La finanza locale secondo la legge Costituzionale n’3/2001

Zirillo Bruno 23/10/08
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La trattazione del Regionalismo fiscale deve comprendere il tema della finanza degli Enti locali; prima di provare ad entrare nello specifico, è utile premettere l’inversione di tendenza registrata dalla dinamica del finanziamento locale, a partire dalla prima metà degli anni ’90, quando alla riduzione della finanza derivata (statale e regionale) fece seguito, simmetricamente, l’incremento dell’autonomia impositiva comunale [1] e la diffusione (in parallelo), anche nel nostro Paese, del fenomeno europeo della Tariffa ( t = costo del servizio + quota di ammortamento annuale degli investimenti) quale nuovo metodo di parametrazione della tassazione dei servizi pubblici localmente erogati.
Il problema subito percepito ebbe ad oggetto il carattere aggiuntivo dei tributi locali, quindi il conseguente tendenziale aumento della pressione tributaria: un aspetto non trascurabile che ha consentito il raggiungimento della quasi autonomia finanziaria, ma non ha mancato di gravare sulle collettività locali attraverso la riduzione sostenibile della capacità di spesa.
Consapevoli della realtà finanziaria e dei risvolti politico – elettorali della relativa gestione, l’attuale recriminazione delle municipalità si concentra su due punti essenzialmente:
– la necessità che lo Stato riduca la “sua” pressione fiscale,
– oppure, in alternativa, la duplice opzione fra la riduzione sensibile dell’ambito impositivo statale (e la conseguente attribuzione agli enti locali di una maggiore capacità impositiva) e la maggiorazione della percentuale di incremento della dinamica dei trasferimenti (cosa, oggi, di difficile realizzazione).
Un problema ancora aperto a tutte le possibili soluzioni, al quale, con l’entrata in vigore della l. cost. n°3/01, si è aggiunto quello della “territorialità” della fiscalità locale. Le difficoltà sorgono dal fatto che il nuovo sistema delineato, privilegiando la capacità di ciascun ente locale di generare nuovi tributi, rischia di favorire le aree distinte da maggiore ricchezza disponibile a svantaggio dei piccoli centri con capacità fiscale medio-bassa.
Per questi ultimi, ad esclusione di miracolose evoluzioni macro e micro – economiche e demografiche, non si intravede rimedio diverso dal parziale ritorno alla finanza di trasferimento, determinando un meccanismo perequativo che sia, però, permanente e proporzionato alla densità demografica e non alla loro capacità fiscale.
Criticamente, a questa soluzione può essere eccepito che il ricorso alla pratica perequativa costituisce potenziale fonte di contrasto tra aree donatrici ed aree beneficiarie, anche se, alla logica anti-solidaristica, è facilmente opponibile il risvolto negativo dell’applicazione della territorialità fiscale all’interno delle singole aree regionali, in quanto causerebbe forti attriti in grado di disaggregare ambienti pur generalmente distinti da corposa ricchezza. Sembra necessaria l’emanazione di una legge di attuazione dell’art.114 Cost. che dia vita ad un sistema incentrato sull’importanza della perequazione, ed in tal senso sembrano dirigersi le modifiche al testo “riformatore” della riforma dell’anno 2001.
Un fenomeno già manifestatosi e non con eccellenti risultati è quello della c.d. finanza creativa cui molti enti locali hanno fatto ricorso nel tentativo di ottenere una minima lievitazione delle entrate di cassa, introducendo singolari provvedimenti (spesso una tantum).
Dal punto di vista della stretta funzionalità amministrativa, cui è inevitabilmente legata l’attività di spesa, l’art.118 Cost.,c.1, intenderebbe individuare nei Comuni i principali protagonisti del nuovo assetto costituzionale.
In realtà, tale interpretazione va ridimensionata alla luce del nuovo criterio allocativo introdotto dal medesimo articolo ed in base al quale l’esigenza dell’esercizio unitario legittima il conferimento delle funzioni ad un livello superiore (Provincia, Regione, Stato).[2]
Questa precisazione è importante perché la necessità di salvaguardare l’accountability potrebbe configurarsi come una delle esigenze idonee (in base ai principi richiamati) a giustificare l’unitarietà dell’esercizio e, quindi, l’allocazione al livello di governo superiore dei finanziamenti specificamente erogati.
Infatti, nonostante gli enti locali figurino sempre allineati con le Regioni, essi sono privi del potere legislativo indispensabile per esercitare la potestà impositiva.
La dissociazione tra responsabilità politico – legislativa e responsabilità amministrativa potrebbe, in ipotesi remota, rendere difficilmente governabile l’aumento della spesa pubblica, qualora l’attività di spesa fosse decentrata ai Comuni, con ampi margini di discrezionalità ma senza una sufficiente responsabilizzazione sul piano impositivo.
Per questa ragione autorevole dottrina ha rimarcato l’opportunità che il meccanismo di finanziamento delle funzioni degli enti locali sia prevalentemente costituito da contributi specifici statali o regionali (potenzialmente assistiti dal vincolo di destinazione).[3]
Tuttavia, a fronte di questa preoccupazione non bisogna dimenticare la possibilità d’intervento sul complesso dei tributi degli enti locali, il quale, con tutte le dovute avvertenze e le possibili innovazioni, potrebbe rilanciare quel municipalismo fiscale azzerato dalla ratio accentratrice della riforma degli anni settanta.[4]
Infine, non appare facilmente un ruolo regionale nella perequazione di cui al c.3 dell’art.119 Cost., dal momento che la sua previsione vuole il fondo perequativo “istituito con legge dello Stato” e la materia “perequazione delle risorse finanziarie” attribuita (dall’art.117Cost., c.2, lett. e) alla legislazione esclusiva statale.
Una credibile prospettiva per l’evoluzione delle articolazioni fiscali, sia per quelle regionali che per quelle locali, è rappresentata dalla reintroduzione dei tributi di scopo attraverso la cui riscossione potrà intervenire il finanziamento (parziale) di opere pubbliche, specificamente individuate. La novità è prevista all’art.1. c. 145-151, l. n. 296/06 (l. fin. 2007) ed ha quale intento la predisposizione di uno strumento di democrazia tributaria, in grado di rafforzare, in maniera trasparente, il rapporto tra amministrati ed amministratori. La sua effettiva attuazione, in contesti di generale efficienza amministrativa, potrebbe fungere da fattore di stimolo per le economie locali, generando il positivo effetto del moltiplicatore degli investimenti privati.
Altra sua utilità sostanziale riguarderebbe l’incentivizzazione delle amministrazioni locali verso politiche d’infrastrutturizzazione, materiale od immateriale, anche se la sua stessa praticabilità è legata, purtroppo, alla capacità contributiva della singola collettività.
Esprimendoci in termini normativi, deve dirsi che la disciplina prevista per loro applicazione conferma la coerenza sistematica della sua previsione col principio costituzionale della riserva di legge in materia impositiva (art. 53 Cost).
Ciò lo si evince dalla esaustività della regolamentazione prevista dalla legge istitutiva che riconosce agli enti locali la sola facoltà “controllata” di manovra sulle aliquote d’imposta, al fine di parametrare l’imposizione finalizzata alla capacità contributiva della collettività amministrata.
Concretamente, però, la previsione dell’imposta di scopo segna solo un momento iniziale del rafforzamento del potere (indiretto) impositivo locale, il quale, privo naturaliter dell’attribuzione legislativa, persevera nella sua condizione di dipendenza dai vertici istituzionali, residuandogli una facoltà regolamentare-attuativa del volere parlamentare.
La stessa facoltà appena ricordata appare afflitta per la predisposizione della soglia limite del 30% alla finalistica contribuzione cittadina, in quanto si realizza una preclusione non solo contabile ma, soprattutto, per l’attuazione del principio autonomistico impedendo a singole collettività la pratica delle contribuzioni aggiuntive o di liberalità. L’eliminazione o l’innalzamento di tale soglia consentirebbe alle amministrazioni di dirottare somme ulteriori a finanziamento di altre opere o servizi pubblici (cd. utilità esterna), oppure a copertura di spese correnti ed all’estinzione di pendenze debitorie così da promuovere ed ottenere il rispetto del cd. patto di stabilità interno (cd. utilità interna).
Certamente, di converso ci sarebbe l’ulteriore gravame per la collettività, il quale, però, sarebbe solo eventuale per la parte eccedente l’incisione obbligatoria e, comunque, meglio sopportato per l’immediata corrispondenza tra il “dato”in termini d’imposta ed il “ricevuto”dall’amministrazione beneficiaria. E’ apprezzabile anche la previsione del rimborso del gettito percepito nel periodo d’imposizione finalizzata (5 anni) quale “sanzione” per la mancata ultimazione, secondo i tempi preventivati, dell’opera pubblica programmata. 
Un giudizio positivo merita la preordinata finalizzazione dell’imposta di scopo al solo finanziamento di opere infrastrutturali, cioè d’investimenti in conto capitale in grado d’essere percepiti e valutati con immediatezza della collettività, senza alcuna intermediazione dialettica. Destinare l’introduzione di siffatti prelievi anche al finanziamento della spesa corrente contribuirebbe all’inefficienza finanziaria degli enti locali, deresponsabilizzandoli nell’accogliere ogni istanza proveniente dai privati, anche priva di un reale interesse pubblico.
Concludendo, è possibile affermare che, salvo rivoluzionarie novità che la XVI^ legislatura potrebbe apportare nell’attuazione dell’art. 119 Cost., la finanza locale non sarà destinataria di gravi stravolgimenti qualitativi. Più probabile sarà l’incentivo delle responsabilità accertative dei Comuni al fine di consentire loro la compensazione per i minori trasferimenti del Governo nazionale. Intuitivamente, la vera differenza sarà di tipo quantitativo in quanto all’aumento dell’autonomia impositiva regionale e locale seguirà lentamente la riduzione di peso del fisco statale, a discapito dei territori con minore capacità reddituale, quindi contributiva.
 
Dott. Zirillo Bruno
 


[1] Comparsa ed incremento di imposte quali: Ici, addizionale comunale Irpef, tarsu
[2] Si tratta del principio di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, presente anche nella l. n°59/97.
[3] P. Giarda, Le regole del federalismo fiscale nell’art.119: un’economista di fronte alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 2001.
[4] Così anche G. Tremonti – G. Vitaletti, in Il federalismo fiscale, 1994.

Zirillo Bruno

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