo o colpa grave. Secondo l’art. 2, comma 2, la colpa grave consiste in una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, definizione in cui non possono comunque rientrare le attività di interpretazione di norme di diritto e la valutazione del fatto e delle prove.

La giurisprudenza ha fornito una interpretazione piuttosto rigida del concetto di “negligenza inescusabile”, tale da rendere non agevole la sua concreta configurabilità, in particolare affermando che la colpa grave “sussiste quando il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero”69.

Tale orientamento giurisprudenziale non sembra però poter costituire ostacolo al riconoscimento della colpa grave in capo ai magistrati delle Sezioni semplici che disattendano il vincolo posto dall’art. 99. Il suo significato, così come la sua portata innovatrice, sono del tutto evidenti, né la disapplicazione del principio stabilito dalla Plenaria può considerarsi attività di “interpretazione di norma di diritto”. La sua violazione configurerebbe senz’altro quella “violazione grossolana e macroscopica della norma” che vale a fondare la responsabilità civile per colpa grave dei magistrati.

In particolare, sarà pacifica la responsabilità dei magistrati della Sezione semplice nel caso in cui il principio di diritto sia emerso nel corso del dibattimento, sia stato oggetto di discussione e la Sezione lo abbia deliberatamente ignorato. Occorrerà invece valutare con attenzione il caso in cui il principio non sia emerso nel dibattimento, né sia stato richiamato dalle parti. In tal caso si potrà ipotizzare una colpa grave dei magistrati solo nel caso in cui il principio da richiamare sia di frequente applicazione giurisprudenziale o comunque tale da non poter essere ignorato dal giudice sulla base della diligenza media professionale richiedibile nel caso specifico.

Più delicato sarà il caso in cui la Sezione semplice inquadri il principio di diritto disatteso negli obiter dicta, notoriamente non vincolanti, perché in tal caso si potrebbe invocare l’esenzione da responsabilità per attività di interpretazione di norme di diritto70.

Occorre infine ricordare che l’art. 18 del R. D. Lgs. n. 511 del 194671 stabilisce la responsabilità disciplinare del magistrato che manchi “ai suoi doveri o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”. E’ una previsione evidentemente generica, la cui applicabilità al caso concreto deriva dalla sensibilità di chi è chiamato ad emettere la sanzione.

La stessa genericità della fattispecie porta però la dottrina72 a concludere pronunciandosi a favore della possibilità che tale disposizione sia utilizzata per promuovere un’azione disciplinare nei confronti dei magistrati che si rendano responsabili della violazione dell’art. 99 c.p.a.

 

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1 Su caratteristiche e distinzioni fra i due sistemi giuridici occidentali si vedano, fra gli altri, A.PIZZORUSSO, Sistemi giuridici comparati, Giuffrè 1998; V. VARANO – V. BARSOTTI, La tradizione giuridica occidentale, vol. I, Testo e materiali per un confronto civil law – common law, III ed., Torino 2006, spec. pag. 300 ss.

2 Sul pensiero di Montesquieu si può consultare, fra gli altri, D. FELICE. (a cura di), Leggere ‘Lo spirito delle leggi’ di Montesquieu, 2 voll., Milano, Mimesis, 2010.

3 A. PIZZORUSSO, cit., pag. 69 ss.

4 N. PICARDI, La vocazione del nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ, 2004, pag. 41 – 72.

5 Sul punto si vedano E. CHELI, F. DONATI, La creazione giurisprudenziale del diritto nelle decisioni dei giudici costituzionali, in Dir. Pubbl. 2007, pagg. 155 – 178; N. LIPARI, Giurisprudenza costituzionale e fonti del diritto, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ, 2006, pagg. 1047 – 1054.

6 C. MORTATI, Le leggi provvedimento, Milano 1968. Per una dottrina più recente si veda, fra gli altri, S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per legge, Milano 2007.

7 N. PICARDI, cit. pag. 47.

8 P. MAROVELLI, L’indipendenza e l’autonomia della magistratura italiana dal 1848 al 1923, Giuffrè 1967, spec. pag. 54 ss; O. ABBAMONTE, La politica invisibile. Corte di Cassazione e Magistratura durante il Fascismo, Giuffrè, Milano, 2003. Sulla situazione della magistratura nei primi decenni della Repubblica si veda R. CANOSA, Storia della magistratura in Italia, Baldini & Castoldi, 1996. Si veda inoltre M. NIGRO, Giustizia amministrativa, V ed. a cura di E. CARDI e A. NIGRO, Bologna 2000, pag. 70, il quale ricorda che “La magistratura italiana versava invece, dopo l’unificazione, in condizioni di vera e propria inferiorità […] essa dipendeva organizzativamente dal potere esecutivo, il quale esercitava sui magistrati, prevalentemente per il tramite degli uffici del pubblico ministero, la sorveglianza morale e ne controllava l’operosità professionale e perfino la condotta politica. D’indipendenza quei magistrati ne avevano ben poca”.

9 R. ROMBOLI, Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

10 A. BARONE, Giustizia comunitaria e funzioni interne, Cacucci 2006.

11 Parla di tramonto del mito del giudice mero esecutore della legge e dell’avvento di un giudice “dei diritti” F. G. PIZZETTI, Il giudice nell’ordinamento complesso, Milano 2003.

12 G. ZAGREBELSKY, La dottrina del diritto vivente, in Giur. Cost, 1968, pag. 1148 ss. Si veda inoltre M. CAVINO, Il precedente tra certezza del diritto e libertà del giudice: la sintesi nel diritto vivente, in Dir. Soc., 2001, pagg. 159 – 174. Di passaggio da giudice sottoposto alla legge a giudice sottoposto all’intero sistema delle fonti parla A. PIZZORUSSO, Intervento al Convegno di Senigaglia, 9 – 11.11.1979, in Giust. e Cost., 1980, pag. 183 ss., ID., Intervento, in I poteri del giudice civile di fronte alla legge, Rimini 1985, pag.219 ss.; ID, Fonti politiche e fonti culturali, in Scritti in onore di E.T. Liebman, Milano, 1979, pag. 327 ss.

13E. FOLLIERI, L’introduzione del principio dello stare decisis nell’ordinamento italiano, con particolare riferimento alle sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, relazione tenuta al convegno su ” Giustizia amministrativa: garanzie costituzionali e principi del diritto della Unione Europea” svoltosi a Teramo il 21.10.2011.

14 P. CALAMANDREI, La Cassazione civile, Milano, 1920 (rist. in Opere giuridiche, VI – VII, Napoli 1976), VI, pag. 395 ss.; F. MAZZARELLA, “Fatto e diritto” in Cassazione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1974, spec. pagg. 107 – 111.

15 A. PIZZORUSSO, voce Corte di Cassazione, in Enciclopedia Giuridica, Treccani 1988.

16 A. RICCIO, La rivitalizzazione legislativa della funzione nomofilattica della Cassazione, in Contratto e impresa, n. 3/2006.

17 P. AURIEMMA, Il “mestiere” di magistrato, in I magistrati e la sfida della professionalità, IPSOA 2003, pag. 65.

18 V. ANDRIOLI, Quis super Mediolani praetorem? in Giur. Cost., 1968, pag. 2252.

19 Da ricordare fra gli altri il discorso di insediamento del Primo Presidente della Corte di Cassazione Antonio Brancaccio, Della necessità urgente di restaurare la Corte di Cassazione, in Foro it., 1986, V, c. 461.

20 La problematica della nomofilachia diventa molto dibattuta, al punto che c’è chi ritiene di lanciare l’allarme sul rischio che la essa sia invocata in modo strumentale, con lo scopo di giustificare l’adozione di una vera legislazione d’emergenza sulla Cassazione: è l’opinione di G. BALENA, Il sistema delle impugnazioni civili nella disciplina vigente e nell’esperienza applicativa: problemi e prospettive, in Foro it., 2001, V, c. 138.

21 A. RICCIO, cit.

22 M. SANTORELLI, Il c.d. diritto vivente tra giudizio di costituzionalità e nomofilachia, in AA.VV., Interpretazione a fini applicativi e legittimità costituzionale, a cura di FEMIA, Jovene, 2006, pag. 544.

23 Trasformate in “organi di bassa cucina”, secondo l’icastica espressione di S. CHIARLONI, Prime riflessioni su recenti riforme del giudizio di Cassazione, GI, 2003, IV, pag. 818.

24 S. TOMMASEO, La riforma del ricorso per Cassazione: quali i costi della nuova nomofilachia?, Giur. it., 2003, IV, pag. 826; S. CHIARLONI, Prime riflessioni, cit., pag. 817.

25 Le SS.UU. divengono “capolinea di ogni fermento innovatore” secondo C. CONSOLO, Giustizia. Corti di gravame, tradizione e modernità in Corriere Giur., 2005, pag. 753.

26 E. FAZZALARI, Il giudizio civile di Cassazione, Milano, 1960, pag. 209.

27 G. IMPAGNATIELLO, La Cassazione civile dopo la riforma, in Il giusto processo civile, n.4/2008, pag. 1017 ss.

28 A. RICCIO, cit.; Le Sezioni semplici potranno stimolare l’evoluzione giurisprudenziale ma non intervenire sui principi secondo F. P. LUISO, Il vincolo delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni Unite, in Giur. it., 2003, pag. 820.

29 B. SASSANI, Il nuovo giudizio di Cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2006, pag. 217; G.IANNIRUBERTO, Le attribuzioni delle Sezioni Unite civili e l’efficacia del principio di diritto, in Corriere giuridico, 2008, pag. 725.

30 F. P. LUISO, cit., pag. 821.

31 P. BIAVATI, La Corte di Cassazione, in P. BIAVATI – C. GUARNIERI – R. ORLANDI – N.ZANON, La giustizia civile e penale in Italia, Il Mulino, 2008, pagg. 178 – 181.

32 I. M. MARINO, Corte di Cassazione e giudici “speciali” (Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.) in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, Milano 1993, pag. 1396 – 1397; E. FOLLIERI, La giustizia amministrativa nella Costituente tra unicità e pluralità delle giurisdizioni, in Dir. Proc. Amm., 2001, pagg. 911 – 927.

33 S. SPAVENTA, Giustizia nell’amministrazione, 1880, ripubblicato in S. SPAVENTA, La giustizia nell’amministrazione, Torino 1949; G.M. CHIODI, La giustizia amministrativa nel pensiero politico di Silvio Spaventa, Bari, 1949.

34 In dottrina si è sostenuto con varie argomentazioni che la Costituente abbia accolto l’unità o la pluralità della giurisdizioni. A favore della tesi della pluralità si vedano, fra gli altri, E. SPAGNA MUSSO, Giudice (nozione), in Enc. Dir., vol. XVIII, Milano 1963, pag. 942; F. MODUGNO, Legge, ordinamento giuridico, pluralità degli ordinamenti: saggi di teoria generale del diritto, Milano 1985, pag. 185 ss. Per la tesi dell’unità della giurisdizione M. S. GIANNINI, Sulle decisioni amministrative contenziose (a proposito della natura giuridica della sezione per l’epurazione del Consiglio di Stato), in Foro Amm., 1949, 1, pag. 316 ss.; G. SILVESTRI, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione nella Costituzione italiana, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano 1988, pag. 742 ss.; E. CAPACCIOLI, Unità della giurisdizione e giustizia amministrativa, in Dir. e Proc., 1978; S. LESSONA, La funzione giurisdizionale, in P.CALAMANDREI e A. LEVI (diretto da), Commentario alla Costituzione italiana, vol. II, Firenze 1950, pag. 199 ss. Per la tesi della giurisdizione al contempo unica e plurima si rinvia al già citato I. M. MARINO, Corte di Cassazione e giudici “speciali” (Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.).

35 Sul punto si veda I. M. MARINO, Sulla funzione giurisdizionale del Consiglio di Stato , in S. CASSESE (a cura di), Il Consiglio di Stato e la riforma costituzionale, Milano 1997, pag. 85.

36 M.V. FERRONI, Il ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, Padova 2005, pag. 100 ss.

37 Sul punto si veda, anche per un corredo giurisprudenziale, S. OGGIANU, Giurisdizione amministrativa e funzione nomofilattica – l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, CEDAM 2011, pag. 140 ss.

38 F. BILE, Qualche dubbio sul nuovo riparto di giurisdizione, in Corr. Giur, 1998, pag. 1475 – 1479, che sottolinea come tale ipotesi configurerebbe violazione dell’art. 3 Cost.

39 I. M. MARINO, Corte di Cassazione e giudici “speciali” (Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.), cit., pag. 1406 ss.; A. BARONE, Giustizia comunitaria e funzioni interne, cit., pag. 94 ss.

40 A. PIZZORUSSO, Le fonti del diritto, in Commentario del Codice civile Scialoja – Branca, a cura di Francesco Galgano, II ed., Bologna 2011, spec. pag. 165 ss.

41 Sulla distinzione fra ratio decidendi e obiter dictum V. MARINELLI, voce Precedente giudiziario, in Enc. dir., Milano, pag. 885; e G. GORLA, voce Precedente giudiziale, in Enciclopedia Giuridica, Treccani 1988, pag. 12.

42 E. FOLLIERI, cit.

43 E’ la stessa legge n. 62/1907 che attribuisce espressamente natura giurisdizionale alla IV e V Sezione, chiudendo l’antica disputa.

44 L. R. LEVI SANDRI, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in AA. VV., Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, vol. III, Roma 1981, pag. 1299.

45 M. S. GIANNINI, Organi (teoria generale), in Enc. dir., vol. XXXI, Milano 1981, pag. 37 ss.

46 F. FIGORILLI, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino 2011, pag. 41.

47 Quest’ultima previsione, contenuta già nell’art. 45 TU leggi sul Consiglio di Stato, aveva suscitato perplessità in dottrina per la possibile lesione del principio del giudice naturale: M.LIPARI in A. QUARANTA – V. LOPILATO (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al d.lgs. n. 104/2010, Milano 2011, pag. 735 ss.

48 E. FOLLIERI, cit.

49 S. OGGIANU, Giurisdizione amministrativa e funzione nomofilattica – l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, cit., pag. 179 ss.

50 S. OGGIANU, cit., pagg. 180 – 184.

51 M. MENGOZZI, in F. CARINGELLA – M PROTTO, Codice del nuovo processo amministrativo, Dike giuridica, 2010, pag. 855.

52 E. FOLLIERI, cit.

53 E. FAZZALARI, voce Ricorso per cassazione nel diritto processuale civile, in Digesto, UTET.

54 P. CALAMANDREI, C. FURNO, Cassazione civile, in Noviss. Dig., II, Torino 1958, pag. 1055.

56 G. FERRARI, Gli organi ausiliari, Milano 1956, pag. 188 ss.

57 R. CHIEPPA, L’ambiente fra Stato e regioni, in Urbanistica e appalti, 2004, 7, pag. 824. Si veda inoltre la Relazione sullo stato della Giustizia amministrativa nel 2005 del Presidente Alberto de Roberto, secondo cui “Il Consiglio di Stato in sede consultiva è chiamato ad un ruolo che, forse, non trova corretta individuazione nel vocabolario del quale si fa uso. In sede “consultiva” il nostro Istituto non si pone, infatti – come l’espressione utilizzata per identificare l’espletamento di tale compito, potrebbe indurre a pensare – quale “fiancheggiatore” di una parte che invoca ausilio nella ricerca di un itinerario rispondente ai propri progetti, ma si colloca, invece, – come è scritto nell’art. 100 della Costituzione – in veste di organo di giustizia nell’amministrazione. Ciò significa che il Consiglio di Stato esprime in piena indipendenza le sue valutazioni in una posizione di assoluto distacco rispetto alla Amministrazione che chiede il parere valutando, con lo stesso “habitus” del giudice (e, perciò, con assoluta terzietà), la questione che gli viene sottoposta e gli interessi dalla stessa coinvolti.”

58 A. PAJNO, voce Consiglio di Stato, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. II, Milano 2006, pag. 1323.

59 S. OGGIANU, Giurisdizione amministrativa e funzione nomofilattica – l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, cit., pag. 21; G. LANDI, La funzione consultiva del Consiglio di Stato: passato, presente e futuro, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma 1981, pagg.1285-1286; S. ROMANO, Le funzioni e i caratteri del Consiglio di Stato, in AA.VV., Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, Roma 1932, pag. 26.

60 V. PARISIO, L’attività consultiva, in M. A. SANDULLI, Codice dell’azione amministrativa, Milano 2010, pag. 698.

61 S. OGGIANU, cit., pag. 33.

62 S. OGGIANU, cit., pag. 37.

63 S. OGGIANU, cit., pag. 87.

64 E. FOLLIERI, L’introduzione del principio dello stare decisis nell’ordinamento italiano, con particolare riferimento alle sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, cit.

65 Cass. SS.UU. ord. 5. giugno 2006 n. 7035.

66 I. M. MARINO, Corte di Cassazione e giudici “speciali” (Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.), cit., pag. 1406 ss.; A. BARONE, Giustizia comunitaria e funzioni interne, cit., pag. 94 ss. Sul punto si veda il precedente par. 4 del presente lavoro.

67 E. FOLLIERI, op. ult. cit.

68 Sulla responsabilità civile dei magistrati nello Stato italiano si vedano A. GIULIANI – N. PICARDI, La responsabilità del giudice, Milano 1995; Per una prospettiva di respiro europeo A. BARONE, Giustizia comunitaria e funzioni interne, cit., pag. 99 ss.; V. PICCONE, Il regime di responsabilità civile del magistrato, pubblicato in http://www.lex.unict.it/cde/quadernieuropei/giuridiche/35_2011.pdf.

69 Cass. Civ. Sez. III, n. 7272 del 18.03.2008, in Diritto e Giustizia, 2008; Cass. Civ. Sez. III, n. 11593 del 26.05.2011, in Diritto e Giustizia, 2011. Sulla necessità che la colpa si presenti come “non spiegabile” e sulla necessità che la negligenza inescusabile configuri un quid pluris rispetto alla colpa grave ex. art. 2236 c.c., Cass. Civ. , Sez. III, n. 15227 del 5.07.2007, in Giust. Civ. Mass. 2007, 7 – 8; Cass. Civ., Sez. III, n. 25133 del 27.11.2006.

70 Per una ricostruzione sulla possibile responsabilità dei magistrati amministrativi delle Sezioni semplici in caso di violazione dell’art. 99 c.p.a. E. FOLLIERI, op. ult. cit.

71 La legge n. 186 del 1982 sull’ordinamento della giustizia amministrativa rinvia, per ciò che attiene alla responsabilità dei magistrati amministrativi, alla disciplina prevista per i magistrati ordinari. Fino al 2006 il testo di riferimento in materia è stato il R. D. Lgs. n. 511 del 1946, sul quale è intervenuta l’abrogazione operata dal dlg.vo. n. 109 del 2006. Il nuovo testo legislativo ha dettato una rinnovata disciplina sulla responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, stabilendo però espressamente al’art. 30 che le nuove norme non si applicavano alla magistratura amministrativa e contabile. Pertanto la dottrina prevalente, escludendo che i magistrati amministrativi siano divenuti esenti da ogni ipotesi di responsabilità disciplinare, ritiene che per essi continui a trovare applicazione la disciplina del R.D. del 1946, che dovrebbe intendersi quindi abrogato solo con riguardo ai magistrati ordinari. Sul punto V.TENORE (a cura di), M.FRESA, M.FANTACCHIOTTI, V. TENORE, S. VITIELLO, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Giuffrè 2010.

72 E. FOLLIERI, op. ult. cit.

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Barletta Marcello

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