La funzione della mediazione familiare con i bambini

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Abstract: L’Autrice mette a fuoco e analizza l’importanza e il ruolo dell’intervento del mediatore familiare nelle situazioni familiari conflittuali, vissute dalla prospettiva dei bambini.

“Questo mondo è pieno di ex mogli ed ex mariti. Ma non esistono ex figli” (Bruno Ferrero, scrittore e pedagogista salesiano).

“Le strutture e le relazioni familiari contemporanee si formano e si trasformano assumendo configurazioni sempre più composite, mutevoli e diversificate. Lo segnalano la diminuzione dei matrimoni e l’incremento delle coppie di fatto, la crescita delle rotture tra coniugi e tra conviventi in presenza di figli minori, il fenomeno delle ri-coabitazioni con le famiglie di origine e del «pendolarismo familiare». Come è stato osservato, la famiglia nell’epoca ipermoderna si presenta priva di un centro di gravità, stratificata, disordinata, irriducibile a una formazione nucleare, incline ad assumere organizzazioni tendenzialmente plurali. L’altra faccia è la precarietà degli affetti, che sta assumendo una dimensione sociale non più trascurabile ed è fonte di notevole stress per tutti i soggetti coinvolti, soprattutto per i bambini che, sempre più precocemente, si trovano ad affrontare riorganizzazioni e stratificazioni dei loro legami familiari. La transizione separativa richiede infatti notevoli capacità di adattamento, energie e risorse per fronteggiare passaggi ad alto tasso di vulnerabilità. Dalle ricerche emerge anche che padri e madri in conflitto sono maggiormente in difficoltà nel rispondere adeguatamente alle responsabilità generative e ad assumere una funzione normativa, sono più irritabili e meno coinvolti con i figli, hanno minor tempo da dedicare loro, faticano nell’ascoltarli e nel fornirgli appoggio emotivo. Considerate queste variazioni delle forme familiari diventa centrale il sostegno della famiglia nel suo periodo decisamente più critico, quando i genitori si separano, sostegno che può assumere molte forme e che comprende sicuramente anche l’ascolto dei figli” (la mediatrice familiare Laura Gaiotti).[1]

La mediazione familiare, in presenza di figli specialmente minori d’età, vuole riportare l’attenzione su di loro e accompagnare i separandi a vivere la genitorialità con nuove modalità. La mediazione familiare ha una “dimensione minorile” per varie ragioni, innanzitutto perché persegue i principi ispiratori del Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e realizza quell’interesse superiore del fanciullo che deve costituire oggetto di primaria considerazione (art. 3 par. 1 Convenzione). “Interesse” significa “ciò che sta in mezzo” (come nell’etimo della mediazione), in questo caso ciò che sta tra la coppia coniugale o convivente che sta naufragando e la famiglia in divenire. Già nell’art. 143 cod. civ., letto durante il rito del matrimonio, si parla di “interesse della famiglia” e di “bisogni della famiglia” proprio per distinguere le sorti della coppia da quelle dell’intera famiglia. Lo stesso vale per i “doveri verso i figli” (art. 147 cod. civ.) che sono disciplinati distintamente dai “diritti e doveri reciproci dei coniugi” di cui all’art. 143 per distinguere la coppia coniugale da quella genitoriale. E la mediazione mira a ridare la lucidità mentale su questa distinzione.

La mediazione familiare è connaturalmente “pro figli” per la sua aggettivazione “familiare” e la famiglia è pienamente compiuta quando vi sono dei figli. Svolge un’educazione familiare perché richiama i genitori sulla continuità e sulla comunanza degli obblighi verso i figli enucleati nell’art. 147 cod. civ. e soprattutto “nel rispetto” (locuzione inserita nel novellato testo dell’art. 147 cod. civ. dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”) di quanto espresso e manifestato dai figli anche circa il loro affidamento. Già nell’art. 5 lettera b della “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna” del 1979 si prevedeva “ogni misura adeguata” “al fine di far sì che l’educazione familiare contribuisca alla comprensione che la maternità è una funzione sociale e che uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di assicurare il loro sviluppo, restando inteso che l’interesse dei figli è in ogni caso la considerazione principale”. La mediazione contribuisce anche a responsabilizzare i genitori a non far mancare ai figli quell’assistenza morale introdotta dall’art. 315-bis “Diritti e doveri del figlio” cod. civ. aggiunto dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219 e, poi, nell’art. 147 come novellato dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154.

“Il diverso approccio nei confronti delle problematiche familiari contraddistingue la bipartizione mediazione globale-mediazione parziale. Il primo modello estende il proprio ambito di azione a tutte le questioni inerenti al rapporto di coppia affrontando sia i problemi che prettamente riguardano la prole, sia quelli di tipo economico-patrimoniale, volgendo l’attenzione agli aspetti più pratici di una riorganizzazione del nucleo familiare. […] Il modello di mediazione parziale all’inverso, focalizza il suo lavoro sugli aspetti più emotivi del conflitto familiare concentrandosi, specificatamente, sulla dimensione genitoriale. Il mediatore che opera in un’ottica parziale separa idealmente il rapporto di coppia dal legame genitore-figlio tendendo alla massima valorizzazione del rapporto genitoriale anche quando quello di coppia si addentra nei meandri dolorosi di una crisi, talvolta irreversibile, in virtù del fatto che le responsabilità genitoriali non vengono mai meno e che occorre impegnarsi, soprattutto quando è in atto un fenomeno di dissociazione coniugale, nella ricerca di soluzioni condivise volte alla cura della prole”.[2]

La mediazione familiare giova ai figli sotto diversi aspetti. “Descrivere le situazioni difficili della propria vita, cercando di chiarire ciò che si pensa e si prova al riguardo, serve non solo a fare chiarezza in se stessi e a “sfogarsi”, ma può anche migliorare lo stato generale di salute, favorire l’efficienza personale e modificare in senso positivo le relazioni interpersonali. Ne consegue che quando un adulto sta meglio, ne beneficerà anche la relazione con i suoi figli” (dall’esperienza psicologica).[3] Oltre ad essere più sereni, i genitori in mediazione acquisiscono maggiore capacità nel comunicare ai figli quanto sta avvenendo senza scaricarsi a vicenda, anche in questo caso, la responsabilità: “Una prima considerazione concerne il compito di effettuare una comunicazione difficile al bambino: comunicare gli eventi dolorosi della vita di una famiglia è un processo e, in quanto tale, dura nel tempo e non si esaurisce dando una spiegazione che vale per sempre. I bambini crescono, acquisiscono competenze mentali, cognitive, comunicative e avranno ripetutamente l’esigenza di porre nuove domande in relazione alla loro maggior capacità di comprensione. […] Il primo passo è, quindi, quello di ricercare l’alleanza dei genitori rispetto alla necessità di parlare con i bambini e aiutarli ad attribuire significati corretti a esperienze, fatti e ricordi. Per quanto un operatore possa pensare che potrebbe essere più facile e veloce parlare direttamente lui stesso al bambino e spiegargli “come stanno le cose” – soprattutto in presenza di genitori con scarse capacità di mentalizzazione o evidenti limiti cognitivi ed emotivi – è al contrario indispensabile accompagnare il genitore in questa comunicazione, rispettare i suoi tempi di elaborazione e sostenerlo in tutto il processo” (dall’esperienza psicologica).[4]

La mediazione familiare serve per attuare e rispettare i diritti all’ascolto e di ascolto dei figli minori d’età, dall’ascolto dei genitori all’ascolto sociale. “Sin dal primo giorno, dal momento in cui viene iniziato il procedimento, il figlio, i figli dovrebbero essere avvertiti. E, alla fine del procedimento, dovrebbero essere informati dal giudice delle decisioni del divorzio, dopo essere stati ricevuti da soli dal giudice, ovviamente nel caso che questi sappia parlare ai bambini, altrimenti da una persona da lui incaricata della cosa, capace di entrare facilmente in contatto con i bambini. Attualmente sono troppo pochi i giudici capaci di parlare ai bambini alle prese con le difficoltà della separazione dei genitori. Le cose cambieranno: oggi i giovani giudici sono diversi e anche la legge cambia. L’importante è che il bambino possa sentire le parole giuste di uno che non cerchi di mettersi alla sua portata edulcorando le difficoltà. Basta dirgli: “Sai perché sei venuto? I tuoi genitori pensano di separarsi. Tu lo sapevi?” Che lui risponda o no, comunque bisogna parlargli… Non ci sono limiti di età per spiegare la sua situazione a un bambino” (la psicoanalista francese Francoise Dolto).

Chiudersi nella stanza di mediazione per spezzare la catena della conflittualità e prendersi un nuovo tempo e un nuovo spazio, per riprendersi in mano la vita è didascalico per i genitori e indirettamente per i bambini. “Gli uomini si agitano disperatamente nel loro quotidiano per evitare di confrontarsi con se stessi. Cercano una presenza, un palliativo per la loro disperata solitudine interiore, e ciò in una folle ricerca dell’altro, perché la solitudine è per loro insopportabile. L’uomo moderno sembra preso in una corsa vertiginosa contro l’orologio. Accumula compiti, azioni e poiché ciò non basta, riempie di rumori ogni spazio libero per immaginare che la sua vita sia piena. Molto presto noi condizioniamo i nostri bambini a questo ritmo così poco naturale. Così il bambino perde molto presto la sua capacità di essere e diventa lo specchio dell’angoscia dei genitori che sono sempre più condizionati dai modelli di vita imposti e falsi, spesso veicolati dai mezzi audiovisivi” (Jacqueline Morineau, francese esperta di mediazione umanistica).[5] La mediazione familiare nel codice civile è associata all’ascolto perché menzionata nell’art. 337-octies rubricato “Poteri del giudice e ascolto del minore”. “Ascolto” ha la stessa origine etimologica di “cultura”; nell’art. 3 lettera o della legge 22 luglio 2011 n. 112 “Istituzione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza” si legge: “[…] favorisce lo sviluppo della cultura della mediazione e di ogni istituto atto a prevenire o risolvere con accordi conflitti che coinvolgano persone di minore età, stimolando la formazione degli operatori del settore”. Il legislatore del 2011 ha accolto, pertanto, l’appello e l’auspicio formulato nel Documento “Per una mediazione a misura di bambini” del 2005 in cui, tra l’altro, al punto n. 5 sta scritto: “L’intervento legislativo dovrà promuovere la diffusione sia della cultura che dei servizi di mediazione”. L’accostamento dell’ascolto alla cultura della mediazione fa ben sperare in una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza; quell’infanzia e quell’adolescenza cui in famiglia, tanto in un clima sereno quanto in un periodo conflittuale, sono da “ascoltare” (dal latino “auris”, orecchio, e “colere”, coltivare, curare, trattare riguardosamente, quindi “coltivare nell’orecchio, porgere attentamente l’orecchio”), una via di mezzo tra l’“udire” (propendere verso qualcuno), il “sentire” (dirigere verso qualcuno i sensi) e l’“intendere” (volgere la mente verso qualcuno).

Imparando ad ascoltare si ha (o ci si avvia verso) il “superamento delle difficoltà relazionali” cui è chiamata la mediazione familiare nell’art. 4 lettera i della legge 285/1997, quelle difficoltà relazionali di cui bambini e adolescenti sono vittime o possono esserne indirettamente causa per scelte non condivise tra i genitori o per richieste insostenibili dalla famiglia. Con l’ascolto si dà voce alle “esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia” (dall’art. 144 cod. civ.) secondo cui concordare l’indirizzo della vita familiare (ratio dell’art. 144 cod. civ.) che rappresenta la funzione di “mediazione attiva” della famiglia. La mediazione familiare aiuta a dare un nuovo indirizzo alla vita familiare, dopo la crisi e oltre la crisi distinguendo le esigenze individuali da quelle di entrambi e da quelle dei figli e dell’intera famiglia. In questi termini, l’art. 144 cod. civ. ben si adatta alla mediazione familiare e può essere riletto in “chiave mediativa”, perché i coniugi (ma anche i conviventi more uxorio) “accomunati dallo stesso giogo” (dall’etimo di coniugi) della sofferenza causata dalla conflittualità concordano tra loro il nuovo indirizzo della vita familiare e fissano la nuova residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia.

“Entrambi” (etimologicamente “fra tutti e due”) e “preminenti”: aspetti su cui la mediazione familiare vuole focalizzare l’attenzione e la consapevolezza dei confliggenti. “La coppia viene così aiutata a passare da un piano di conflitto coniugale ad uno in cui prendere gli accordi genitoriali. Questi accordi devono tener conto dei sentimenti e delle necessità dei bambini, oltre che dei coniugi. Inoltre, devono facilitare la ripresa della comunicazione tra genitori e figli. Per questo motivo, i mediatori sollecitano la coppia di genitori a calarsi nella vita quotidiana e a trovare le soluzioni migliori, per riorganizzare la gestione familiare, in vista della separazione coniugale” (le mediatrici familiari Daniela Galli e Chiara Kluzer).[6]

Un aspetto che continua ad essere discusso da teorici e operatori della mediazione familiare è la diretta partecipazione dei figli, soprattutto minori d’età, alla mediazione.

Lisa Parkinson[7], esperta riconosciuta nel campo della mediazione familiare, identifica tutta una serie di motivazioni valide per non coinvolgere i figli negli incontri di mediazione, ma anche i potenziali benefici di tale coinvolgimento. Sotto il primo versante, la Parkinson enumera specifiche cause, tra cui si possono ricordare: la mancanza di responsabilità dei ragazzi in relazione al conflitto avvenuto tra i loro genitori; lo sconvolgimento che tali ragazzi potrebbero ricevere prendendo maggiore coscienza di tale conflitto; la possibile confusione tra attività del mediatore e quella di consulente e avvocato del minore; la nascita di aspettative di miglioramento per i figli derivante dal loro coinvolgimento nella mediazione; la pressione a cui questi potrebbero sentirsi sottoposti dovendo esprimere propri sentimenti e stati emozionali; la difficoltà e il peso per il mediatore di mantenere eventuali segreti confidati dal minore soltanto a lui; le manifestazioni di sofferenza che i genitori potrebbero non essere in grado di dominare e contenere dinanzi ai propri figli; il condizionamento che i figli potrebbero ricevere dai propri genitori, anche in ordine alle cose da riferire al mediatore. Per quanto concerne i benefici di tale intervento, invece, la Parkinson, richiamando alcuni orientamenti dottrinari, fa riferimento all’esperienza positiva manifestata da non pochi ragazzi che hanno partecipato alla mediazione. La stessa, poi, individua: una maggiore facilità di adattamento alla nuova soluzione familiare, ove questi capiscano le decisioni dei propri genitori in modo più chiaro; un coinvolgimento dei ragazzi che rende gli stessi consapevoli del fatto che la loro persona è importante nel contesto familiare; la possibilità che il percorso di mediazione consenta ai genitori di ascoltare i propri figli; l’apporto di idee, sentimenti, commenti, domande fatte dai figli (e che contribuisce allo sviluppo della mediazione); la diminuzione della tensione e il miglioramento della comunicazione tra genitori e figli; la possibilità per i figli di essere ascoltati e sfogarsi con il mediatore, senza avere l’ansia di essere sentiti dai genitori; l’elaborazione, da parte dei figli, di tutta una serie di messaggi da trasmettere ai propri genitori.

“Analogamente alla mediazione familiare, che si pone l’obiettivo di incoraggiare il dialogo e la cooperazione tra genitori in separazione, i Gruppi di parola intendono favorire e sostenere la comunicazione tra pari e tra figli e genitori. Genitori la cui comunicazione con i figli risulta troppo spesso compromessa dalle dinamiche conflittuali e dalla difficoltà ad ascoltare i loro problemi e trovare le parole adatte per non lasciarli in balia della loro immaginazione o trascinarli nella propria visione dei fatti. […] Il percorso di mediazione familiare con i genitori può precedere la loro decisione di iscrivere il figlio al Gruppo di parola o, viceversa, il Gruppo di parola può costituire un traino positivo ad un possibile confronto costruttivo tra i genitori al termine della partecipazione del figlio al Gruppo stesso. In analogia alla mediazione familiare anche il Gruppo di parola costituisce un intervento limitato nel tempo, extragiudiziale, riservato e confidenziale che ha l’obiettivo di mantenere e preservare i legami familiari. Quanto emerge nel gruppo è protetto dalla segretezza e non viene riferito né al giudice né all’eventuale inviante” (la mediatrice familiare Laura Gaiotti).[8]

Mutuando la terminologia della Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro (Roma 1967), la mediazione familiare aiuta i genitori e tutta la società altamente conflittuale e poco solidale, soprattutto nei confronti dei più piccoli e deboli, a ricordare che “la personalità del fanciullo è sacra, per garantirne il libero, totale ed armonico sviluppo la società è tenuta ad offrire ad ogni fanciullo un ambiente familiare, scolastico e comunitario dotato di necessari mezzi e di personale appositamente preparato” (art. 1) e “che la famiglia si renda conto della autonomia del fanciullo e carattere decisivo che ha per il suo sviluppo e fin dai primi mesi di vita, il fatto di non essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori” (art. 3).

Con o senza i Gruppi di parola, la mediazione familiare serve a far uscire i genitori dal circolo vizioso di una conflittualità adultocentrata e a proiettarli verso una prospettiva puerocentrata, serve ad interrompere una conflittualità asfittica e egocentrata sul “con-tendersi” i figli e orientare a “pro-tendersi” per i figli in modo che non si verifichi alcuna triangolazione dei figli (che rischia di degenerare in PAS – sindrome da alienazione parentale -, o altro), ma che anche nella conflittualità la famiglia sia tale: l’uno al servizio dell’altro.

 


[1] L. Gaiotti, Le parole dei figli di coppie divise. I Gruppi di Parola come esperienza sinergica alla mediazione familiare, in Minorigiustizia n. 1/2012, FrancoAngeli, Milano, p. 422-423.

[2] A. Cagnazzo (a cura di), La mediazione familiare, UTET Giuridica, Torino 2012, p. 96.

[3] F. Vadilonga, S. Lombardi, S. Petoletti, A. Visconti, Il trattamento psicologico: ricostruire e narrare la storia per sostenere l’elaborazione dei traumi di caregiver e bambini, in Minorigiustizia n. 1/2012, FrancoAngeli, Milano, p. 113.

[4] AA.VV. in Minorigiustizia n. 1/2012, FrancoAngeli, Milano, p. 121.

[5] J. Morineau, Il mediatore dell’anima. La battaglia di una vita per trovare la pace interiore, Servitium Editrice, Milano 2010, p. 24.

[6] D. Galli e C. Kluzer, “Separati ma genitori”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005, p. 88.

[7] AA.VV., La mediazione familiare e la soluzione delle controversie insorte tra genitori separati, Cedam, Padova 2009, pp. 156-157.

[8] L. Gaiotti, op. cit., p. 427.

Dott.ssa Marzario Margherita

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