La disapplicazione nel processo civile

Redazione 28/04/01
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Sommario. 1. Conseguenze dell’interpretazione dell’art. 4 legge n. 2248/1865 come espressione della soggezione del cittadino alla potestà dell’Amministrazione. – 2. Critica alla teoria della degradazione. La carenza di potere come necessità di sindacare il concreto esercizio del potere. – 3. La competenza principale e quella occasionale del giudice civile. Il collegamento fra art. 5 e art. 4: il potere del giudice civile di conoscere incidenter tantum di interessi legittimi. – 4. La sentenza Cass. Sez. Un. 500/99: il superamento della regola della pregiudizialità del giudizio amministrativo. Gli interessi pretensivi e oppositivi. La disapplicazione del rifiuto di compiere un atto vincolato. – 5. Le questioni pregiudiziali. Distinzione fra disapplicazione e accertamento incidentale. – 6. La legge 21 luglio 2000 n. 205 e i riflessi sul riparto delle giurisdizioni. – 7. Il potere del giudice ordinario di disapplicare atti inoppugnabili. Gli effetti sul giudizio civile di un’eventuale pronuncia del giudice amministrativo sullo stesso atto. – 8. La disapplicazione in materia di rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Il riconoscimento normativo dell’indispensabilità della disapplicazione. – 9. L’elemento comune alla disapplicazione nei casi di competenza principale e occasionale: l’accertamento dell’illegittimità degli effetti dell’azione amministrativa. L’art. 5 come espressione di un principio generale.

1. Conseguenze dell’interpretazione dell’art. 4 legge n. 2248/1865 come espressione della soggezione del cittadino alla potestà dell’Amministrazione. – Esaminando l’utilizzo che dell’art.5 L. 20 marzo 1865 n. 2248 (c.d. legge abolitiva del contenzioso amministrativo) viene compiuto dalla giurisprudenza nel processo civile, sorge subito la necessità di distinguere i casi di competenza principale, cioè quelli cui si riferisce l’art.5 nella sua parte iniziale (“in questo…caso”), dai casi di competenza occasionale, o incidenter tantum, e cioè “in ogni altro caso”.
Ciò perché le due fattispecie sono fondamentalmente diverse, la prima concernendo quei tipici casi in cui “la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa”, e con riferimento ai quali “i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”, la seconda, invece, quei casi in cui la legittimità di un atto rilevi solo incidentalmente, in una controversia riguardante altre questioni[1].
Naturalmente, nei casi del primo tipo, ciò di cui il giudice conosce direttamente è proprio l’atto lesivo del diritto del privato, poiché, come è stato osservato, “sembra incontrovertibile che la lesione del diritto soggettivo in tanto sussiste in quanto il sacrificio del diritto stesso avvenga iniuria, in quanto, cioè, siano state violate le norme concernenti la (in taluni casi e sotto certe condizioni legittima) elisione o compressione del diritto soggettivo; iniuria, che non può non inerire al comportamento del soggetto che arreca la violazione, onde, se quel comportamento s’incentra in un atto, quest’ultimo, o, meglio, la sua valutazione, non può non rientrare nell’oggetto del giudizio”[2].
C’è da dire, però, che in dottrina, e in particolare quella processualcivilistica, tale interpretazione non è pacifica, ritenendosi di dover dare una impostazione completamente diversa sia al problema dei rapporti fra gli articoli 4 e 5 della legge suddetta che al più generale argomento riguardante i poteri del giudice ordinario nei confronti della pubblica Amministrazione.
Infatti, da parte di qualche Autore si tende ad affermare una visione del tutto opposta della legge abolitrice nel suo complesso, sostenendo che non è affatto vero – come ritiene comunemente la dottrina e si ritiene di potere sostenere anche in questa sede – che la legge in questione abbia, derogando alle regole generali, posto una serie di limiti particolari ai poteri del giudice ordinario nei confronti della pubblica Amministrazione, differenziando la reazione dell’ordinamento giuridico a seconda che della lesione di un diritto sia responsabile un privato oppure l’Amministrazione, perché si sostiene, invece, che i limiti che il giudice ordinario incontrerebbe sono perfettamente in sintonia con i mezzi forniti dall’ordinamento processuale comune e con la ratio stessa della legge del 1865, volta semplicemente a non attribuire a tale giudice poteri ulteriori rispetto a quelli comuni[3].
Veramente significativa è l’affermazione per cui “quelli che si sogliono definire limiti della giurisdizione civile riguardo al potere esecutivo” sono, “in realtà, i necessari riflessi processuali della soggezione del cittadino alla potestà sovrana dell’Amministrazione e all’imperatività degli atti amministrativi, ancorchè illegittimi”[4]. Il dato più rilevante da cui prendere le mosse è costituito dallo schema utilizzato per analizzare i rapporti fra atto amministrativo e diritto soggettivo, schema secondo cui quando un atto amministrativo incida – in violazione delle norme che lo regolano – su di un bene che è pure oggetto di un diritto, “o la difformità dallo schema normativo è tale, che dell’atto amministrativo si ha solo un vacuo nome, ma non l’essenza (cosiddetta nullità assoluta o, meglio, inesistenza), o si ha un atto amministrativo, e questo, per il fatto stesso di esistere e di essere con ciò emanazione di una sovrana funzione statale, sacrifica il diritto soggettivo, sulla cui materia dispone”[5].
Sebbene tale posizione appaia contrastante con la posizione che è dato assumere alla pubblica Amministrazione in un ordinamento democratico, tuttavia non sembra inutile ricostruirla, atteso che, prima di più recenti pronunce, è stata per molto tempo recepita dalla giurisprudenza, che ha fatto larga applicazione della teoria della c.d. “degradazione”.
La conseguenza concettuale più immediata di una siffatta impostazione è che l’art. 4, al momento in cui prevede i poteri di cognizione e decisione del giudice civile “quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa”, non può ovviamente riguardare il caso in cui un privato agisca in giudizio avverso un atto che abbia “inciso” su un proprio diritto soggettivo, perché in tal caso, secondo la ricostruzione di Montesano, sarà proprio il diritto soggettivo a non esistere più e a non poter più essere fatto valere, in quanto sacrificato dall’azione amministrativa. Infatti, come viene precisato, “ogni diritto può essere sacrificato, anche illegittimamente, dall’imperatività amministrativa, salvo indennizzo”[6].
Il fatto, pacifico, che il soggetto abbia comunque diritto ad un risarcimento del danno subìto, ovvero, in altri termini, l’”esclusione, nei confronti degli atti medesimi, di ogni tutela giudiziaria diversa dal risarcimento del danno”, deriverebbe poi, secondo Montesano, “non da un ordinamento processuale speciale, ma da una interpretazione dottrinale e giurisprudenziale…secondo la quale, in sostanza, alla libertà amministrativa di mantenere in vita gli atti illegittimi (o, per usare la corrente – ma…impropria – terminologia, alla impossibilità per il privato di ottenere comunque una coattiva rimozione degli atti medesimi) è connesso un obbligo di riparare il sacrificio pecuniario che, con quella conservazione, viene inflitto al soggetto passivo”[7].
Trattando poi della ratio e del significato delle norme contenute negli artt. 4 e 5, Montesano trae le conseguenze di una simile impostazione teorica, in quanto, dopo avere premesso come sia “evidente, innanzi tutto, che nei casi compresi nella previsione dell’art. 4 comma 1°, oggetto della domanda e, quindi, del giudicato sostanziale, non è l’atto amministrativo nella funzione pubblica e sovrana che gli è propria, ma <<il diritto che si pretende leso dall’atto>>“, precisa poi che “se…dichiarare la lesione del diritto significasse accertare l’illegittimità dell’atto lesivo, questo dovrebbe essere disapplicato: il che è impossibile, in quanto disapplicare l’atto significa non tener conto della sua efficacia per la configurazione giuridica della fattispecie dedotta in causa, mentre i lineamenti della lesione prevista nell’art. 4 sono segnati – come s’è detto – proprio dagli effetti dell’atto”[8].
In altri termini, il giudice non potrebbe prescindere dagli effetti dell’atto, proprio perché, anzi, dovrebbe fornirgli la massima applicazione, avendo esso già “degradato” il diritto soggettivo[9]; quest’ultimo, ovviamente, lascerà poi il posto ad una situazione giuridica diversa, qualificabile in termini di interesse legittimo, con la conseguente necessaria competenza del giudice amministrativo a conoscerne. Tutto ciò, quindi, porta Montesano a ritenere confermato “che nelle cause, alle quali si riferisce l’art. 4, gli atti illegittimi da disapplicare non sono quelli lesivi di diritti”[10].
Parallelamente a questo genere di considerazioni, Montesano segue poi anche un altro tipo di linea conduttrice, secondo cui, nelle fattispecie appena citate – cioè quelle in cui un’azione giudiziaria nasce a seguito della “degradazione” di un diritto soggettivo ad opera di un atto amministrativo – il giudice civile non conosce affatto della legittimità dell’atto o, meglio, del provvedimento, de quo, proprio perché questo, per il solo fatto stesso di esistere e di essere imperativo, “ancorchè illegittimo”, ha eliminato il diritto soggettivo; pertanto, non è più di tale diritto che si discuterà dinanzi al giudice, bensì delle conseguenze della degradazione, cioè del diritto al risarcimento del danno subìto, che sarà l’unica forma di tutela ottenibile[11].
Un esame della legittimità di un atto amministrativo è, secondo Montesano, possibile soltanto nei casi ex art. 5, cioè nei casi in cui tale legittimità rilevi soltanto incidentalmente, in una causa avente un oggetto diverso, per cui “quando un atto…viene allegato come fonte del diritto dedotto in causa, la funzione del processo non è di accertare la legittimità o la validità di quell’atto, anche se il giudice – per dare o negare la tutela richiestagli – deve conoscere, incidenter tantum, se l’atto medesimo risponde ai requisiti impostigli dalla legge perché sia produttivo di quel diritto”[12].
Per quanto riguarda i casi considerati dall’art. 4, invece, Montesano, ad ulteriore precisazione delle sue posizioni, fa proprio un pensiero, già espresso da Mantellini[13], secondo cui “…giudizio, e però decisione, non possono cadere se non sull’effetto dell’atto, e non mai sull’atto in sè stesso”[14]; le due ipotesi degli artt. 4 e 5 vengono comunque accomunate dall’Autore, al momento in cui egli, con riferimento alle conseguenze delle pronunce in generale del giudice civile, ritiene di potere affermare, senza distinzione alcuna, come “i princìpi generali del processo civile escludano una res iudicata sull’atto illegittimo in quanto tale”[15].
Ovviamente, dopo avere escluso che l’art.4 si riferisca ai casi in cui un privato lamenti dinanzi al giudice civile l’avvenuta violazione-eliminazione di un proprio diritto soggettivo, per le ragioni anzidette, Montesano deve comunque attribuire un significato alla norma ivi contenuta, così come a quella dell’art. 5, e per fare ciò egli cerca di dimostrare come la fattispecie prevista dall’art. 4 riguardi esclusivamente i casi in cui l’atto amministrativo concretizzi una contestazione o turbativa di un diritto, oppure l’inadempimento di un obbligo[16]. Nel primo di questi casi, infatti, “il titolare di quel diritto potrà chiederne la tutela nel processo civile, domandando non una pronuncia o un intervento sull’atto, nè una dichiarazione sulla sua conformità alle norme che lo regolano nella sua funzione e qualità amministrativa, ma soltanto l’accertamento del diritto medesimo o dell’obbligo dell’amministrazione di cessare dalla turbativa o dalla molestia”[17].
Analogamente, secondo Montesano, “la previsione dell’art. 4…si verifica pure quando un provvedimento dell’autorità – anche se conforme alle norme che lo regolano nella sua pubblica funzione e qualità – comporta con la sua efficacia la violazione di un obbligo che lo Stato o altro ente pubblico abbia assunto con un atto di autonomia privata o amministrativa; può darsi, cioè, che un negozio di diritto civile…o un provvedimento di diritto pubblico…impongano all’amministrazione un obbligo, il cui adempimento o inadempimento può, in certi casi, necessariamente coincidere con l’efficacia propria di un atto amministrativo”. Non andrebbero però considerate tutte le ipotesi in cui un atto o l’astensione da un atto siano soltanto strumenti di cui l’amministrazione debba eventualmente avvalersi al fine di adempiere all’obbligazione assunta, poiché “l’art. 4…prevede, infatti, solo quei casi in cui la prestazione sia resa impossibile dagli effetti dell’atto amministrativo o non possa essere compiuta senza la rimozione di quegli effetti”[18]. Vale a dire che, per quanto riguarda l’inadempimento degli obblighi da parte dell’Amministrazione, la previsione dell’art. 4 si verificherebbe “solo quando la domanda civile viene fondata sulla violazione di una norma che disciplina gli effetti di un atto amministrativo in funzione di un diritto soggettivo”, venendo perciò esclusi da tale previsione “non solo i casi in cui oggetto del giudizio è…una illegittimità amministrativa, ma anche…i casi in cui, pur essendovi un’attività amministrativa strumentale alla soddisfazione di un diritto soggettivo, questa attività non è specificamente disciplinata dalla norma che impone all’amministrazione l’obbligo dedotto in giudizio”[19].
2. Critica alla teoria della degradazione. La carenza di potere come necessità di sindacare il concreto esercizio del potere. – Per cominciare ad esprimere alcune considerazioni sulle teorie appena esposte, bisogna dire innanzi tutto che non appare fondato il punto di vista secondo il quale alla pubblica Amministrazione non sarebbe affatto riconosciuta una posizione particolare nei confronti del giudice civile e dei privati in generale, e che i limiti che il giudice incontrerebbe sarebbero soltanto una conseguenza dell’applicazione delle regole generali. Si vuole in ciò prescindere dall’esame delle caratteristiche e della ratio in generale di tutta la legge abolitrice – che evidenzierebbe comunque l’intento del legislatore di riservare e garantire sotto vari profili anche diverse prerogative del potere esecutivo, nonchè l’esercizio in generale della discrezionalità amministrativa – per rimanere sul terreno logico-giuridico prescelto da Montesano per dimostrare le sue tesi, cioè l’esame combinato e congiunto delle norme contenute negli artt. 4 e 5[20].
Ebbene, sembra di poter rilevare che già il fatto che un provvedimento amministrativo, ancorchè illegittimo, degradi, per il semplice fatto di essere emanazione di una “sovrana potestà”, il diritto soggettivo coinvolto, è, di per sè solo, un ovvio ed evidente segno di una privilegiata posizione, che differenzia in tal modo l’Amministrazione da qualsiasi altro soggetto privato, il quale non potrebbe eliminare un diritto soggettivo altrui nel normale dispiegarsi di una attività privata.
Quanto poi alla teoria della degradazione in senso proprio, c’è da dire che tale concetto è strettamente connesso alla distinzione fra titolarità ed esercizio del potere, cioè fra carenza di potere in astratto e in concreto; come è noto, infatti, questo è il criterio normalmente utilizzato in giurisprudenza per fissare e distinguere i limiti della giurisdizione del giudice ordinario da quella del giudice amministrativo, per cui se si ritiene che sia sufficiente la mera titolarità del potere in capo all’Amministrazione perché il diritto soggettivo venga degradato ad interesse legittimo, considerando quindi necessaria la carenza di potere anche “in astratto” per potere affermare la giurisdizione del giudice ordinario, è chiaro allora che tale giudice non potrà mai fornire una tutela che possa dirsi effettiva e concreta dei diritti coinvolti, anche in assenza dei presupposti concretamente richiesti dalla norma per l’esercizio del potere, o, addirittura, nella normalità dei casi non sarà neppure competente a conoscerne[21].
In proposito, però, e sempre con riferimento all’art. 4, tornano molto utili le considerazioni già espresse da Cannada-Bartoli, secondo cui l’indagine circa la competenza giudiziaria ex art. 2 della legge abolitrice, ossia quando si faccia questione di un diritto soggettivo, “deve compiersi con riguardo all’atto amministrativo concretamente compiuto e non già considerando soltanto le questioni sulla titolarità del potere, dal cui esercizio deriva l’atto. La legge parla, infatti, di diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa; è evidente che la lesione può essere prodotta, secondo che normalmente accade, dall’esercizio del potere, così come, in altro campo, l’arricchimento del donatario consegue all’esercizio e non alla mera titolarità del potere di donare da parte del donante”. L’ovvia e legittima conseguenza è che, al contrario di quanto sostiene invece Montesano, “ancor oggi sembra possibile ritenere che la imposizione, comunque illegittima, del sacrificio di un diritto soggettivo possa farsi valere innanzi al giudice ordinario”[22].
Tutto ciò porta naturalmente a ritenere, come già precedentemente accennato, che il giudicato, quanto meno nei casi di competenza principale ex art. 4, cadrà anche sulla validità o meno dell’atto, perché “la relativa contestazione sull’atto attiene all’oggetto del giudizio”, essendo l’atto amministrativo “il fatto costitutivo dell’asserita lesione”[23]. In questo senso si rivelano certamente contestabili le affermazioni di Montesano, secondo il quale, nei casi prima indicati, “che nel processo civile non si ottenga l’invalidazione dell’atto amministrativo o, comunque, un intervento sull’atto medesimo, o la pronuncia di una condanna diversa da quella al risarcimento pecuniario, non significa che la giurisdizione soggiaccia a peculiari divieti nel campo della tutela dei diritti contro l’amministrazione, ma deriva semplicemente da ciò che…l’attività dell’amministrazione viene dedotta in causa quale lesione che giustifica, secondo i princìpi generali,…la condanna al risarcimento pecuniario o il mero accertamento”[24].
Oltretutto, non sembrano decisivi i rilievi di Montesano, strettamente connessi alla teoria della degradazione, allorquando egli, affermando che “il principio che il giudice civile non pronuncia mai sull’atto amministrativo costituirebbe deroga all’ordinamento processuale comune se, anche in un sol caso, vi fosse necessaria coincidenza tra la violazione delle norme che regolano l’atto stesso e la lesione di un diritto soggettivo”, lascia così intendere che i diritti in quanto tali non sarebbero mai presi in considerazione, al fine di tutelarli, dalle norme che disciplinano e regolano l’azione amministrativa, che avrebbero perciò di fronte esclusivamente interessi legittimi[25]; innanzi tutto, infatti, è da ritenersi che sia più corretto parlare di coesistenza delle due situazioni giuridiche, cioè che “l’interesse legittimo si accoppia al diritto soggettivo, per il fatto che l’interesse di cui consiste il diritto soggettivo è parte della situazione obiettiva in relazione alla quale il potere è attribuito”, nel senso che “la norma organizzativa del potere colloca nello stesso contesto il potere attribuito per la soddisfazione dell’interesse pubblico e gli interessi privati; più precisamente, pone l’interesse pubblico come una entità determinata (da determinare) anche mediante la considerazione e l’apporto dell’interesse privato”[26]; vale a dire che quando in una determinata materia è riconosciuto al singolo un diritto soggettivo su un bene, la regolamentazione dell’esercizio della potestà amministrativa avviene anche e soprattutto al fine di disciplinare i rapporti intersoggettivi[27]. È chiaro quindi che quando l’azione amministrativa non si sia realizzata nel rispetto delle regole, fissate anche a tutela dei diritti coinvolti, non sarà l’interesse legittimo ad acquisire primaria rilevanza, perché il diritto rimarrà integro, con tutte le precisate conseguenze[28].
Non solo, ma la deroga alle regole processuali comuni sarebbe data già dal ritenere che l’atto amministrativo degradi, di per sè solo, il diritto soggettivo coinvolto, e che il giudice civile non possa mai giudicare dell’atto e della sua legittimità. Senza contare il dato logico-giuridico, sempre facente leva sul significato dell’art. 4, per cui, una volta evidenziata la necessità di una tutela effettiva del diritto soggettivo, “ammettere la decisione sugli effetti non significa negare la ammissibilità di una decisione sull’atto”, poiché “la possibilità di <<conoscere>> dell’atto lesivo del diritto soggettivo deriva dallo stesso art. 4 pr. co. e dall’art. 5”, visto che, “in linea generale, nulla vieta di ritenere che il giudice possa decidere dell’atto in funzione del decidere sugli effetti;…e poiché la misura e i limiti della decisione sugli effetti risultano dal sec. co. dell’art. 4 e…anche dall’art. 5, consegue che è ammesso solo quel <<conoscere>> dell’atto che non contrasti con quel <<conoscere>> sugli effetti, disciplinato da tali norme, ossia che il giudice ordinario può decidere anche dell’atto, purchè una siffatta decisione non violi i limiti posti al decidere sugli effetti”[29].
3. La competenza principale e quella occasionale del giudice civile. Il collegamento fra art. 5 e art. 4: il potere del giudice civile di conoscere incidenter tantum di interessi legittimi. – La conclusione, allora, non può non essere che nei casi finora considerati, cioè quelli di competenza principale ex art. 4, il giudice, per conoscere degli effetti dell’atto, dovrà necessariamente conoscere della sua legittimità, al fine poi di decidere sugli effetti stessi (se vi siano e quali siano) e, ritenuto illegittimo (illecito) l’atto immediatamente lesivo, deve ritenersi che egli “possa e debba disapplicare proprio il provvedimento amministrativo lesivo del diritto soggettivo del quale il titolare gli chiede tutela giurisdizionale”[30]. Oltretutto, soltanto ritenendo che anche nei casi di competenza principale si abbia una vera e propria disapplicazione, si riesce ad attribuire un significato utile alla parte iniziale dell’art.5 (“in questo…caso”), che rimarrebbe altrimenti privo di significato[31]. “In ogni altro caso”, invece, si tratterà di fattispecie in cui non si discute di una lesione riferibile ad un atto amministrativo e, tuttavia, quest’ultimo venga ugualmente in rilievo in una controversia innanzi al giudice civile. Basti pensare ad un’autorizzazione a costruire in deroga a certe norme, e all’azione intentata da un vicino contro colui che ha edificato in base a detta autorizzazione, la cui legittimità può e deve quindi essere discussa, al fine eventualmente della sua disapplicazione, innanzi al tribunale, nel giudizio fra i due privati[32].
Ovviamente, perché possa sorgere un problema di disapplicazione, deve sorgere il problema della validità del provvedimento autorizzativo, o a seguito di specifica contestazione da parte del vicino, o d’ufficio, a seguito dell’applicazione del principio jura novit curia. Diverso, invece, il caso in cui il vicino non contesti la validità del provvedimento, che abbia ad esempio autorizzato a costruire, ma soltanto le modalità di svolgimento dell’attività stessa, lamentando ad esempio la violazione delle distanze legali; qui il provvedimento non viene in nessun modo in discussione – essendo la sua esistenza del tutto irrilevante – restando così estraneo alla controversia, anche se spesso la giurisprudenza, non cogliendo tale profilo, procede ad inutili disapplicazioni[33].
Resta poi fermo, comunque, che “il privato, nel caso in cui si ritiene danneggiato da un’attività edilizia autorizzata, in violazione delle norme in tema di distanza fra costruzioni o di queste con i confini, ha diritto alla c.d. <doppia tutela>, vale a dire ad una tutela concorrente ma separata di posizioni giuridiche di natura diversa (diritti soggettivi o interessi legittimi)”, che si concretizzerà nell’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo “del relativo provvedimento…, al fine di ottenerne l’annullamento, facendosi in tal caso valere una posizione di interesse legittimo, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando si discuta fra privati, quindi su diritti soggettivi (al risarcimento del danno, ovvero alla rimozione dell’opera), di modo che la suddetta denuncia si traduce in una richiesta di disapplicazione dell’atto a tutela dei diritti medesimi”[34].
Oltre alle fattispecie descritte, “è sufficiente pensare ai varii atti amministrativi, influenti sull’esercizio di attività private, per comprendere che nelle contestazioni che, in ordine a tali attività, sorgono tra privati cittadini, possa discutersi della legittimità degli atti suddetti”[35]. Senza contare, poi, il caso in cui il privato chieda all’Amministrazione l’adempimento di un’obbligazione derivante da un atto amministrativo, di cui l’Amministrazione convenuta eccepisca l’illegittimità[36].
Tutti casi, questi, in cui la questione sulla legittimità dell’atto amministrativo risulta pregiudiziale alla decisione della controversia principale, in quanto costituisce l’antecedente logico-giuridico della suddetta decisione, non rientrando però nell’oggetto del giudizio. C’è da dire che, in tutte queste ipotesi, come già rilevato, poiché l’atto amministrativo non lede alcun diritto del cittadino, bensì, più tipicamente, interessi legittimi, la relativa questione non rientra nella previsione dell’art.4 e dell’art.2, ma l’unica conseguenza di ciò è che essa esula dalla competenza principale del giudice civile e non può, quindi, essere decisa con efficacia di giudicato, bensì, semplicemente, in via occasionale, cioè incidenter tantum. Anche da un punto di vista più generale, è possibile dire che “se il giudice deve prender posizione in una pregiudiciale per la cui decisione in via principale egli non è competente e se in questo caso la norma positiva non gli impone né che debba soprassedere per attendere la decisione di altro magistrato né che debba rinviare a questo la decisione dell’intera causa, è chiaro che la sentenza di quel giudice abbia un’autorità limitata ai soli diritti che formarono l’oggetto della dimanda principale; pensando altramente, si darebbe alla competenza del detto magistrato una estensione maggiore di quella che le consentono le leggi”[37].
C’è comunque da dire, in proposito, che sul punto la giurisprudenza è stata generalmente orientata in senso contrario, sostenendo che “nelle controversie tra privato ed Amministrazione pubblica, l’esame incidentale del provvedimento amministrativo da parte del giudice ordinario, al fine della sua eventuale disapplicazione, è precluso quando si tratti non di provvedimento illecito, cioè lesivo di diritti, ma di provvedimento illegittimo, il quale, pur non essendo conforme a legge, importa, tuttavia, soltanto la lesione di un interesse legittimo, tutelabile unicamente dinanzi agli organi della giustizia amministrativa”[38].
Sembra opportuno richiamare, in proposito, i rilievi di Cannada-Bartoli[39], secondo cui la distinzione, tra disapplicazione nei casi di competenza principale e disapplicazione occasionale, “in tanto può essere posta, in quanto l’art.5 abbia un ambito maggiore dell’art.2”; e il fatto che ciò sia negato, continua l’Autore, è inesatto, poiché “il mero riscontro fra l’art.5 e l’art.4, nel quale si richiama la fondamentale ipotesi dell’art.2, dimostra che l’art.5 ha un ambito più esteso dell’art.4, e perciò dell’art.2”[40]. Del resto, poi, precisa Cannada-Bartoli anche in un altro scritto[41], “quando il giudice ordinario conosce per occasionem dell’eccesso di potere o, in genere, di interessi legittimi, non accade nulla di diverso da quanto, in base all’art. 28 del testo unico sul Consiglio di Stato, si verifica allorchè l’Alto Consesso, normalmente giudice di interessi legittimi, conosce incidenter tantum di diritti soggettivi”[42].
4. La sentenza Cass. Sez. Un. 500/99: il superamento della regola della pregiudizialità del giudizio amministrativo. Gli interessi pretensivi e oppositivi. La disapplicazione del rifiuto di compiere un atto vincolato. – Nell’ottica esposta, tendente a legittimare il potere del giudice ordinario di sindacare la legittimità anche di atti lesivi di interessi legittimi, è possibile riscontrare delle importanti considerazioni in Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500[43], in un caso in cui la Cassazione, chiamata a pronunciarsi in sede di regolamento di giurisdizione, ha affermato la giurisdizione del giudice civile in una causa intentata per il risarcimento del danno derivante da lesione di interessi legittimi.
Come è noto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno costantemente dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario in relazione a fattispecie in cui il privato, ottenuto dal giudice amministrativo l’annullamento dell’atto lesivo di una posizione la cui originaria consistenza era ritenuta di interesse legittimo, proponeva poi davanti al giudice ordinario domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla lesione di detta posizione giuridica soggettiva (rimasta immutata nel suo originario spessore a seguito dell’annullamento del provvedimento negativo, che si limitava a ripristinare la situazione antecedente).
Tale conclusione era affermata in base al presupposto che davanti al giudice ordinario non potesse essere proposta domanda di risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo, non essendo prevista dall’ordinamento – alla stregua del quale deve essere vagliata la pretesa secondo il criterio del c.d. petitum sostanziale – quel tipo di tutela, perché riservata dall’art. 2043 c.c., secondo l’interpretazione tradizionalmente fornita dalla Cassazione, ai soli diritti soggettivi.
Nella diversa ipotesi poi in cui la pretesa risarcitoria fosse stata azionata davanti al giudice ordinario prima di aver ottenuto dal giudice amministrativo l’annullamento dell’atto lesivo, veniva dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, configurandosi di fronte al provvedimento autoritativo solo interessi legittimi.
La sentenza citata, dopo aver fatto riferimento, tra l’altro, agli artt. 33-35 D.Lgs.vo 80/98, la cui disciplina avrebbe determinato una sensibile attenuazione della generale rilevanza della distinzione tra le figure dell’interesse legittimo e del diritto soggettivo, nonché alla scelta compiuta dal legislatore di realizzare davanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, in vasti e rilevanti settori della vita sociale ed economica (pubblici servizi, urbanistica ed edilizia), la concentrazione di una tutela potenzialmente esaustiva con l’attribuzione del potere di condanna al risarcimento del danno, evitando la necessità del successivo ricorso a due giudici diversi, conferma quell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale non dà luogo a questione di giurisdizione, attenendo al merito, la contestazione circa la risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi.
Una questione di giurisdizione sarebbe configurabile, secondo tale sentenza, soltanto ove sussista, sulla materia oggetto della controversia, una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa alla cognizione dei diritti patrimoniali conseguenziali, e quindi delle questioni relative al risarcimento dei danni.
Logica conclusione è poi che rispetto al giudizio che, nei termini suindicati, può svolgersi davanti al giudice ordinario, la Corte non ravvisi la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento, con la conseguenza che qualora, in relazione ad un giudizio in corso, l’illegittimità dell’azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà svolgere tale accertamento, al fine di ritenere o meno sussistente l’illecito, poiché l’illegittimità dell’azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.
In relazione a tale impostazione si è da parte di taluno affermato che “alla logica risarcitoria è del tutto estraneo l’istituto della disapplicazione, non essendo affatto necessario che l’autorità giudiziaria competente disapplichi il provvedimento, se intende accogliere la domanda del privato”, e che sul punto il silenzio della Cassazione sarebbe “metodologicamente corretto”[44].
La ragione per cui la Corte non ha ritenuto di affrontare espressamente il problema della disapplicazione sembra però essere, in realtà, legata al dato che era chiamata a pronunciarsi nell’ambito di un giudizio instaurato per ottenere il risarcimento dei danni causati non da un atto immediatamente lesivo di diritto soggettivo esistente, bensì dalla mancata emanazione di provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, cioè dal mancato soddisfacimento di interesse c.d. pretensivo. Infatti, si trattava della citazione in giudizio di un Comune, per ottenere la condanna al risarcimento dei danni conseguenti al mancato inserimento, nel piano regolatore generale adottato dal Comune, tra le zone edificabili, dell’area, di proprietà dell’attore, oggetto di convenzione di lottizzazione stipulata con l’ente locale. Il P.R.G. era stato annullato dal Consiglio di Stato, per difetto di motivazione circa le ragioni che avevano indotto l’Amministrazione a disattendere la convenzione. Pur essendo venuta meno, per effetto di successiva variante del P.R.G., la possibilità di realizzare la convenzione, l’attore aveva tuttavia chiesto che fossero risarciti i pregiudizi economici subiti nel periodo di vigenza del piano originario, che aveva illegittimamente impedito la realizzazione della lottizzazione.
In realtà, quindi, nel caso di specie mancava un atto da disapplicare – da inquadrare nella fattispecie di cui all’art. 4, comma 1, legge abolitiva – che fosse direttamente lesivo di diritto soggettivo connesso a interesse legittimo del tipo c.d. oppositivo[45]. Si fosse trattato di un caso del genere, la Corte, come già chiarito in precedenza, avrebbe potuto parlare di disapplicazione. Un eventuale esplicito atto di diniego dell’ampliamento della sfera giuridica dell’interessato cambierebbe però i termini della questione, laddove sia verificabile che trattasi di fattispecie in cui l’Amministrazione è vincolata, come lo era nel caso deciso dalla sentenza 500/99, all’emanazione di un provvedimento con uno specifico contenuto, senza quindi residui margini di discrezionalità[46].
Ferme restando poi le conclusioni già raggiunte a proposito della disapplicabilità da parte del giudice civile anche di atti lesivi di interessi legittimi – sia nell’esercizio della competenza principale, perché l’interesse legittimo in realtà coesiste ed è intimamente connesso con il diritto soggettivo, il quale, rimasto integro a causa della mancata produzione degli effetti legata all’esercizio del potere disapplicativo, è l’unica situazione soggettiva che viene in rilievo, e sia nell’esercizio della competenza occasionale, per motivi legati alla pregiudizialità della questione – il problema appena indicato, dell’ipotesi cioè in cui un atto esplicito di diniego manchi, potrebbe avere risvolti teorici diversi in quei casi in cui, invece, l’Amministrazione mantenga una discrezionalità sull’an o sulle modalità di soddisfazione dell’interesse pretensivo del privato in considerazione, perché allora una disapplicazione non sarebbe giuridicamente configurabile, proprio perché mancherebbero i requisiti descritti[47].
Non a caso, quindi, la sentenza 500/99 non accenna al problema della disapplicazione, perché, nel fissare i principi in base ai quali il giudice può giungere ad affermare la responsabilità dell’Amministrazione – con implicito riferimento anche ai casi in cui non sia ravvisabile un obbligo di emanazione di provvedimenti dal contenuto vincolato – ha preso spunto dalla ritenuta necessità, per il caso in cui si tratti di interessi c.d. pretensivi, di effettuare “un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta”.
Il superamento della regola della pregiudizialità del processo amministrativo – che per la giurisprudenza valeva anche per i casi, in precedenza esaminati, in cui l’atto, inquadrabile nella fattispecie disciplinata dall’art. 4, 1° comma, incidesse in realtà su diritti soggettivi da considerare integri in quanto emanati in carenza di potere – comporta che il giudice ordinario potrà accertare principaliter, naturalmente solo nei casi in cui non sia prevista a favore del giudice amministrativo una giurisdizione esclusiva, la legittimità dell’atto amministrativo concretizzante l’illecito civile, poiché, come si legge nella sentenza, “l’illegittimità dell’azione amministrativa costituisce uno degli elementi della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.”.
Tale conclusione, tuttavia, dovrà essere verificata anche alla luce delle novità introdotte in materia di risarcimento del danno dalla legge 21 luglio 2000 n. 205.
5. Le questioni pregiudiziali. Distinzione fra disapplicazione e accertamento incidentale. – In proposito, si è già chiarito che nei casi in cui “la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa” ciò di cui il giudice conosce direttamente è proprio l’atto lesivo del diritto del privato, poiché la violazione del diritto non può non essere valutata con riferimento al comportamento del soggetto – seppure inteso come apparato amministrativo – che arreca la violazione, per cui, se quel comportamento s’incentra in un atto, quest’ultimo, o, meglio, la sua valutazione, non può non rientrare nell’oggetto del giudizio[48], come questione pregiudiziale in senso logico.
È bene chiarire che per questione pregiudiziale deve intendersi quella questione la cui soluzione condiziona la soluzione di un’altra questione (cosiddetta questione pregiudicata). Secondo Romano[49], “la pregiudizialità…si inserisce in una relazione che lega due questioni e si qualifica, appunto, come nesso di pregiudizialità quel rapporto di antecedenza logica”. Nello studio del fenomeno della pregiudizialità, quindi, ci si muove innanzi tutto su di un piano logico, prima ancora che giuridico, con riferimento, cioè, a quella serie di questioni che il giudice deve risolvere per poter decidere la controversia portata al suo esame[50].
Bisogna poi distinguere tra pregiudizialità logica e giuridica, nel senso che “la dipendenza logica tra due giudizi non è ancora la pregiudicialità; essa è soltanto un presupposto della pregiudicialità. …La pregiudicialità giuridica nasce dall’unirsi di un nuovo elemento alla pregiudicialità logica: e il nuovo elemento è l’eguale natura del giudizio pregiudiciale e del finale. Da ciò segue che tutto quello che è giuridicamente pregiudiciale è tale anche logicamente, ma non viceversa”[51]. E poiché ogni questione pregiudiziale è, in quanto tale, decisa incidenter tantum, e non rientra nell’oggetto del giudizio, la loro soluzione non passa in giudicato, confermandosi così uno stretto legame tra oggetto del giudizio, pregiudiziali, e limiti oggettivi del giudicato[52].
A questo punto, si rivela utile una distinzione tra accertamento incidenter tantum ed accertamento incidentale di legittimità. La nozione di quest’ultimo si deduce dall’art. 34 c.p.c., ove è prevista l’ipotesi in cui il giudice debba spogliarsi della causa di cui è stato investito, qualora, “per legge o per esplicita domanda di una delle parti”, sia “necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore”. Come è stato osservato, “nel discorso del c.p.c. le questioni pregiudiziali di merito si differenziano dalle questioni preliminari di merito nell’essere le prime, e non le seconde,…<trasformabili in cause>”, per cui “mentre le questioni preliminari di merito incidono su <ragioni> strumentali solo all’accoglimento o al rigetto della domanda già proposta, le questioni pregiudiziali di merito incidono su ragioni che possono servire anche a domanda diversa (purchè…il loro nesso con la precedente non sia di accessorietà o di continenza)”[53].
L’accertamento incidentale in senso stretto riguarda quindi una questione pregiudiziale che, per il coinvolgimento della competenza di un giudice superiore, debba essere decisa con efficacia di giudicato, mentre per le questioni pregiudiziali vere e proprie vale “il principio che…sono decise di regola senza effetti di cosa giudicata”, cioè con effetti limitati al caso in decisione[54].
Fondamentale diventa precisare, come già rilevato trattando di disapplicazione in materia di competenza occasionale del giudice civile, che se la disapplicazione comporta sempre la rilevanza in via pregiudiziale di un atto amministrativo, e quindi l’accertamento incidenter della sua illegittimità, non è sempre vero il contrario, nel senso che la rilevanza pregiudiziale, da un punto di vista logico-giuridico, della legittimità di un atto amministrativo, non comporta necessariamente la sua disapplicazione. Inoltre, la pregiudizialità, come categoria astratta, va comunque distinta dalla disapplicazione, sebbene talvolta, nei risultati, da questa possa anche discostarsi poco, perché in ogni caso ne resta distinta concettualmente, a causa del fatto che i due istituti operano su due piani logici diversi. A far giungere alla disapplicazione è il riscontro, comunque in via pregiudiziale, dell’illegittimità dell’atto presupposto.
Riassumendo, nei casi in cui il giudice civile conosce principaliter dell’atto, cioè quei casi in cui “la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa”, egli, per conoscere “degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”, dovrà necessariamente conoscere della sua legittimità, al fine poi di decidere sugli effetti stessi (se vi siano e quali siano), e, ritenuto illegittimo (illecito) l’atto immediatamente lesivo, deve ritenersi che egli “possa e debba disapplicare proprio il provvedimento amministrativo lesivo del diritto soggettivo del quale il titolare gli chiede tutela giurisdizionale”[55]. Il fatto che in tali casi il giudice conosca principaliter dell’atto, cioè della sua illegittimità, come questione pregiudiziale in senso logico, comporta che su tale illegittimità si avrà il c.d. giudicato implicito[56]; con la relativa possibilità per il privato, qualora vi abbia interesse, di esperire un giudizio per l’ottemperanza, ai sensi dell’art. 4, 2° comma, legge n. 2248/1865, secondo cui “l’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”[57]. Per i casi in cui, invece, il giudice conosca dell’atto nell’esercizio di una competenza occasionale, non si ravvisano gli estremi di un accertamento incidentale in senso tecnico, perché la questione di legittimità dell’atto concretizza una questione pregiudiziale, da conoscere incidenter tantum con effetti limitati al caso in decisione, e senza quindi che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto passi in giudicato.
Come è stato rilevato, però, con riferimento alla sentenza citata n. 500/99, “dall’impostazione fatta propria dalla Cassazione traluce una ulteriore conseguenza, di non poco rilievo: si abbandona il criterio del petitum sostanziale e della causa petendi per accedere a quello del mero petitum, atteso che un diritto soggettivo (appunto al risarcimento) è in pratica sempre configurabile in caso di illecito”[58].
6. La legge 21 luglio 2000 n. 205 e i riflessi sul riparto delle giurisdizioni. – La possibilità, affermata dalla Cassazione con la sentenza 500/99, di evitare di adire previamente il giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto, va però verificata con un esame delle novità introdotte dalla legge 21 luglio 2000 n. 205, la quale, all’art. 7 – nel modificare il 4° comma dell’art. 35 del D. Lgs.vo n. 80/98, nella parte in cui questo modificava l’art. 7 della legge n. 1034/71 – ha disposto che il giudice amministrativo possa adesso condannare l’Amministrazione al risarcimento del danno non più soltanto nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, bensì, più in generale, “nell’ambito della sua giurisdizione”; abrogando inoltre l’art. 13 della legge n. 142/92, “e ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi”.
In sostanza, si pone il problema di stabilire se la legge abbia inteso ora riservare al giudice amministrativo quanto la Cassazione riteneva potesse essere di competenza del giudice ordinario; con la conseguenza che, per quest’ultimo, non esisterebbe più spazio per conoscere di controversie risarcitorie che vedano un’Amministrazione citata in giudizio a causa di un atto direttamente lesivo. Anche perché i casi in cui possono sorgere questioni relative al risarcimento di interessi meritevoli di tutela riguardano soprattutto la materia contrattuale, i servizi pubblici, l’edilizia, l’urbanistica, cioè materie ora devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[59].
Bisogna però rilevare il dato fondamentale che l’art. 35, 4° comma, del D. Lgs.vo n. 80/98, nella sua nuova formulazione, continua a ritenere quello al risarcimento del danno come un “diritto patrimoniale consequenziale” (alla pronuncia di illegittimità dell’atto), con la conseguenza che della questione risarcitoria il giudice amministrativo dovrebbe poter conoscere (solo) laddove sia consequenziale rispetto all’annullamento di un atto[60]; pertanto, quanto meno in assenza di tale consequenzialità, e al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, continuerebbe a sussistere la giurisdizione del giudice ordinario[61]. L’abrogazione di ogni disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno, conseguente all’annullamento di atti amministrativi, andrebbe pertanto interpretata come semplice eliminazione della criticata necessità di un doppio giudizio, ma non come aprioristica esclusione della giurisdizione del giudice ordinario[62].
Semmai, la specificazione delle questioni relative al risarcimento danni come “diritti patrimoniali consequenziali” può far ritenere, da una parte, che la caratteristica, comunque tipica, del processo amministrativo come giudizio impugnatorio, condizioni le scelte del ricorrente, nel senso che questi, una volta rivoltosi al giudice amministrativo, non potrebbe limitarsi a chiedere il risarcimento del danno, ma dovrebbe comunque legare necessariamente tale richiesta a quella di annullamento dell’atto[63]. Dall’altra parte, emerge che l’unico aspetto sotto cui la tutela risarcitoria appare effettivamente condizionata dal preventivo esperimento, ed anzi dall’esito positivo, dell’azione di annullamento, è invece quello del risarcimento in forma specifica, intendendosi per tale quello che mira alla cancellazione dell’assetto di interessi definito dal provvedimento, ed alla sua sostituzione con quello richiesto dal ricorrente[64].
Discorso diverso è quello relativo alla possibilità che una volta proposta, da parte del ricorrente, la richiesta di risarcimento del danno, unitamente a quella di annullamento dell’atto lesivo, questo rimanga comunque in vita, per decisione del giudice amministrativo. Infatti, il nuovo art. 7 della L. 1034/71, nel prevedere che il giudice amministrativo possa concedere il risarcimento del danno “anche attraverso la reintegrazione in forma specifica”, rimette ovviamente tale possibilità alla discrezionalità del giudice, esercitabile probabilmente anche in considerazione di quanto previsto dagli articoli 2058 e 2933 del codice civile[65].
Il riferimento normativo al risarcimento del danno come diritto patrimoniale consequenziale va però integrato, perché se tale previsione fosse interpretata nel senso che, ogni qualvolta vi sia un atto lesivo di cui sia possibile chiedere l’annullamento, anche la richiesta di risarcimento del danno andrebbe rivolta al giudice amministrativo, e anche nelle materie non oggetto di giurisdizione esclusiva, il giudice ordinario non dovrebbe potere più conoscere, neppure incidenter tantum, della legittimità di atti lesivi di interessi legittimi. Conclusione che non sembra compatibile con la necessità che continuino ad essere applicati i consueti criteri di riparto della giurisdizione[66].
Il problema si pone con riferimento al principio, affermato dalla Cassazione con la sentenza 500/99, della conoscibilità, da parte del giudice ordinario, di questioni risarcitorie attinenti a situazioni giuridiche non aventi consistenza di diritto soggettivo, lese da provvedimenti amministrativi possibili oggetto di impugnazione dinanzi al giudice amministrativo. In altri termini, poiché l’impossibilità per il giudice amministrativo di concedere il risarcimento del danno era uno degli elementi che giustificava in qualche modo la posizione della Cassazione – allorquando questa ha ritenuto, con quella sentenza, non necessaria la pregiudizialità – si pone la questione se, una volta venuta meno la riserva al giudice ordinario a conoscere delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi, possa essere ritenuto ancora valido il quadro delineato da tale sentenza. Sembra però che tale problematica debba essere affrontata nei termini tradizionali in cui è stata finora dibattuta, e di cui si è già dato conto in precedenza. La novità vera della legge 205/2000, sul punto, è l’ammissione normativa della qualificazione come “ingiusto” del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi, e la possibilità per il privato di ottenere dal giudice, da quello stesso competente ad annullare il provvedimento lesivo, anche il risarcimento del danno (di quello che l’annullamento dell’atto non riesce a coprire), senza la necessità di rivolgersi di seguito ad altro giudice, cioè quello ordinario. Non sembra però esclusa, in presenza di un interesse meritevole di tutela, la possibilità che l’interessato si rivolga al giudice ordinario, per ottenere una pronuncia che dal punto di vista del contenuto del giudicato avrà effetti diversi a seconda che si tratti di competenza principale od occasionale. Come si avrà modo di chiarire trattando della disapplicazione in materia di rapporti di lavoro con le pubbliche Amministrazioni, lo stesso legislatore ha implicitamente consentito che sulla stessa questione possano essere attivati contenziosi presso giudici diversi.
7. Il potere del giudice ordinario di disapplicare atti inoppugnabili. Gli effetti sul giudizio civile di un’eventuale pronuncia del giudice amministrativo sullo stesso atto. – Una volta impostato in questi termini il problema, si tratta poi di chiarire quale influenza possa avere sul potere del giudice ordinario di conoscere l’illegittimità di un atto la decorrenza dei termini per impugnare, e di esaminare quindi quella posizione secondo la quale l’inoppugnabilità andrebbe intesa come una “qualità che si acquista al provvedimento per effetto del decorso del termine di impugnativa, e che rende inattaccabili definitivamente gli effetti sostanziali”[67].
Bisogna però considerare che l’atto amministrativo spiega i propri effetti indipendentemente sia dal fatto di essere definitivo, che dall’essere ancora sottoposto ad impugnativa; inoltre, l’esecutività accompagna ab initio l’atto stesso, non sopraggiungendo a seguito della inoppugnabilità[68]. Pertanto, la consolidazione di cui parla parte della dottrina “avviene di riflesso, in via puramente negativa, in quanto alla decadenza non si collega alcun effetto sulla validità ed efficacia dell’atto”[69]. Pertanto, per quegli atti per l’impugnazione dei quali è trascorso il termine di decadenza, “non si può propriamente parlare di una presunzione assoluta di legittimità, perché, se non è ammissibile l’impugnazione da parte degli interessati, è pur sempre possibile, in via generale, che il vizio venga rilevato, d’ufficio o dietro semplice denuncia, dall’autorità amministrativa che li ha emanati o da quelle ad essa superiori”[70].
Per quanto riguarda poi la validità dell’atto, che anche su di essa l’inoppugnabilità non abbia conseguenze è dimostrato anche dalla possibilità, che l’amministrazione comunque mantiene, di revocare o annullare d’ufficio l’atto inoppugnabile[71]. Da tali elementi interpretativi si evince un dato fondamentale, e cioè che se l’amministrazione può, a volte anche molto tempo dopo, annullare di sua iniziativa l’atto stesso, allora è chiaro che “la decorrenza dei termini per l’impugnativa non elimina il vizio di illegittimità”[72], per cui “l’inoppugnabilità non può essere considerata mezzo di sanatoria; essa non è una forma di convalida per decorso di tempo”[73]. Ma se l’inoppugnabilità non incide sulla validità dell’atto, e non allarga la sfera dei suoi effetti, “poiché essi sono prodotti dalla volontà in quanto formata, e non in quanto conforme al diritto”[74], allora “…opera solo sul piano giustiziale e consiste nell’inattaccabilità (a fini caducatori)…dell’atto da parte degli interessati a impugnarlo,… decorsi i termini di impugnativa”[75].
Conseguenza di quanto finora precisato è la disapplicabilità dell’atto inoppugnabile da parte del giudice civile, anche perché se non si ammette la disapplicazione dell’atto inoppugnabile “si è costretti…a subordinare l’esperibilità dell’azione giudiziaria al termine per ricorrere al Consiglio di Stato, conseguenza palesemente errata”[76]. Oltretutto, l’unica norma che prevede la disapplicazione “non distingue affatto tra atti ancora impugnabili ed atti non più impugnabili”[77].
Per quanto riguarda l’ipotesi in cui l’attore nel giudizio civile proponga anche ricorso dinanzi al giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto lesivo, se l’atto, prima della definizione del giudizio civile, è annullato dal giudice amministrativo, sarà comunque questi a pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento del danno, sempre che sia stata a lui presentata, con una pronuncia che non potrà non avere effetti sul giudizio civile, nei termini che si preciserà tra breve[78].
Maggiori dubbi sono sollevati invece, anche con riferimento al disposto dell’art. 2909 c.c., per il caso in cui il ricorso dinanzi al giudice amministrativo venga respinto. In tali fattispecie, la giurisprudenza ha solitamente affermato che “il giudice ordinario non può disapplicare un atto della P.A., quando la sua legittimità sia stata affermata dal giudice amministrativo nel contraddittorio della parte e con autorità di giudicato. Infatti, la pronuncia di rigetto della domanda di dichiarativa dell’illegittimità copre il provvedimento impugnato, sia sotto l’aspetto dell’esistenza del potere dell’organo che ha emesso il provvedimento, sia della sostanza dello stesso, precludendo al giudice ordinario ogni indagine al riguardo”[79].
Tale posizione, peraltro, è strettamente collegata a quell’orientamento secondo il quale il giudicato di reiezione coprirebbe il dedotto e il deducibile, principio che comporterebbe “non solo che l’autorità del giudicato copra fatti che avrebbero potuto dare fondamento ad azioni od eccezioni non fatte valere, ma anche che lo stesso investe solo quelli, se non in concreto dedotti, costituenti, in relazione sempre al medesimo oggetto, una premessa ed un precedente logico essenziale ed indispensabile della pretesa e della relativa pronuncia”[80]; vale a dire che è preclusa la possibilità di riproporre non solo le questioni espressamente fatte valere in giudizio, ma anche tutte le altre che si caratterizzano astrattamente per la loro inerenza ai fatti costitutivi delle domande o eccezioni dedotte in giudizio[81], anche quando, in realtà, la nuova azione sia basata su fatti diversi[82].
Ora, astrattamente può affermarsi che una limitazione, per il giudice civile, può essere data da una decisione del giudice amministrativo che si sia pronunciato sullo stesso atto della cui legittimità egli si trovi a dover conoscere, al fine di pronunciarsi su una richiesta di risarcimento danni in un giudizio con le stesse parti[83]; c’è però da dire che assumono importanza i vizi ritenuti esistenti o inesistenti dal giudice amministrativo. Il ricorso può infatti essere rigettato anche per motivi diversi dalla legittimità dell’atto, dovendo oltretutto l’esame essere limitato ai vizi sollevati, per cui il giudice civile può accertare vizi non rilevati dinanzi al giudice amministrativo[84]. Ed allora, quanto sostenuto sembra conciliabile con la descritta posizione giurisprudenziale in materia di giudicato, se si considera che, normalmente, si afferma che “il giudicato preclude che possano essere rimesse in discussione, in un successivo giudizio, profili della fattispecie interessata già da esso affrontati, o suscettibili di venir affrontati se investiti da rituali e tempestive censure”[85]. Infatti, prendendo atto che alcuni profili di illegittimità non potevano essere fatti valere nel momento in cui fu emanato l’atto stesso, si potrebbe ugualmente continuare a sostenere, come già avviene in giurisprudenza, che “la formula <dedotto e deducibile> (…) contrassegna non soltanto…le ragioni giuridiche già fatte valere nel precedente giudizio (c.d. giudicato esplicito), sebbene anche quelle altre che, pur non specificamente prospettate, costituiscano antecedenti logici essenziali e necessari della…pronuncia (c.d. giudicato implicito)”[86].
In sostanza, “il principio per il quale il giudicato copre il dedotto ed il deducibile va inteso nel senso che il giudicato copre l’azione qual è stata concretamente esercitata, sul fondamento dei fatti costitutivi allegati e di tutti quei fatti che…debbono intendersi implicitamente inclusi nella medesima <causa petendi>”[87], e quindi “deve escludersi che il principio secondo cui la cosa giudicata “copre il dedotto e il deducibile” comporti che, ai fini dell’estensione del giudicato, l’oggetto del processo debba essere identificato non attraverso le ragioni concretamente poste a base della domanda e divenute oggetto di discussione, ma con riferimento all’intero rapporto dedotto in giudizio”[88].
C’è poi da considerare l’ipotesi in cui, adìto sia il giudice amministrativo che quello ordinario, quest’ultimo, nell’esercizio della sua competenza principale, si pronunci per primo, accordando il risarcimento del danno previa disapplicazione dell’atto lesivo. In questo caso, si è sostenuto che “l’inattitudine della disapplicazione ad imporsi extra moenia consentirebbe…al giudice amministrativo (intervenuto dopo il giudice ordinario) di negare l’annullamento pur in presenza di una sentenza del giudice ordinario che ha accordato, previa disapplicazione, il risarcimento del danno”[89]. Ma poiché nei casi di competenza principale il giudicato cade anche sulla legittimità dell’atto, in quanto elemento costitutivo della fattispecie, ne deriva che tale “inattitudine” è riferibile solo ai casi di competenza occasionale del giudice civile, con l’ulteriore conseguenza che il disposto dell’art. 2909 c.c. troverà applicazione nel giudizio amministrativo, nel presupposto della identità delle parti e dei vizi sollevati dinanzi ai due giudici[90].
In conclusione, l’impostazione teorica in base alla quale il giudice civile può ancora conoscere della legittimità di provvedimenti amministrativi lesivi anche di interessi legittimi – sia in pendenza di un giudizio di impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, sia, a certe condizioni, in presenza di un giudicato del giudice amministrativo che abbia ritenuto legittimo, in relazione ai motivi di impugnazione, lo stesso atto all’esame del giudice civile, o, a fortiori, rigettato il ricorso per motivi formali – appare conforme alle regole e ai principi che disciplinano sia il processo civile che quello amministrativo[91].
8. – La disapplicazione in materia di rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Il riconoscimento normativo dell’indispensabilità della disapplicazione. – Se in materia di pubblico impiego persisteva la necessità di distinguere la natura degli atti sottoposti all’esame del giudice, anche al fine di individuare il carattere di autoritarietà degli atti e l’esistenza o meno di termini di decadenza, l’avvenuta privatizzazione del settore ha modificato i termini del problema.
Infatti, nel D. Lgs.vo 29/93 la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni è stata legata alla qualificazione dell’attività di gestione del datore di lavoro (pubblico), attribuita ai dirigenti, come attività privatistica, cioè come un’attività che si svolge “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”, nell’ambito degli “atti organizzativi” di carattere generale (cioè quelli – aventi funzioni di indirizzo politico-amministrativo, di definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare, ecc. – con cui sono delineate le linee fondamentali dell’organizzazione degli uffici), che restano riservate alla disciplina di diritto amministrativo[92]. Conseguenza di ciò è che gli atti di gestione del datore di lavoro (pubblico) sono atti negoziali e non provvedimenti, incontrano i limiti dei diritti soggettivi dei dipendenti, e sono sindacabili dal giudice ordinario, in base ad un parametro costituito dalla sussistenza di dimostrabili esigenze tecnico organizzative[93].
Dalle norme citate si è ritenuto di evincere, innanzi tutto, che, “di riflesso, rispetto agli atti organizzativi generali in regime pubblicistico…e agli altri eventuali atti che siano adottati dalla pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà (e quindi non con i poteri del datore di lavoro, che sono poteri contrattuali), i dipendenti pubblici non hanno azione di fronte al giudice amministrativo, dato che la loro posizione giuridica è tutelabile in modo esaustivo davanti al giudice ordinario, che può disapplicare, ove necessario, l’atto pubblicistico che lede i diritti del cittadino”, sindacandone l’illegittimità secondo i canoni del diritto amministrativo[94].
Sotto diverso ma connesso profilo, per quanto riguarda la disposizione, contenuta nell’art. 68 dello stesso D. Lgs.vo, secondo la quale “l’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo”, essa dovrebbe essere riferita, secondo alcuni, alle ipotesi in cui siano i terzi, e non lo stesso dipendente – che non avrebbe azione – a ricorrere al giudice amministrativo contro il provvedimento[95].
Tuttavia, sembra di potere affermare che, in alcuni casi, il dipendente potrebbe avere titolo giuridico per impugnare provvedimenti organizzativi di carattere generale, qualora lesivi immediatamente e direttamente di sue situazioni giuridiche, che siano qualificabili in termini di interessi legittimi[96]. Sempre l’art. 68[97] ha poi previsto, al 1° comma, che il giudice ordinario è competente “ancorchè vengano in questione atti amministrativi presupposti”, e che “quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione…li disapplica, se illegittimi”[98].
Ora, al di là del fatto che tale potere sarebbe comunque spettato al giudice ordinario in base all’art. 5 della legge abolitiva, alla ritenuta necessità del legislatore di prevederlo espressamente può comunque essere attribuito un duplice significato.
Il primo è quello di consentire la contemporanea instaurazione di due giudizi – l’uno per l’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo dell’atto di organizzazione relativo a posizioni di interesse legittimo, e l’altro dinanzi al giudice del lavoro per la tutela (previa disapplicazione dell’atto impugnato) del diritto vantato nell’ambito del rapporto di lavoro – che avranno vita e corso autonomo, stante l’esclusione normativa della pregiudizialità amministrativa, e che potranno anche concludersi con esiti autonomi[99].
Il secondo è quello di ribadire e confermare un dato normativo che – oltre a rivelare un utile significato interpretativo di carattere generale – nel contesto in esame emerge comunque rafforzato. Infatti, tale espressa enunciazione sembra essere la formalizzazione normativa della possibilità, per il giudice civile, di disapplicare incidenter tantum atti lesivi di interessi legittimi, in casi in cui ciò che il dipendente fa valere in via principale è la lesione di sue situazioni soggettive, qualificabili in termini di diritti soggettivi, ad opera di atti gestionali del proprio datore di lavoro pubblico.
Oltretutto, tale potere di disapplicare è strettamente legato alla previsione della prima parte del 2° comma dell’art. 68, secondo cui “il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”. Ciò che di veramente innovativo tale normativa presenta, pertanto, è la possibilità di adottare provvedimenti, diversi dalla semplice disapplicazione, che semplicemente in base alla disciplina contenuta negli artt. 4 e 5 della legge abolitiva per il giudice civile non sarebbe stato possibile adottare.
Ciò vuol dire che i giudizi relativi a rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni sono definitivamente finalizzati alla tutela delle situazioni soggettive in gioco, avendo acquisito il carattere di una giurisdizione sul rapporto che, pur utilizzando, talvolta, le tradizionali forme dell’impugnativa di atti, trascende la loro semplice eliminazione, finalizzata com’è alla regolazione delle situazioni sostanziali delle parti, ed alla determinazione di una norma agendi idonea a vincolare le parti per il futuro, anche attraverso la disapplicazione[100].
Ciò ha sicuramente modificato le caratteristiche della tutela giurisdizionale del pubblico dipendente nella materia in argomento, incrementando gli spazi di ingerenza del giudice sul rapporto e così rendendo effettiva la tutela, tenuto conto della maggiore elasticità ed ampiezza che la legge attribuisce all’intervento del giudice ordinario nelle controversie di lavoro rispetto ai poteri ad esso spettanti in altre materie nei confronti di pubbliche Amministrazioni, ed a quello tradizionalmente ritenuto consentito al giudice amministrativo, caratterizzato dalla necessaria impugnazione di un atto amministrativo, con tutti i limiti formali e sostanziali che si ritiene derivino da una simile impostazione, in relazione all’imperatività dei provvedimenti e ai termini di decadenza. In ogni caso, il dato ulteriore che è possibile mettere in evidenza, da un punto di vista più ampio, è il fatto che l’avvertita esigenza di rafforzare l’attribuzione al giudice civile, in materia di rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni, del potere di disapplicazione, è sintomo di una generalizzata acquisita consapevolezza, da parte del legislatore, della stretta inerenza del potere di disapplicazione, proprio come principio generale, alla funzione ed ai compiti del giudice, semplicemente in quanto espressione della funzione giurisdizionale nel suo complesso[101].
E questo, se collegato logicamente e giuridicamente con l’art. 5 l. n. 2248, cit., proprio in quanto espressione di un principio generale di tale portata, con l’analogo principio ormai introdotto ed imposto dall’ordinamento comunitario, nonché con le caratteristiche ed esigenze dello stesso processo amministrativo, dà certamente modo di affermare l’esistenza in termini generali di un principio della disapplicazione[102].
9. L’elemento comune alla disapplicazione nei casi di competenza principale e occasionale: l’accertamento dell’illegittimità degli effetti dell’azione amministrativa. L’art. 5 come espressione di un principio generale. – Ora, in relazione alle ipotesi trattate, sia di competenza principale che occasionale, si palesano necessarie alcune considerazioni, che riguardano strettamente i punti di connessione tra tali diverse fattispecie, cioè quello da cui esse sono, pur nella loro diversità, accomunate.
Tale minimo comune denominatore, infatti, si ritiene di poterlo rinvenire nella circostanza che, in entrambe le fattispecie, il passaggio obbligato perché il privato ottenga la tutela e la reintegrazione del proprio diritto leso, indipendentemente dal dover chiedere tale tutela nei confronti dell’Amministrazione o di un altro privato, è dato dalla necessità logico-giuridica, per il giudice, di disapplicare l’atto amministrativo riscontrato illegittimo, cioè di non tenere conto degli effetti da esso prodotti, e di decidere la controversia tamquam non esset. Vale a dire che, a parte la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni – cosa peraltro sempre possibile e che comunque, per definizione, non elimina di per sè dal mondo giuridico la lesione subita – al privato, senza la disapplicazione dell’atto, non sarebbe data alcuna forma di tutela, atteso che l’atto dovrebbe continuare a produrre i suoi effetti dannosi anche, e soprattutto, nel caso sottoposto al giudice.
In sostanza, il potere di disapplicare gli atti illegittimi o illeciti appare senza dubbio e si concretizza come il minimum indispensabile affinché il giudice possa effettivamente provvedere sull’oggetto del giudizio, cioè come quel potere che deve essere ritenuto connaturato all’esercizio stesso della funzione giurisdizionale e, in quanto tale, da ritenere esistente a prescindere da una qualsiasi formalizzazione espressa. Sembra quindi che possa essere adattato ai nostri fini il rilievo, formulato ad altro scopo, di Cannada-Bartoli[103], per cui, dopo avere affermato il dovere del giudice di disapplicare ex officio gli atti amministrativi illegittimi – cioè quegli atti che vengono in rilievo nei casi di competenza occasionale e che non ledono perciò direttamente diritti soggettivi – chiarisce che invece, nei casi di competenza principale, “imporre al giudice il dovere di disapplicare ex officio gli atti illeciti non ha senso, perché è proprio questa disapplicazione che forma l’oggetto della domanda del privato, il quale all’uopo deduce la lesione del diritto; se non venisse chiesta, mancherebbe il processo”. Ora, tutto ciò può anche assumere un significato diverso, tale da far considerare che sia nei casi di competenza principale, che in quelli di competenza occasionale, il privato non ha altro da chiedere al giudice, per una effettiva reintegrazione del suo diritto, se non la disapplicazione del provvedimento che di volta in volta viene eventualmente in rilievo; e questo proprio perché la disapplicazione costituisce il momento in cui la tutela, da astratta, diventa effettiva. Di conseguenza, se il giudice non disponesse di tale potere, il privato potrebbe chiedergli soltanto il risarcimento dei danni, ma sempre in un’ottica ripristinatoria per equivalenza[104].
La conclusione, quindi, non può che essere quella per cui la facoltà di disapplicare gli atti illegittimi va considerata “un’ordinaria e indefettibile manifestazione del potere giurisdizionale”[105].
Richiamando poi il dato per cui il giudice ordinario può anche disapplicare il rifiuto di emettere un atto vincolato, sembra di poter dire che ciò che per il giudice fondamentalmente rileva, in ipotesi di lesioni, dirette o indirette, di diritti soggettivi, è l’illegittimità degli effetti dell’azione amministrativa, e questo a prescindere dal fatto che tale azione si sia o meno tradotta in un atto, visto che il rifiuto di compiere un atto vincolato non è detto che si abbia in forma esplicita[106].
Vale a dire, che, sia in caso di avvenuta emanazione di un atto espresso di rifiuto, che in caso di mero comportamento omissivo, ciò che la funzione stessa del giudice richiede è proprio il non tenere conto di quanto l’Amministrazione, per usare termini generici, ha inteso realizzare, indipendentemente, come si è già detto, dalla circostanza che tale illegittimità degli effetti dell’azione amministrativa debba essere fatta valere proprio nei confronti dell’Amministrazione – in presenza oppure no di un atto – o rilevi invece in una controversia fra privati.
E tutto questo, necessariamente, anche in assenza di una norma, come quella dell’art.5, che preveda esplicitamente tale potere, pena il venir meno di qualsiasi forma di tutela, che possa dirsi effettiva e concreta, della situazione soggettiva lesa[107]. Infatti, come è stato rilevato[108], “mentre la norma dell’art.5 presuppone l’esistenza di un atto amministrativo, al fine di rendere concretamente operativo lo scopo della disapplicazione, la norma dell’art. 4 l. cont. amm. può prescindere dall’esistenza dell’atto, in quanto la contestazione sul diritto soggettivo leso può derivare da una condotta o da una operazione materiale dell’Amministrazione”. Una caratteristica fondamentale dell’art.5, in sostanza, continua Romano, è data proprio “dalla centralità della rilevanza dell’atto, come oggetto dell’<<applicazione>> da parte del giudice ordinario, cioè dalla centralità del rapporto tra rilevanza dell’atto e conformità dell’atto alle leggi”.
In definitiva, sembra di potere affermare, con riferimento al giudizio civile, che la norma dell’art.5 non sia affatto necessaria – sia da un punto di vista di teoria generale che da un punto di vista di diritto positivo – ai fini della disapplicabilità degli atti illegittimi e dell’esercizio concreto della funzione di tutela dei diritti soggettivi dei privati, atteso che, se tale norma non ci fosse, tutta la disciplina del rapporto tra giudice e atti o comportamenti illegittimi dell’Amministrazione sarebbe già rinvenibile nel combinato disposto dei due commi dell’art. 4, laddove, con riferimento ai casi di competenza principale, prevede che “i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio” e che “l’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative”; da tali disposizioni, infatti, si deduce il principio per cui il giudice dovrà limitarsi a conoscere degli effetti (se vi siano e quali siano), eventualmente considerandoli irrilevanti, senza incidere minimamente sull’atto, il quale, negli altri casi da esso eventualmente considerati, continuerà ad essere efficace, considerato del resto che “la disapplicazione consiste in un comportamento pratico”, vale a dire “agire come se un determinato atto amministrativo, riscontrato illegittimo, non esistesse”[109].
Dauno F.G. Trebastoni
Segretario comunale

[1] Cfr. Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 130, il quale osserva che “potere di disapplicare <<in ogni altro caso>> e potere di conoscere incidenter tantum delle pregiudiziali sulla legittimità degli atti amministrativi finiscono col coincidere”. Nello stesso senso del testo, per cui “il <<caso>> cui allude la norma è quello del precedente…art. 4”, vedi G.M. Berruti, La disapplicazione dell’atto amministrativo nel giudizio civile, Milano, 1991, 20.
[2] Così Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, II, Milano, 1964, 186. Nello stesso senso A. Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Dir. proc. amm., 1983, 47; Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, Varese, 2000, 674. Cfr. Cass., Sez. Un., 1° giugno 2000 n. 384, in Mass., 2000, per la precisazione che “la questione relativa alle condizioni cui è sottoposto il potere del giudice ordinario in tema di disapplicazione degli atti amministrativi attiene ai modi di esercizio della “potestas iudicandi”, e, quindi, al merito, e non alla giurisdizione”.
[3] Vedi Montesano, Processo civile e pubblica Amministrazione, in Trattato del processo civile diretto da F. Carnelutti, Milano, 1960, 38-39 e passim.
[4] Montesano, op. cit., 90.
[5] Cfr. Montesano, op. cit., 51.
[6] Vedi op. cit., 68. Alla posizione descritta consegue una dichiarazione di difetto giurisdizione del giudice ordinario. Così quella giurisprudenza secondo cui, nelle fattispecie espropriative, “l’espropriato che alleghi l’illegittimità e l’inefficacia del decreto di esproprio – a causa dell’illegittimo esercizio da parte della pubblica Amministrazione del potere di proroga del termine entro il quale doveva essere emanato secondo la dichiarazione di pubblica utilità – fa valere una situazione di interesse legittimo, tutelabile dinanzi al giudice amministrativo, correlata alla carenza non del potere di proroga ma delle condizioni alle quali ne è subordinato l’esercizio”: Cass., Sez. un., 31 marzo 1978 n. 1480, in Foro it., 1979, I, 785. In questo filone si è anche affemato che, “una volta accertata la previsione normativa del potere amministrativo in concreto esercitato, l’aderenza del medesimo alla fattispecie legale contemplata e l’astratta sua idoneità ad affievolire o degradare posizioni di diritto soggettivo del privato, il giudice ordinario, non potendo disapplicare l’atto amministrativo, non può respingere, nel merito, come infondata, la domanda, ma deve declinare la propria giurisdizione: così Id., Sez. un., 25 ottobre 1978 n. 4827, in Giust. civ., 1979, I, 272. Vedi anche Id., Sez. Un., 10 aprile 1985 n. 2365, in Giur. Agr. It., 1986, 598, e Id., Sez. Un., 9 novembre 1992 n. 12073, in Cons. St., 1993, II, 478, nonché Id., sez. I, 25 novembre 1998 n. 11941, in Giust. Civ., 1999, I, 1373, ove si parla di affievolimento del diritto soggettivo e, quindi, di giurisdizione del giudice amministrativo. Cfr. anche Id., sez. I, 27 aprile 1999 n. 4191, in Mass., 1999: “la mancata impugnazione dell’atto amministrativo (e la mancata dichiarazione dell’illegittimità di esso) nelle sedi sue proprie produce il consolidamento dell’effetto di affievolimento dell’originario diritto soggettivo di cui si denuncia la lesione, con la conseguenza che, al giudice ordinario investito della controversia, non resta che prendere atto della insussistenza di una violazione del diritto soggettivo vantato e, per l’effetto, degli estremi stessi di un’obbligazione risarcitoria (con statuizione che investe non la questione della giurisdizione, ma esclusivamente il profilo dell’accoglibilità della domanda)”. Id., sez. un., 27 maggio 1999 n. 308, in Foro It., 1999, I, 3278, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, affermando l’esistenza di un semplice cattivo uso del potere, in un caso di procedimento espropriativo disciplinato da una normativa diversa da quella effettivamente applicata.
[7] Op. cit., 90-91.
[8] Vedi op. cit., 45-46.
[9] Cfr., sul punto, Nigro, Giustizia amministrativa, 4, a cura di E. Cardi e A. Nigro, Bologna, 1994, 197, il quale, pur con delle posizioni che, a proposito dei poteri in generale del giudice ordinario, divergono da quelle di Montesano, afferma che soltanto nei casi di competenza incidentale ex art. 5 si verifica vera e propria disapplicazione, “ma non nel caso dell’art. 4, in cui non vi è disapplicazione dell’atto nè rispetto al diritto dedotto in giudizio (chè, anzi, il riconoscimento della lesione del diritto implica che si conferisca all’atto il massimo di <<applicazione>>), nè rispetto ad altre situazioni (impedendolo la limitazione dei poteri di cognizione e di decisione del giudice fissata nell’art. 4)”.
[10] Cfr. op. cit., 46.
[11] Vale a dire che “quando oggetto della domanda e, quindi, del giudicato sostanziale, è, a titolo di illecito o ad altro titolo, il risarcimento del danno causato dall’atto amministrativo, non si verifica l’ipotesi prevista nell’art. 4, poiché la <<contestazione>> non <<cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa>>“: op. cit., 60.
[12] Op. cit., 47. Da sottolineare peraltro il dato, rilevante nel contesto in discussione, per cui Montesano, op. cit., 43-44, dopo avere premesso, con riferimento all’art. 5, che l’esegesi di tale articolo debba precedere quella dell’art. 4, visto che il primo prevede tutti i casi in cui l’atto deve essere o non “applicato”, ai fini della tutela richiesta in giudizio, mentre il secondo opera solo “quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa”, precisa in seguito che il concetto stesso di disapplicazione è viziato “dalla confusione – frequente nel nostro ordinamento – tra l’atto e la disciplina giuridica che esso detta”. Vale a dire che “se il giudice pronuncia sull’atto, non lo applica, ma gli applica le norme che gli son proprie; se, invece, si deduce in causa una fattispecie, su cui l’atto comunque incida, potrà sorgere il quesito se il giudice debba o non debba, nella ricostruzione e valutazione giuridica di quella fattispecie, tenere conto del regolamento posto dall’atto”. Secondo Montesano “è chiaro, dunque, che l’art. 5 prevede questa seconda ipotesi, e con le parole <<atti amministrativi>> si riferisce sia, propriamente, agli atti che devono essere esaminati sotto il profilo della legittimità, sia – con dizione impropria – alle disposizioni che, contenute negli atti medesimi, devono essere o non applicate (allo stesso modo la parola <<legge>> indica l’atto del legislatore e la norma legislativa)”, con la conseguenza che, “in virtù dell’art. 5, il giudice civile non pronuncia, dunque, sull’atto amministrativo, non applica, in altri termini, le norme che lo regolano, ma, per decidere se la domanda sia fondata in diritto, deve applicare o non le disposizioni dell’atto, a seconda che esso sia o non legittimo”.
[13] Lo Stato e il codice civile, vol. III, Firenze, 1882, 215.
[14] Montesano, op. cit., 46.
[15] Montesano, op. cit., 48, in nota.
[16] Allo stesso modo, secondo l’Autore, op. cit., 109, “il dovere amministrativo di conformarsi al giudicato civile può sussistere solo quando il giudicato medesimo accerti che l’atto amministrativo costituisce contestazione o turbativa di un diritto o inadempimento di un obbligo, non quando…la sentenza civile dichiari che l’amministrazione è tenuta a risarcire in denaro i danni inerenti alla permanenza in vita di un atto illegittimo o – come si suol dire,…impropriamente – a prestare l’equivalente pecuniario del <<diritto leso>> dall’illegittimità amministrativa”.
[17] Vedi op. cit., 92.
[18] Analoghe considerazioni è possibile riscontrare nel pensiero di G. Chiovenda, Princìpi di diritto processuale civile, IV ed., Napoli, 1928, 347, il quale, pur ammettendo in generale che la giurisdizione civile incontra dei limiti speciali nei confronti dell’Amministrazione, ritiene tuttavia che non sia possibile applicare le regole generali, in tema di condanna dell’Amministrazione, ove “un atto autonomo amministrativo abbia dato vita a un nuovo rapporto tra amministrazione e cittadino, tale che per giungere alla prestazione si debba prima rimuovere questo rapporto”.
[19] Op. cit., 95, 98.
[20] Anche per Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d., 839, il legislatore del 1865 era partito dal principio di accordare speciali privilegi all’Amministrazione rispetto all’azione giudiziaria, in modo che l’esercizio di questa non turbasse la libera esplicazione della volontà amministrativa. Anche Chiovenda, del resto, in Principi, cit., 344-345, collega l’inesistenza di azioni costitutive contro l’Amministrazione alla teoria della divisione dei poteri e alla garanzia della concreta attuazione dei fini pubblici perseguiti dall’esecutivo. Per un esame più generale delle ragioni della legge abolitiva, sia consentito rinviare a Trebastoni, La disapplicazione nel processo amministrativo, in Foro amm., 2000, II, 678 s.s.
[21] Cfr. ad esempio quelle pronunce che hanno affermato, in materia di opposizione ad ordinanze-ingiunzione irrogative di sanzioni amministrative o comunque finalizzate alla riscossione di somme, il potere del giudice ordinario di sindacare l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto posti a base dei provvedimenti sanzionatori, ritenuti disapplicabili. Cfr., fra tutte, Cass. civ., sez. I, 25 febbraio 1999 n. 1632, in Arch. Giur. circolaz. sinistri stradali, 1999, 496; Id., Sez. Lav., 6 aprile 1996 n. 3221, in Mass. 1996; Id., Sez. Un., 2 dicembre 1992 n. 12868, in Cons. St., 1993, II, 717; Id., Sez. Un., 12 giugno 1990 n. 5705, in Arch. Giur. Circolaz. e Sinistri, 1990, 942; Id., Sez. Un., 4 dicembre 1984 n. 6348, in Riv. Giur. Polizia Locale, 1986, 39. Contra, sullo stesso argomento, Id., Sez. I, 28 novembre 1992 n. 12722, in Cons. St., 1993, II, 518; Id., Sez. Un., 19 aprile 1990 n. 3271, in Foro it., 1990, I, 1510; Id., Sez. Un., 22 aprile 1985 n. 2645, in Giust. Civ., 1985, I, 1285; Id., Sez. I, 11 novembre 1982 n. 5945, in Riv. polizia, 1984, 56. In termini generali vedi Id., Sez. III, 7 febbraio 1992 n. 1080, in Foro it., 1993, II, 317, secondo cui “il giudice ordinario può conoscere dell’illegittimità di un atto amministrativo, al fine di disapplicarlo, quando l’illegittimità consista nella insussistenza di un presupposto la cui rilevazione possa essere oggetto di un mero accertamento di fatto”; vedi anche Id., sez. un., 26 maggio 1998 n. 5233, in Foro It., 1998, I, 2094; Id., Sez. III, 16 giugno 1983, n. 4143, in Arch. locaz. e condominio, 1983, 471.
[22] Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, cit., 137-138. Significative quelle pronunce, in materia di occupazioni d’urgenza illegittimamente prolungate o di decreti di espropriazione emessi oltre i termini previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità, o in assenza di quest’ultima, che hanno ritenuto i suddetti decreti inidonei a degradare la posizione di diritto soggettivo del proprietario del fondo, ed a sottrarre al giudice ordinario le controversie promosse per tutelare il diritto stesso, rientrando nelle attribuzioni di detto giudice la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo ed illecito, emesso in carenza di potere: fra le tante, Cass. civ., sez. I, 10 aprile 1999 n. 3516, in Mass., 1999; Id., sez. un., 22 maggio 1998 n. 5144, in Riv. Giur. Edil., 1998, I, 1148; Id., Sez. I, 25 gennaio 1997, n. 788, in Foro it., 1997, I, 1163; Id., Sez. un., 10 luglio 1992 n. 8418, in Cons. St., 1992, II, 1919; Id., Sez. un., 25 gennaio 1989 n. 427, in Cons. St., 1989, II, 615; Id., Sez. un., 12 giugno 1984 n. 3477, in Rass. giur. Enel, 1984, 643. Per un esame della giurisprudenza v. Giaccardi, L’espropriazione per pubblica utilità, in Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, a cura di Falcone e Pozzi, II, Torino, 1998, 294. Id., Sez. Un., 10 agosto 1996 n. 7407, in Cons. St., 1997, II, 33, ha affermato la possibilità, per il giudice ordinario, di disapplicare un provvedimento del Commissario regionale per gli usi civici, nel caso in cui si accerti che tale provvedimento era affetto dal vizio di incompetenza assoluta, e non aveva pertanto inciso sulla originaria “qualitas soli”. Per quanto riguarda le giurisdizioni speciali, poi, Trib. Sup. acque pubbliche, 8 giugno 1965 n. 14, in Cons. Stato, 1965, II, 305, ha affermato che “l’Amministrazione non può estendere arbitrariamente il limite del lago a danno dei privati; qualora ciò facesse, il giudice, chiamato a dirimere il conflitto, dovrebbe disapplicare l’atto amministrativo ed individuare, con criteri tecnicamente e giuridicamente corretti, l’effettivo limite del lago”.
[23] Cfr. Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 185.
[24] Montesano, op. cit., 103-104. Per Cass. Civ., Sez. I, 17 febbraio 1995, n. 1737, in Foro amm., 1996, 798, “il vincolo di destinazione, imposto, con provvedimento amministrativo, su un immobile per la salvaguardia delle sue caratteristiche storiche od artistiche, non riguarda diritti nascenti da un rapporto obbligatorio relativo allo stesso immobile, ma estraneo alla sua destinazione. Quindi il provvedimento di vincolo è irrilevante ai fini del rilascio dell’immobile dal conduttore al locatore, e non è affatto prospettabile la disapplicazione del provvedimento medesimo”.
[25] Cfr. op. cit., 50.
[26] In questi termini Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 98-99, 117.
[27] Cfr. anche A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Napoli, 1989, 109 e passim.
[28] Non sembra pertanto condivisibile, come affermato invece da A. De Roberto, <<Non applicazione>> e <<disapplicazione>> degli atti normativi nella attuale giurisprudenza, in Atti del convegno “Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti” (Roma, palazzo Spada, 16 maggio 1997), Torino, 1998, 22, a proposito proprio di degradazione e disapplicazione, parlare di “…atti rivolti a sopprimere o comprimere diritti ancorchè illegittimi…”. Cass., Sez. Un., 18 febbraio 1997 n. 1483, in Giur. it., 1998, 574, ha affermato che “quando alla pubblica Amministrazione non è attribuito alcun potere discrezionale in ordine alla concessione di un contributo in favore di un privato”,…essendo ad essa “demandato esclusivamente il controllo formale di determinati adempimenti, il privato risulta titolare di un diritto soggettivo perfetto al suo conseguimento”, con la conseguenza che “l’eventuale provvedimento con il quale il contributo venga revocato o sospeso è inidoneo a degradare il diritto soggettivo in mero interesse legittimo, e le relative controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, cui è riconosciuto il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo”. Negli stessi termini Id., Sez. Un., 9 agosto 2000 n. 554, in Mass., 2000. Oppure, ancora secondo lo stesso criterio, vedi tutta quella giurisprudenza che, in materia di rapporto di convenzionamento esterno fra una U.S.L. ed un medico, afferma che la giurisdizione del giudice ordinario non trova deroga per il semplice fatto che, nell’ambito del rapporto, intervengano provvedimenti dell’Usl stessa, che possono di conseguenza essere disapplicati qualora illegittimi. Cfr. anche Id., Sez. Un., 11 luglio 1997 n. 6321, in Cons. St., 1997, II, 1777; Id., Sez. Un., 3 ottobre 1996 n. 8632, in Giur. It., 1997, I, 1, 1367; Tar Lazio, Sez. I, 23 aprile 1996 n. 677, in I Tar, 1996, I, 1708; Cass., Sez. Un., 6 giugno 1995 n. 6347, in Lav. nella giur., 1996, 254; Id., Sez. Un., 17 gennaio 1994 n. 377, in Giust. Civ., 1994, 36; Id., Sez. Un., 14 luglio 1993 n. 7785, in Giust. Civ., 1993, 1176. Sempre in tema di diritti non soggetti ad affievolimento, interessante rilevare che, già diciotto anni fa, Id., Sez. Un., 14 ottobre 1983 n. 6000, in Foro it., 1983, I, 2698, affermava che i decreti ministeriali di revisione periodica del prontuario terapeutico, in quanto provvedimenti amministrativi adottati nell’esercizio di una discrezionalità meramente tecnica, “non sono idonei a degradare il diritto soggettivo del lavoratore a ricevere…un’assistenza farmaceutica congrua, e, quindi, sono suscettibili di disapplicazione da parte del giudice ordinario, competente a tutelare tale diritto, qualora escludano la prescrivibilità di medicinali indispensabili e non sostituibili con altri elencati nel prontuario, sì da menomare il contenuto della prestazione assicurativa garantita dalla legge”. Sullo stesso argomento, analogamente, Id., Sez. Lav., 14 febbraio 2000 n. 1665, in Foro It., 2000, I, 1137; Id., Sez. Lav., 16 luglio 1999 n. 7537, in Foro It., 1999, I, 2832; Id., Sez. Lav., 3 ottobre 1996 n. 8661, in Giur. It., 1997, I, 1, 574; Id., Sez. Un., 1° giugno 1993 n. 6065, in Giust. Civ., 1993, 959; Id., Sez. Un., 20 febbraio 1985 n. 1504, in Giust. Civ., 1985, I, 1314; Id., Sez. Un., 16 giugno 1984 n. 3611, in Giust. Civ., 1984, I, 2766.
[29] Vedi Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, cit., 156. Poco persuasivo, pertanto, che “dal lato funzionale l’art. 5…, pur essendo come l’art. 4 norma di disciplina del potere del giudice ordinario, si trova con esso in rapporto di dissociazione, in quanto pone la questione della rilevanza dell’atto in rapporto di conformità-non conformità alla legge, definendo un potere sindacatorio senza i limiti costitutivi del divieto di annullamento e di revoca degli atti amministrativi di cui all’art. 4, 2° co.”: Verrienti, Giurisdizione ordinaria e pubblica amministrazione, in Dig. Disc. Pubbl., VII, 1991, 477. V. Cass. civ., sez. I, 22 ottobre 1979 n. 5481, in Giust. civ. Mass., 1979, a proposito della possibilità di una disapplicazione parziale, nei soli confronti di uno od alcuni dei destinatari del provvedimento. Per Cass. Civ., Sez. II, 13 giugno 1997, n. 5341, in Cons. St., 1997, 1577, “è improponibile, ai sensi dell’art. 4…, l’azione di spoglio di un bene – nella specie, sedime di un portico, di proprietà privata, soggetto a passaggio pubblico – la cui occupazione (con sedie e tavolini da bar) sia stata concessa ad un privato dal Comune, perché l’accoglimento della relativa domanda di reintegra implica la revoca, e non la mera disapplicazione – peraltro non consentita in sede possessoria – dell’atto amministrativo di concessione”. Cfr. anche Id., Sez. Un., 4 novembre 1994, n. 9129, in Foro amm., 1996, 801: “difetta la giurisdizione del giudice ordinario rispetto ad una controversia instaurata con domanda di provvedimento giudiziale d’urgenza, per ordinare al Comune di disapplicare la normativa nazionale, che si assume difforme rispetto a quella comunitaria, in tema di chiusura settimanale dei negozi”.
[30] Così A. Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, cit., 47. Numerose sono, infatti, le sentenze che si sono espresse in questo senso, al fine di accogliere o respingere un’istanza del privato ex art. 4. Vedi ad esempio Cass. Civ., Sez. Un., 3 giugno 1997, n. 4955, in Cons. St., 1997, II, 1561; Id., Sez. Un., 10 maggio 1996, n. 4397, in Cons. St., 1996, II, 1728; Id., Sez. Lav., 27 aprile 1987, n. 4063, in Giur. It., 1988, I, 1, 1398; Id., Sez. Un., 17 novembre 1984, n. 5841, in Giust. Civ., 1984; Id., Sez. Un., 27 gennaio 1981, n. 602, in Giust. Civ., 1981, I, 993; per Tar Lombardia, Sez. Brescia, 2 ottobre 1992 n. 1040, in I Tar, 1992, I, 4776, “il giudice ordinario è competente a dichiarare la nullità del contratto concluso in violazione di norme imperative, previa eventuale disapplicazione del sovrastante atto amministrativo di autorizzazione che non risulti già definitivamente caducato, nei suoi effetti, con sentenza del giudice amministrativo”. Per Cass., sez. I, 8 maggio 1998 n. 4683, in Rep. Gen. Giur. It., 1998, Competenza e giurisd. civ., 530, invece, “la disapplicazione…non è invocabile qualora la questione della illegittimità dell’atto venga, in realtà, proposta in via principale, come accade allorchè si intenda far derivare, dalla sussistenza del dedotto vizio, la lesione di un diritto”.
[31] In proposito vedi Cass., Sez. Lav., 7 gennaio 1981 n. 94, in Foro it., 1982, I, 794, ove si fa esplicito riferimento al potere di disapplicazione del giudice ordinario “sia nella forma della disapplicazione principale che in quella della disapplicazione occasionale incidenter tantum”. Vedi Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità, cit., 160-161, ove il collegamento fra le prime due parole dell’art. 5 e l’art. 4 viene inteso in maniera diversa, affermandovisi, con riferimento appunto agli atti illeciti, che “una disapplicazione in senso proprio, che possiamo denominare diretta, non è ammissibile: il giudice potrà disporre soltanto quei provvedimenti che riparino agli effetti dell’atto illecito, senza che in tal modo l’atto riesca formalmente eliminato e cessi dal produrre i proprii effetti dannosi, ai quali si pone rimedio mediante il risarcimento del danno”; in sostanza, secondo l’Autore, “nei confronti dell’Amministrazione, la sentenza di condanna si pone in primo luogo come disapplicazione, necessariamente indiretta, dell’atto amministrativo illecito”, raggiungendosi così “l’effetto di disapplicare l’atto nel caso concreto nei limiti consentiti dal sistema”.
[32] Cfr. Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 1999 n. 811, in Mass., 1999; Id., sez. II, 24 marzo 1998 n. 3085, in Giust. Civ., 1998, I, 3157; Id., Sez. Un., 4 ottobre 1996 n. 8688, in Foro it., 1997, I, 527; Id., Sez. Un, 15 luglio 1987 n. 6186, in Giur. It., 1988, I, 1, 144; Id., Sez. II, 18 giugno 1982, n. 3736, in Mass., 1982; Id., Sez. Un., 10 gennaio 1979 n. 148, in Giust. Civ., 1979, 75; Id., Sez. Un., 15 settembre 1977 n. 3985, in Foro amm., 1979, I, 322. Cfr. anche Casetta, op. cit., 674.
[33] Vedi ad es. Cass. Civ., Sez. Un., 24 luglio 1986 n. 4753, in Cons. St., 1986, II, 1688: “…la giurisdizione del giudice ordinario non trova deroghe per il fatto che tra le parti si discuta sulla conformità delle costruzioni alle concessioni edilizie ottenute…, anche se attraverso l’interpretazione e, in caso di illegittimità degli atti amministrativi, l’eventuale disapplicazione dei medesimi, ex art. 5…”. Vedi anche Id., Sez. II, 15 marzo 2001 n. 3771. Anche nei casi del primo tipo, tuttavia, si è affermato che, deducendo l’illegittimità dell’autorizzazione, si fa valere una lesione di interesse legittimo, e di conseguenza andrebbe ritenuto competente il giudice amministrativo e non il giudice ordinario, il quale non potrebbe mai sindacare,…neanche incidentalmente, al fine della sua disapplicazione, l’atto amministrativo in relazione ai vizi del procedimento o all’esistenza di quei presupposti la cui valutazione esige un apprezzamento discrezionale da parte dell’Autorità amministrativa: cfr. ad es. Cass., Sez. Un., 21 gennaio 1956, n. 184, in Foro amm., 1956, II, 1, 161. Come è stato poi notato da Cassarino, Atti amministrativi discrezionali e disapplicazione in giudizio, in nota a Cass. Sez. Un., 21 gennaio 1956, ivi, se si seguisse la posizione della Corte, secondo cui il giudice non potrebbe sindacare l’esistenza di presupposti discrezionali, si arriverebbe ad escludere quasi integralmente la rilevabilità del vizio di violazione di legge, ed inoltre si dovrebbe affermare quasi sempre l’incompetenza del giudice ordinario per il solo fatto dell’esistenza di un atto emanazione di un potere discrezionale. Considerazioni analoghe sono state espresse da Cannada-Bartoli, In tema di competenza dell’a.g.o. e di disapplicazione di atti amministrativi, anch’egli in nota a Cass., Sez. Un., 21 gennaio 1956, n. 184, ivi, 171, rilevando che quello di disapplicare, in una controversia fra privati, la deroga illegittima, “è un caso scolastico di disapplicazione”, e che tale fattispecie non può non rientrare “in ogni altro caso” previsto dall’art.5. Per Cass., Sez. lav., 17 marzo 1993 n. 3145, in Giust. civ., 1993, 511, “l’atto di iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti…non può costituire oggetto di sindacato in via incidentale…da parte del giudice ordinario al fine della sua eventuale disapplicazione…per asserita illegittimità dell’atto, atteso che l’iscrizione suddetta integra un atto amministrativo privo di margini di discrezionalità, rispetto al quale il giudice deve poter limitarsi unicamente a riscontrarne l’esistenza, senza poter porre in discussione lo status da essa derivante, che può venir meno soltanto a seguito di cancellazione da parte degli stessi organi professionali o di uno specifico accertamento giurisdizionale in via principale”. Nello stesso senso Id., Sez. lav., 13 settembre 1991 n. 9570, in Mass., 1991; Id., Sez. lav., 23 febbraio 1983 n. 1358, in Giust. Civ., 1984, I, 559.
[34] Così Cons. Stato, Sez. V, 24 ottobre 1996 n. 1273, in Cons. Stato, 1996, I, 1518. Sempre sul piano della doppia tutela vedi anche Cass. Civ., Sez. II, 18 agosto 1997 n. 7685, in Mass., 1997: “se un enfiteuta impugna dinanzi al giudice amministrativo la delibera del Comune concedente con la quale è stato unilateralmente rivalutato il canone (…) e agisce altresì dinanzi al pretore per la determinazione di esso (…), tra le due controversie non sussiste pregiudizialità ai sensi dell’art. 295 c.p.c. per la diversità di petitum delle due azioni; d’altro canto, se il pretore ritiene che tale delibera è illegittima, che incide sul diritto soggettivo in controversia, deve disapplicarla, ai sensi dell’art. 5…”. Ancora, si è affermato che, “in base al principio della c.d. <doppia tutela>, contro gli atti illegittimi della p.a. il cittadino può avvalersi di due distinti rimedi: sotto il profilo della lesione di un proprio interesse legittimo, l’impugnazione dell’atto generale o regolamentare della p.a. dinanzi al giudice amministrativo per ottenerne l’annullamento. In secondo luogo, anche senza aver esperito il rimedio ora indicato, il cittadino può chiedere la tutela dei propri diritti soggettivi dinanzi al giudice ordinario, impugnando gli atti applicativi del provvedimento generale e chiedendone la disapplicazione”: così Comm. centrale imposte, Sez. XXIV, 18 maggio 1982 n. 5026, in Bollettino trib., 1983, 1115. Per un esame della giurisprudenza sulla c.d. doppia tutela v. Falcone, L’edilizia, in Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, a cura di Falcone e Pozzi, Torino, II, 1998, 622. D’altra parte, le considerazioni esposte non sembra debbano essere rimesse in discussione dalla possibilità di ottenere dal giudice amministrativo il risarcimento del danno, prevista ora dall’art. 7 della L. n. 1034/71, come modificato dall’art. 7 della L. n. 205/2000, attenendo ciò solo a controversie con Amministrazioni.
[35] Così Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 178. Non condivisibile appare quindi la posizione di Tar Lazio, Sez. Roma, 12 luglio 1982 n. 738, in I Tar, 1982, I, 2361, in un caso in cui il giudice amministrativo ha negato la propria giurisdizione e affermato quella del giudice ordinario, asserendo che “la questione di legittimità di un provvedimento amministrativo, applicato da una delle parti di un contratto di diritto privato a fondamento di una pretesa di pagamento nei confronti dell’altra, non può essere dedotta dinanzi al giudice fornito di giurisdizione sul rapporto, ai fini della sua disapplicazione”. Esatte invece appaiono le considerazioni di Trib. Sup. acque pubbliche, 7 ottobre 1970 n. 8, in Cons. Stato, 1970, II, 956, secondo cui “i decreti di concessione vanno tempestivamente impugnati, ma, ove dai decreti stessi sorgano diritti, il giudice ordinario può disapplicarli, in sede di controversie attinenti ai rapporti interni fra i concessionari, nel caso che quei decreti si appalesino illegittimi per difetto delle condizioni legittimanti la loro emanazione”. Esattamente, ancora, si sono talvolta individuati i termini della questione, affermandosi che “in una controversia fra privati…la situazione di diritto soggettivo dedotta può trovare piena tutela o attraverso la disapplicazione dell’atto amministrativo, invocato a fondamento della pretesa o della difesa di una delle parti, in conseguenza dell’accertamento incidentale della sua illegittimità, o attraverso la constatazione della estraneità dell’atto medesimo al rapporto fra i contendenti”: così Cass., Sez. Un., 23 maggio 1980 n. 3397, in Giust. Civ. Mass., 1980. Del resto, sono numerose le pronunce che non hanno dubbi nell’affermare che “il giudice ordinario, in ogni caso in cui il diritto fatto valere in giudizio trovi la sua fonte, diretta o indiretta, in un atto amministrativo, ha l’obbligo di verificarne, incidenter tantum, la legittimità e di pronunciare la disapplicazione dell’atto stesso, ove ne accerti l’illegittimità”: vedi, in questi termini, Cass. civ., Sez. lav., 11 luglio 1981 n. 4526, in Giust. Civ., Mass., 1981. Per Cass. civ., sez. I, 28 ottobre 1998, n. 10745, in Mass., 1998, “il potere del giudice ordinario di disapplicazione dell’atto amministrativo sussiste, ed è legittimamente esercitato, tutte le volte in cui tale atto incida su materie nelle quali si fa questione di diritti soggettivi”. Cfr. anche Id., Sez. Un., 12 marzo 1993 n. 3013, in Giust. Civ., 1993, 487; Id., Sez. Un., 8 agosto 1991 n. 8636, in Giust. Civ., 1992, I, 85; Id., Sez. III, 21 marzo 1985 n. 2066, in Giur. It., 1986, I, 1, 157; Tar Lazio, Sez. III, 12 luglio 1982 n. 738, in I Tar, 1982, I, 2361.
[36] Cfr. Cass., Sez. Un., 11 marzo 1992 n. 2957, in Cons. St., 1992, II, 1309, secondo cui “in caso di domanda risarcitoria verso la p.A., per asserita lesione di un diritto soggettivo costituito per effetto di un provvedimento amministrativo…, la contestazione della legittimità di tale atto da parte della stessa p.A., che ne invochi la disapplicazione, non mirando a far valere, in positivo, la precedente posizione di interesse legittimo, bensì soltanto, in negativo, la insussistenza del diritto soggettivo di cui sia stato chiesto il risarcimento, si pone come mera eccezione dagli effetti limitati alla proposta domanda e conoscibile, come tale, dal giudice ordinario”. Per Cass. civ., sez. I, 14 maggio 1998 n. 4854, in Giust. Civ., 1999, I, 200, “…nel giudizio intrapreso dal privato per lamentare l’illegittima compressione di un diritto che ha avuto piena espansione per effetto di un provvedimento amministrativo non può essere disposta la disapplicazione di quel provvedimento, su richiesta dell’amministrazione che vi ha dato causa, tenuto presente che, diversamente argomentando, tale disapplicazione verrebbe, in realtà, compiuta in odio al diritto soggettivo e giungerebbe a premiare la scorrettezza dell’amministrazione” (nella specie, annullata una concessione edilizia con provvedimento riconosciuto illegittimo per motivi formali dai giudici amministrativi, il privato agiva per il risarcimento dei danni ed al fine di resistere a quest’ultima pretesa la p.a. invocava la disapplicazione della originaria concessione).
[37] Così Menestrina, La pregiudiciale nel processo civile, rist., Milano, 1963, 130.
[38] Così Cass. civ., Sez. I, 12 novembre 1992, n. 12182, in Cons. St., 1993, II, 487. Nello stesso senso, Id., Sez. Lav., 14 febbraio 1997 n. 1345, in Lavoro nella Giur., 1997, 956; Id., Sez. Un., 23 novembre 1995 n. 12104, in Cons. St., 1996, II, 700; Id., Sez. lav., 12 agosto 1993 n. 8658, in Giust. civ., 1993, 1282; Id., Sez. Lav., 13 marzo 1992, n.3102, in Cons. St., 1992, II, 1314; Id., Sez. Un., 21 novembre 1983 n. 6916, in Giur. It., 1987, I, 1, 1150; Id., Sez. Un., 31 marzo 1978 n. 1480, in Foro it., 1979, I, 785. Vedi inoltre Id., Sez. Un., 11 luglio 1955 n. 2194, in Foro amm., 1956, II, 1, 18, ove si trova sostenuto che “presupposto della disapplicazione, occasionale o principale, da parte del giudice ordinario è sempre ed in ogni caso che si controverta dell’esistenza di un diritto soggettivo, trovando il principio dell’art.5…il suo necessario limite nel principio dell’art.2, nel quale va inquadrato”.
[39] In nota a Cass., Sez. Un., 11 luglio 1955, cit., in Foro amm., 1956, II, 1,18.
[40] In termini analoghi vedi, più di recente, Mazzarolli, Ragioni e peculiarità del sistema italiano di giustizia amministrativa, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, pericu, a. romano, roversi monaco, scoca, Bologna, 1998, 1471, nonché travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, 123.
[41] Recenti interpretazioni dell’art. 5 della legge sul contenzioso amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 342.
[42] Analogamente Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti della pubblica Amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1955, 940. Vedi anche Menestrina, op. cit., 154, secondo il quale “strano è piuttosto che in parte della letteratura si neghi al giudice la facoltà di decidere incidenter ciò che non potrebbe principaliter, mentre, all’opposto, incidenter vengono persino decise tali cose sulle quali non può aversi principaliter la decisione di alcuna autorità dello Stato”. Lo stesso Romano, però, La disapplicazione del provvedimento amministrativo, cit., 46, pur valutando positivamente l’ormai affermata estensione del sindacato del giudice civile agli atti semplicemente illegittimi, evidenzia tuttavia che “al sistema di tutela giurisdizionale delineato nella legge abolitrice del contenzioso amministrativo,…era estranea l’idea che il giudice ordinario potesse disapplicare non solo i provvedimenti amministrativi che ora si direbbero illeciti, ma anche quelli che ora si direbbero illegittimi” (per ciò che concerne la distinzione tra norme di esistenza e norme di esercizio del potere, come ulteriore sviluppo della distinzione guicciardiana tra norme di relazione e norme di azione, vedi, sempre di Romano, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, passim). Anche Piccardi, Sulla disapplicazione degli atti amministrativi, in Riv. amm., 1968, 678, ritiene che “la riforma dell’89, qualificando come illegittimi atti amministrativi che in precedenza non erano considerati tali, non abbia ampliato il potere attribuito al giudice ordinario dall’art.5 della legge sul contenzioso amministrativo”. Nel senso della rilevabilità da parte del giudice ordinario, a fini disapplicativi, del vizio di eccesso di potere – in base alla considerazione che tale controllo non comporta “l’esame delle ragioni di opportunità e di merito (…), bensì l’accertamento circa il rispetto di quei criteri generali ed astratti che debbono presiedere all’esercizio dei poteri peculiari della P.A.” – vedi Cass. Civ., Sez. Un., 26 maggio 1997 n. 4670, in Foro it., 1997, I, 2081; Id., Sez. III, 3 ottobre 1996, n. 8653, in Cons. St., 1997, II, 256. Nel senso che nelle controversie tra privati il giudice civile possa conoscere di posizioni di interesse legittimo, vedi, fra tutti, Giannini e Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica Amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 293 s.s. Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1998 n. 1789, in I Tar, 1998, II, 1104. Id., Sez. Un., 19 gennaio 1954, n. 101, in Giust. civ., 1954, I, 72, afferma esplicitamente il potere del giudice ordinario di disapplicare, ai sensi dell’art.5 della legge sul contenzioso amministrativo, gli atti amministrativi soggetti ad annullamento da parte del Consiglio di Stato. Per Id., Sez. Un., 10 marzo 1997 n. 2131, in Foro it., 1997, I, 1842, “nella controversia fra il locatore ed il conduttore per la determinazione dell’equo canone,…il giudice ordinario può disapplicare, ove lo ritenga non conforme a legge, l’atto di classamento dell’unità immobiliare operato dalle autorità amministrative, e determinare in via incidentale, e al limitato fine del computo del canone locativo, nella specifica controversia sottoposta al suo esame, la categoria catastale da attribuire a quelle unità”. In termini analoghi, sullo stesso argomento, Id., sez. un., 25 novembre 1998 n. 11938, in Arch. Locazioni, 1999, 259; Id., sez. un., 23 gennaio 1998 n. 652, in Riv. Giur. Edil., 1998, I, 1167; Id., Sez. III, 7 aprile 1987 n. 3364, in Giust. Civ., 1987; Id., Sez. Un., 17 novembre 1984 n. 5843, in Arch. Locazioni, 1985, 57.
[43] In Foro it., 1999, I, 3201.
[44] Così Varrone, Giurisdizione amministrativa e tutela risarcitoria, in Verso il nuovo processo amministrativo (commento alla legge 21 luglio 2000 n. 205, a cura di Vincenzo Cerulli Irelli), Torino, 2000, 77.
[45] Vedi Cannada-Bartoli, Relazione al convegno “La tutela risarcitoria delle situazioni soggettive alla luce della sentenza della Cassazione SS.UU. n. 500/99” (Roma, Università di Roma 3, 16 novembre 1999), in Rivista giuridica quadrimestrale dei pubblici servizi, 2000, 1, 18, a proposito del fatto che la necessità di precisare che “sacrificio non vuole dire lesione” è “questione di ordine generale e che non si avvia a soluzione, distinguendo gli interessi pretensivi da quelli oppositivi: uno dei due aggettivi è superfluo, perché si può utilizzare il primo e dire che si può pretendere che qualcosa accada o non accada; ci si può avvalere del secondo per opporsi a che qualcosa accada o non accada. Si nega la distinzione in quanto sembri distinguere re e non verbis, due specie di interesse legittimo con un poco chiaro passaggio dal contenuto all’aspetto formale”. Cfr. anche f. francario, Intervento al convegno “La tutela risarcitoria delle situazioni soggettive alla luce della sentenza della Cassazione SS.UU. n. 500/99”, cit., ivi, 44-45, secondo cui la risarcibilità non può dipendere dal tipo di vizio, dalla sua gravità. Né può continuare a dipendere dalla natura della situazione giuridica soggettiva,…distinguendo astrattamente tra interessi pretensivi ed oppositivi; distinzione che evoca quella tra diritti di credito e reali o assoluti e non aiuta a risolvere il problema della risarcibilità, perchè pone nuovamente in primo piano la situazione soggettiva”.
[46] In casi del genere, infatti, “può essere disapplicato anche il rifiuto di compiere un atto vincolato, giacchè, dal punto di vista giuridico, non v’è alcuna apprezzabile differenza fra il considerare non avvenuto ciò che è effettivamente accaduto e il reputare che abbia avuto luogo ciò che in realtà non è avvenuto, ma doveva avvenire; in entrambi i casi si considera irrilevante un comportamento che giuridicamente esiste; la diversità delle conseguenze dipende dalla particolare natura, commissiva o omissiva, del comportamento che, ritenuto illegittimo, viene disapplicato”: così cannada-bartoli, L’inapplicabilità, cit., 182.
[47] Come è stato precisato in giurisprudenza – in materia di opposizione avverso ordinanza-ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa – “l’indagine del giudice ordinario sulla legittimità del provvedimento…, al fine della sua eventuale disapplicazione…, è consentita in presenza di un diritto soggettivo, su cui abbia inciso il provvedimento medesimo, e pertanto, in tema di autorizzazione all’attività di commercio, non può riguardare il mancato rilascio (od il rilascio parziale) di essa, in quanto tale autorizzazione è condizione per l’insorgenza del diritto all’esercizio di quell’attività, dimodochè, a fronte del suo rifiuto, il privato è titolare di una posizione di mero interesse legittimo, tutelabile davanti al giudice amministrativo”: Cass. Civ., Sez. Un., 15 gennaio 1992 n. 402, in Discipl. Comm., 1992, 201. Per Fracchia, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema corte lascia aperti alcuni interrogativi (nota a Cass. Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500), in Foro it., 1999, I, 3219, “l’istituto della disapplicazione…si rivela…non soddisfacente nell’ipotesi di lesione di interesse pretensivo, nel senso che qui la lesione deriva non tanto dall’eventuale atto (di diniego), bensì dalla mancata adozione di un atto a contenuto favorevole per il cittadino, che il giudice deve in qualche misura <<ricostruire>>”. Inoltre, pur rilevando che solo con qualche forzatura potrebbe ritenersi che così facendo il giudice si muova pur sempre nei limiti dell’art. 5, precisa che “il campo di applicazione della norma, significativamente formulata in positivo (…) potrebbe cioè venire esteso fino a ricomprendere il caso in cui l’atto <<applicato>> in giudizio non sia quello emanato dall’amministrazione, bensì quello che, ai fini della configurabilità del danno ingiusto, il giudice ipotizza in quanto <<conforme alla legge>> sulla base di una prognosi postuma”. Di conseguenza, “l’atto al quale si riferisce l’art. 5…potrebbe dunque non essere il medesimo di quello richiamato nell’art. 2…”.
[48] Così Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, cit., 186. Nello stesso senso A. Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, cit., 47.
[49] Cfr. La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958, 19.
[50] Fermo restando che “pregiudiciali alla sentenza non sono che quei giudizi su cui la sentenza effettivamente si basa come su precedenti logici. Prima d’arrivare alla sentenza non si può conoscere la serie sillogistica da cui essa scaturirà, né si può dunque proclamare ciò che sarà e ciò che non sarà pregiudiciale; la sfera della pregiudicialità apparisce solo dalla motivazione della sentenza, dato che essa ci sia e risulti completa”. Menestrina, La pregiudiciale nel processo civile, cit., 110.
[51] Menestrina, op. cit., 100, 103. Per una analoga distinzione “tra pregiudizialità meramente logica e pregiudizialità giuridica” v. Montesano, Questioni e cause pregiudiziali nella cognizione ordinaria del codice di procedura civile, in Riv. dir. proc., 1988, 303 ss. V. Verde, Brevi considerazioni su cognizione incidentale e pregiudizialità, in Riv. dir. proc., 1989, 179, secondo cui “c’è anche da valutare con attenzione dove finisca…l’oggetto del giudizio e dove cominci la pregiudizialità (anche perché il tema si collega a quello, assai delicato, del giudicato implicito)”. Dello stesso Autore, v. anche Rimozione degli atti amministrativi ed effettività della tutela, in Riv. dir. proc., 1984, 48: “le incertezze derivano dall’inesistenza di un metro obiettivo in base al quale possiamo stabilire dove è che finisce il merito della controversia e dove ha inizio la serie dei punti o delle questioni pregiudiziali”.
[52] V. inoltre Jaeger, Annullamento e disapplicazione di atti amministrativi illegittimi, in nota a Cons. St., Sez. V, 14 febbraio 1941, n. 93, in Giur. it., 1942, III, 17, secondo cui deve intendersi per “questione” ogni punto dubbio, di fatto o di diritto, “la cui soluzione (…) costituisce un antecedente logico della decisione della controversia”, con effetti limitati entro il corso del processo in cui sorge. Menestrina, invece, op. cit., 139, distingue tra “punti” e “questioni” pregiudiciali, precisando, in nota 4, di ritenere “un controsenso parlare di una decisione del punto pregiudiciale”, perché “il punto pregiudiciale è…il precedente logico su cui le parti non sollevano una controversia…o su cui la controversia è già stata risolta”. Mentre invece “unico scopo della questione pregiudiciale è di fissare entro la cerchia del pendente processo un punto pregiudiciale, su cui le parti sono discordi; essa presuppone dunque la contestazione d’un punto pregiudiciale che è stato proposto da una parte al ragionamento del giudice. Da ciò deriva che la questione non può sorgere che posteriormente al sorgere del processo (donde l’appellativo di incidentale)…”. V. anche F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, 15, secondo il quale “si potrebbe parlare…di <questione incidentale> in un senso più ristretto dell’espressione, volto ad individuare questioni che cadono tra la domanda e la pronuncia giurisdizionale, non riconducibili nel genus delle questioni pregiudiziali o di quelle preliminari. Positivamente, tali questioni sarebbero caratterizzate, oltre che dalla possibilità di sorgere solo nel corso del processo (e dal non poter quindi costituire oggetto di giudizio autonomo), dal carattere meramente eventuale, connesso al nascere direttamente come questione, e non già per trasformazione di un punto, che deve essere necessariamente affrontato prima di giungere alla decisione finale, in questione”.
[53] V. Montesano, op. ult. cit., 302. Sempre Montesano – In tema di accertamento incidentale e di limiti del giudicato, in Riv. Dir. proc., 1951, 335 ss., 340 ss. – ha contestato che l’accertamento sull’esistenza del rapporto giuridico che si pone in contrasto con quello per cui è sorto il processo possa acquistare autorità di giudicato, solo perché l’esistenza di una tale situazione abbia formato oggetto di controversia tra le parti, essendo necessario non soltanto che “l’accertamento del rapporto controverso venga dedotto espressamente nelle conclusioni”, ma anche che la contestazione corrisponda “ad una pretesa diversa da quella originariamente fatta valere dall’attore”. Per un esempio specifico v., dello stesso Autore, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato di diritto civile italiano, XIV, 4, Torino, 1994, 135. V. poi Menestrina, op. cit., 198, in nota 117: “anche la riconvenzione che si riferisce a un rapporto giuridico da cui dipende logicamente la pretesa fatta valere col processo principale, è una pregiudiciale incidentale. Ma ciò non toglie che il legislatore possa dar vita a un altro istituto, cioè a una azione incidentale per eccellenza, che in quanto è messa a disposizione del convenuto concorre di solito con la riconvenzione, ma che – nei suoi presupposti, come nello svolgimento – ha costantemente di mira la pregiudicialità, la quale invece nella riconvenzione è cosa fortuita”. Cfr. inoltre Cass. Civ., sez. II, 11 marzo 1997 n. 2175, in Riv. arbitrato, 1997, 547: “l’accertamento meramente incidentale è solo quello che si riferisce ad un punto o ad una questione pregiudiziale costituente esclusivamente un presupposto logico della decisione della controversia, da verificare ed accertare senza efficacia di giudicato ed in nessun caso, quindi, può essere considerato tale quando verte su una questione che, per quanto logicamente strumentale alla decisione di una domanda, sia stata anche oggetto di una domanda autonomamente proposta per il soddisfacimento di uno specifico e diverso interesse di parte e sulla quale, quindi, per il principio dell’art. 112 c.p.c., il giudice aveva, comunque, il dovere di pronunciarsi”.
[54] Così Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II, rist., Napoli, 1945, 359. Secondo Montesano, op. ult. cit., 306, una cognizione incidenter delle questioni pregiudiziali sarebbe una soluzione di dubbia costituzionalità, perché limiterebbe il diritto alla difesa dei soggetti che siano parti del giudizio principale, con la conseguenza concettuale che “questione pregiudiziale <trasformabile> in accertamento incidentale” si avrebbe ogniqualvolta “la fattispecie, che ne è oggetto, produce un effetto condizionante o concorrente a condizionare,…quello dedotto con l’originaria domanda”. Ciò che rende però tale impostazione contraddittoria è il ritenere che la soluzione della questione pregiudiziale passi in giudicato, quando nella stessa pagina si afferma invece che le questioni pregiudiziali sono decise di regola senza effetti di cosa giudicata. Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 236, concorda appieno con la valutazione di Montesano, “sempre se intesa nel senso che la garanzia costituzionale del diritto di azione…riguardi l’azione volta a dedurre gli altri diritti nascenti dal rapporto fondamentale; non già l’<<azione>> relativa a quest’ultimo, che effetto giuridico non può ritenersi (…) e che soggiace…al principio dispositivo nella sola accezione processuale, ex art. 112 c.p.c., non già anche, e prima, nella sua accezione sostanziale sostanziale-costituzionale di garanzia dell’azione ex artt. 2908 c.c. e 24 Cost.”. C’è da dire tra l’altro che se si accogliesse la tesi per cui l’accertamento incidenter tantum è superficiale ed approssimato, mentre solo la cognizione principaliter è piena, definitiva ed esauriente, “dovremmo pervenire alla conclusione che le parti hanno il diritto di trasformare tutte le questioni incidentali in accertamenti autonomi”, mentre invece “tra la cognizione incidentale e quella principaliter non vi è una differenza qualitativa”, essendo entrambe “esaustive sul piano del diritto di difesa costituzionalmente protetto”, e “l’unica differenza è sul piano degli effetti, giacché soltanto la cognizione in via principale è in grado di sfociare in un provvedimento suscettibile di passare in giudicato (sostanziale)”: così Verde, Brevi considerazioni su cognizione incidentale e pregiudizialità, cit., 175 ss.
[55] Così Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, cit., 47. Vedi tutta la giurisprudenza citata in nota 30. Contra, Stella Richter, Sui limiti dei poteri del giudice ordinario, in Giust. Civ., 1964, I, 1198, in base al rilievo che, nei casi in cui si ravvisi una carenza di potere, poiché l’atto, nullo o inesistente, manca di qualsiasi effetto, il potere di disapplicazione non viene proprio in rilievo, e si ha piuttosto un accertamento principaliter dell’inesistenza del potere. Come rilevato da Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e disapplicazione dell’atto amministrativo invalido, in Jus, 1983, 181, però, in tal modo il giudice ordinario trattiene a sè le controversie nelle quali il diritto risulti leso da un atto nullo dell’amministrazione, e la disapplicazione si dissolve nella constatazione dell’inesistenza dell’atto amministrativo, “e dunque, se si vuole dar un senso all’istituto, come mera affermazione della giurisdizione”. “Per il che”, come precisato da Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 18 maggio 1972 n.337, in Foro it., 1972, III, 425, non occorreva una norma appositamente autorizzativa”.
[56] “Può ritenersi formato un giudicato implicito tutte le volte in cui tra la questione risolta espressamente e quella risolta implicitamente sussista un rapporto indissolubile di dipendenza, nel senso che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cade su questioni che si presentano come la necessaria premessa o il presupposto logico e giuridico della decisione”: Cass. civ., sez. I, 29 maggio 1999 n. 5263, in Mass., 1999.
[57] Non sembra pertanto condivisibile la conclusione di Varrone, op. cit., 78 – legata alla considerazione, già criticata, che “alla logica risarcitoria è del tutto estraneo l’istituto della disapplicazione” – secondo cui “la sopravvivenza del provvedimento, una volta scaduti i termini per la sua impugnazione, resta perciò affidata unicamente alla discrezionale valutazione dell’amministrazione che, in via di autotutela, potrà procedere alla sua eliminazione, ove ricorrano tutti i presupposti che condizionano, come è noto, il corretto esercizio di tale potere”. Anche perché, come si preciserà fra breve, l’inoppugnabilità non costituisce un limite alla disapplicazione. Per gli stessi motivi esposti nel testo, non può condividersi neppure quanto sostenuto da De Roberto, Relazione al convegno “La tutela risarcitoria delle situazioni soggettive alla luce della sentenza della Cassazione SS.UU. n. 500/99”, ivi, 13, laddove precisa, con riferimento al venir meno della regola della pregiudizialità del processo amministrativo, che “l’antico itinerario (impugnativa innanzi al giudice amministrativo e, poi, risarcimento innanzi al g.o.) va battuto, invece, ove il ricorrente confidi, non soltanto sulla pronuncia di condanna del giudice ordinario, ma anche sugli effetti che discendono dalla sentenza del giudice amministrativo”.
[58] Fracchia, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema corte lascia aperti alcuni interrogativi, cit., 3217. Concorde Caranta, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità, in nota a Cass. Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500, in Foro it., 1999, I, 3210. Per Corso, Intervento al convegno “La tutela risarcitoria delle situazioni soggettive alla luce della sentenza della Cassazione SS.UU. n. 500/99”, cit., ivi, 49, “se il risarcimento non è più mediato dall’annullamento dell’atto da parte del giudice amministrativo (…) non si vede come, fra le due situazioni, possa essere prospettata una distinzione: così che la prima venga qualificata diritto soggettivo e la seconda interesse legittimo”.
[59] Cfr. T.A.R. Puglia, Sez. I Lecce, Decreto presidenziale 2 marzo 2001 n. 513, in Giustizia amministrativa, www.giust.it, n. 3/2001: “rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la domanda del privato ex art. 703 c.p.c. di reintegrazione e manutenzione nel possesso di bene occupato senza titolo dalla P.A. nel contesto della esecuzione di lavori pubblici, atteso che appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo, fra le altre, le controversie in materia di “esecuzione” di opere pubbliche nonchè quelle relative alle occupazioni delle aree destinate alle predette opere (art. 4 L. 21.7.2000 n. 205) e che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, fra le altre, le controversie aventi ad oggetto i “comportamenti” della P.A. in materia urbanistica ed edilizia, intesa come materia concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio (art. 7 L. n. 205/2000)”. In termini analoghi Cons. St., Sez. V, ord. 6 marzo 2001, in Giustizia amministrativa, www.giust.it, n. 3/2001. Cass. civ., Sez. Un. (ord.), 25 maggio 2000 n. 43, in Giur. It., 2000, 1494, dichiara che “non è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale del citato art. 34, in relazione all’art. 76 Cost., per eccesso di delega conferita dall’art. 11, comma 4, lett. g) della l. n. 59 del 1997, nella parte in cui sottrae al giudice ordinario e devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa le cause su diritti soggettivi connessi a comportamenti materiali della p.a. in procedure espropriative finalizzate alla gestione del territorio”.
[60] Questo ovviamente in sede di giurisdizione generale di legittimità, perché in sede di giurisdizione esclusiva – dove peraltro, in assenza di atti autoritativi, è da tener conto dei termini di prescrizione – un atto da impugnare può anche mancare. E d’altra parte, per tali materie, l’art. 35, 1° comma, si limita a disporre che “il giudice amministrativo…dispone…il risarcimento del danno ingiusto”, senza alcun riferimento ai “diritti patrimoniali consequenziali”.
[61] In questo senso Casetta, op. cit., 600, il quale non nega comunque “il rischio che, facendosi dipendere l’individuazione del giudice dalla prospettazione della questione effettuata da chi agisce in giudizio, si abbia la riviviscenza della vecchia teoria del petitum”.
[62] Secondo sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche (una introduzione), Bologna, 2000, 395, “ci sarebbe da domandarsi se ci siano davvero ragioni indefettibili che giustifichino ancora le complicazioni ineliminabili di una netta distinzione fra una giurisdizione ordinaria ed una giurisdizione amministrativa, soprattutto considerando che tendono a scomparire del tutto le differenze tra i poteri delle due giurisdizioni”.
[63] Nella sentenza 500/99 la Cassazione non affronta il problema se la mancata tempestiva proposizione dell’impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa possa incidere sul quantum risarcibile, ex art. 1227, 2° comma, c.c.; tuttavia, come rilevato da Caranta, lc. cit., “la risposta pare in ogni caso dover essere negativa, potendosi applicare anche in questo caso l’insegnamento secondo il quale tale disposizione non impone al creditore di affrontare iniziative gravose quali azioni giudiziarie”. Contra, Varrone, op. cit., 86, secondo cui “più è macroscopica la colpa della P.A. ai fini della produzione del danno al privato, più si aggrava per costui l’obbligo di cooperazione, ai sensi tanto dell’art. 1227 c.c., che dell’art. 2056 c.c. in materia di responsabilità extracontrattuale, per evitare le temute conseguenze dannose a suo carico. Esso non può non comportare tra l’altro la necessità di adire prontamente il giudice amministrativo per ottenere la sospensione degli effetti del provvedimento che, a suo giudizio, oltre che illegittimo è idoneo a produrre un danno patrimonialmente rilevante”. Tuttavia, anche secondo tale impostazione, a carico dell’interessato un onere di impugnazione sarebbe configurabile solo per la quantificazione del danno, lasciando aperta la possibilità di rivolgersi al giudice ordinario. Oltretutto, bisogna rilevare, la possibilità di ridurre il danno con l’impugnazione sarebbe riferibile solo a provvedimenti con effetti lesivi permanenti, e non anche a quelli con effetti istantanei.
[64] In questi termini romano tassone, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in Giustizia amministrativa, www.giust.it n. 3/2001. Come precisa l’Autore, “il risarcimento per equivalente…può ovviamente concorrere con la tutela d’annullamento al fine di colmare le eventuali lacune del meccanismo ripristinatorio, ma può anche presentarsi come alternativo rispetto ad essa. …Così come esistono…pretese adeguatamente tutelabili attraverso il solo annullamento, e non in via risarcitoria, esistono del pari situazioni di interesse protetto rispetto alle quali…la tutela risarcitoria si rivela del tutto satisfattiva. Annullamento e risarcimento possono infine esser offerti entrambi, ora sulla base della libera scelta dell’interessato (che può determinare in piena autonomia quale tutela maggiormente gli convenga), ora secondo il modello tradizionale discendente dal rapporto (non più immancabile) di pregiudizialità amministrativa”.
[65] Cfr. T.A.R. Sicilia, sez. I Catania, 18 gennaio 2000 n. 38, in Foro it., 2000, III, 196, secondo cui, in caso di annullamento del diniego di approvazione di un piano di lottizzazione, il risarcimento in forma specifica è precluso dalla adozione di un nuovo piano regolatore che non consenta l’attuazione del piano. Per varrone, op. cit., 76, “la conservazione del provvedimento illegittimo è perfettamente compatibile con il risarcimento del danno per equivalente, come può essere dimostrato dal fatto che, ad esempio, nel caso di aggiudicazione illegittima della gara di appalto, se il giudice amministrativo competente ritiene meno gravoso per l’amministrazione il risarcimento per equivalente,…dall’accoglimento della domanda…non deriverà anche l’annullamento del provvedimento impugnato, ma la sua conservazione, essendo stato altrimenti soddisfatto il danno subito…”. Tale aspetto, però, sembra attenere più ai poteri del giudice che agli oneri configurabili in capo al privato. In questo genere di fattispecie, nel presupposto che il giudice amministrativo non possa annullare il contratto e che l’annullamento dell’aggiudicazione non travolga il contratto stesso (cfr. T.A.R. Lombardia, sez. III Milano, 23 dicembre 1999 n. 5049, in Foro it., 2000, III, 198), in tutti i casi in cui lo stesso giudice condanni però l’Amministrazione ad aggiudicare l’appalto al ricorrente anche in presenza di contratto già stipulato con l’aggiudicatario (cfr. T.A.R. Veneto, sez. I, 9 febbraio 1999 n. 119, in I T.A.R., 1999, I, 1351; T.A.R. Valle d’Aosta, 18 febbraio 2000 n. 2, in Foro it., 2000, III, 480; contra T.A.R. Toscana, sez. I, 21 ottobre 1999 n. 766, in Foro it., 2000, III, 199), è da ritenere che l’Amministrazione debba comunque ottemperare (Cons. St., sez. V, ord. 20 febbraio 2001, in Giustizia amministrativa, www.giust.it, n. 3/2001, afferma che, dopo l’accoglimento della domanda di sospensione, non è possibile la prosecuzione del servizio con l’aggiudicatario), potendosi tutt’al più rivolgere per l’annullamento del contratto, ex art. 1441 cod. civ., al giudice ordinario, facendo valere una risoluzione del contratto per impossibilità (giuridica) sopravvenuta della prestazione. In questo senso cfr. varrone, op. cit., 82-83, nonché carrozza-fracchia, Art. 35 d. leg. 80/98 e risarcibilità degli <<interessi meritevoli di tutela>>: prime applicazioni giurisprudenziali, in Foro it., 2000, III, 206, i quali sottolineano come, “in tal guisa, si ripropone una situazione in cui la piena reintegrazione dell’ordine violato presuppone pur sempre l’intervento di due giudici diversi”.
[66] Per T.A.R. Campania, sez. I Napoli, 21 febbraio 2001, in Giustizia amministrativa, www.giust.it, n. 3/2001, “rientra nella giurisdizione dell’AGO una controversia relativa alla risoluzione di un contratto di appalto, anche se riguardante la materia dei servizi pubblici”. Così pure T.A.R. Parma, sez. I, ord.za 9 gennaio 2001 n. 11, in Italedi on line, www.giurisprudenza.it/defaultit.asp. T.A.R. Milano, Sez. III, 15 febbraio 2001 n. 1083, in Italedi on line, www.giurisprudenza.it/defaultit.asp, precisa che “in materia di contratti della Pubblica amministrazione, con particolare riferimento all’appalto di opere pubbliche, anche dopo l’entrata in vigore della L. 21 luglio 2000 n. 205, esulano dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie nelle quali venga in considerazione lo svolgimento (e quindi non l’affidamento) del rapporto contrattuale”. Vedi T.A.R. Lombardia, sez. I Milano, 8 marzo 2001 n. 2112, in Italedi on line, www.giurisprudenza.it/defaultit.asp: “rientrano nella cognizione del giudice amministrativo i ricorsi proposti contro i regolamenti e gli atti amministrativi aventi natura di atto generale,…con i quali viene istituita o modificata una tassa, una tariffa o un’imposta, mentre rientrano nella giurisdizione dell’A.G.O. gli atti impositivi plurimi che attengono alla fase di applicazione del tributo”. Cfr. anche Cons. St., sez. V, 11 maggio 1998 n. 544, in Cons. St., 1998, I, 855. In tutti i casi poi in cui un atto da impugnare manchi, perché sia stato illegittimamente omesso e l’interessato abbia formalizzato la procedura del c.d. silenzio inadempimento, facendo quindi valere un interesse c.d. pretensivo, travi, op. cit., 204, sottolinea il fatto che nonostante l’azione abbia, “per certi profili, un carattere preventivo”, perché “non viene impugnato un provvedimento e non è intervenuto alcun provvedimento che possa ledere l’interesse del cittadino”, la giurisprudenza rilevi comunque la lesione di un interesse legittimo, nel senso di configurare la tutela nei confronti del silenzio “come una forma di tutela successiva, che pone rimedio a una lesione già intervenuta”. Se ciò conduce all’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo, tuttavia l’applicazione dei principi della sentenza 500/99 potrebbe comportare anche in quella sede la risarcibilità del danno eventualmente subito, in tutti i casi in cui sussistano i requisiti specificati dalla Cassazione. Considerazioni analoghe potrebbero valere in quei casi in cui l’interessato ritenga di avere subito un danno dal ritardo nell’emanazione dell’atto.
[67] In questi termini Giannini, Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 189. V. Lugo, La dichiarazione incidentale d’inefficacia dell’atto amministrativo, in Scritti giuridici in memoria di P. Calamandrei, V, Padova, 1958, 59, nonché Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 1958, 330, a proposito di un presunto consolidamento dell’atto. Cfr. anche Piccardi, Sulla disapplicazione degli atti amministrativi, cit., 684. V. poi anche Jaeger, op. cit., 22, secondo cui, “in questo caso, l’acquiescenza dell’interessato fa…venir meno la rilevabilità del vizio dell’atto, o meglio neutralizza questo vizio”, con la conseguenza “di rendere l’atto conforme alla volontà della legge”. A parte il fatto che un atto illegittimo non può certo diventare “conforme alla volontà della legge” semplicemente a seguito di un inutile decorso di termini, c’è da dire, come precisa Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, cit., 710, che l’acquiescenza “consiste in manifestazioni espresse o tacite che rivelano, in chi potrebbe essere interessato alla caducazione dell’atto invalido, l’accettazione volontaria e spontanea delle conseguenze dell’atto”, operando cioè, a differenza dell’inoppugnabilità, “sia sul piano sostanziale che su quello giustiziale”. Sul punto cfr. anche Domenichelli, Il processo amministrativo, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, pericu, a. romano, roversi monaco, scoca, Bologna, 1998, 1859, il quale precisa, sugli stessi presupposti, che “l’acquiescenza è invero una rinuncia preventiva al ricorso”. Al contrario dell’acquiescenza, quindi, l’inoppugnabilità non preclude l’esperibilità di altri rimedi, come ad esempio il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Per Stella Richter, L’inoppugnabilità, Milano, 1970, 20, il considerare l’inoppugnabilità come una caratteristica direttamente attribuibile all’atto come tale è da considerare assolutamente inammissibile. Da Jaeger, lc. cit., è stata posta un’analogia tra inoppugnabilità e cosa giudicata, perché l’atto inoppugnabile, “che avrebbe potuto essere impugnato come illegittimo, deve essere considerato come (già giudicato) legittimo”. Tale analogia è stata prospettata anche da Stella Richter, op. cit., 35, il quale chiarisce però in nota che “il riferimento…alla cosa giudicata sostanziale va inteso solo come parallelo, per chiarire che l’indagine dovrà essere orientata non più verso l’irrevocabilità dell’atto, ma…verso l’incontestabilità degli effetti dello stesso”. E ciò per la dovuta ammissione che non può ulteriormente essere posto in discussione “che il concetto della cosa giudicata sia caratteristico ed esclusivo della giurisdizione, e non applicabile agli atti amministrativi”.
[68] “In questo senso deve essere intesa la affermazione comune che la esecutorietà degli atti amministrativi si fonda su una presunzione di legittimità: questa presunzione è soltanto uno dei motivi per cui il legislatore ha senz’altro attribuito alla volontà dell’amministrazione la forza di produrre certi effetti. Ma tale forza deriva dalla legge, la quale…soddisfa una necessità dell’azione amministrativa”: così Bracci, L’atto amministrativo inoppugnabile ed i limiti dell’esame del giudice civile, in Studi in onore di F. Cammeo, vol. I, Padova, 1933, 156. Analogamente Treves, La presunzione di legittimità degli atti amministrativi, Padova, 1936, 155, 82, e passim. Cfr. anche Stella Richter, op. ult. cit., 19.
[69] Cannada-Bartoli, L’inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 24. Analoghe considerazioni in La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, cit., 180, dove però l’inoppugnabilità viene definita “una qualità estrinseca dell’atto”. In sostanza, la decadenza consolida l’atto solo in quanto ne impedisce l’annullamento a seguito di ricorso, ma “non aggiunge però nulla alla preesistente produttività di effetti, nè trasforma in presunzione juris et de jure di legittimità una presunzione juris tantum, che come presunzione in concreto neppure esiste, essendo solo un motivo che ha determinato il legislatore ad attribuire questa forza agli atti amministrativi, e che giustifica il privilegio di cui essi godono”: così Bracci, op. cit., 156. Analogamente Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e disapplicazione dell’atto amministrativo invalido, in Jus, 1983, 171.
[70] Cfr. Treves, op. cit., 193. L’effetto immediato della presunzione di legittimità “può consistere piuttosto in una dispensa dall’azione in giudizio, in una inversione dell’onere dell’azione, se si considera in relazione a quanto avviene in diritto privato, dove, non presumendosi, di regola, legittima la pretesa, è necessario il ricorso al magistrato di chi la formula”: Id., op. cit., 164. In sostanza, a carico del privato non c’è una inversione dell’onere della prova, perché normalmente “il privato è attore e, come avviene per ogni attore in via d’annullamento,…deve dimostrare la presenza di un vizio dell’atto amministrativo”, con la conseguenza che “la presunta legittimità non ha allora nessun riflesso sulla prova in giudizio”. Anzi, “in questo la situazione dell’atto amministrativo è…peggiore di quella dell’atto privato, poiché…il giudice può a volte prendere in considerazione anche d’ufficio i vizi che cagionano l’annullabilità del primo, mentre non ha lo stesso potere nei confronti del secondo”.
[71] V. Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 24 s.s., nonché R. Alessi, Spunti in tema di pregiudizialità nel processo amministrativo, in Il processo amministrativo, Milano, 1979, 7, e Domenichelli, op. ult. cit., 170 ss. Si può verificare l’esplicazione del potere di autoannullamento da parte della stessa autorità emanante – o ad opera di autorità gerarchicamente superiori – oppure quello previsto dall’art.6 del T.U. L. com. e prov. del 1934 (r.d. 3 marzo 1934, n. 383). Chi invece distingue i due poteri, è indotto a chiedersi se anche l’annullamento d’ufficio possa concernere, come quello governativo, atti inoppugnabili: Cannada-Bartoli, Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., II, Varese, 1958, 491 ss.
[72] Così Bracci, op. cit., 156.
[73] Così Cannada-Bartoli, L’inoppugnabilità, cit., 26. A dimostrazione ulteriore, basta rilevare il dato per cui anche una sentenza del giudice amministrativo che abbia respinto, nel merito, un ricorso teso all’annullamento di un atto, non contiene alcun accertamento assoluto della legittimità dell’atto stesso, rispetto al quale i poteri di autotutela dell’Autorità amministrativa non risultano comunque limitati, se non sotto il profilo della impossibilità di annullare l’atto per i vizi specificamente riconosciuti inesistenti. V. Cannada-Bartoli, Annullamento di ufficio ed inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi (nota a Cons. St., sez. VI, 30 settembre 1964, n. 654), in Foro amm., 1964, 143 ss. Dello stesso Autore v. anche Disapplicazione di provvedimento inoppugnabile e giurisdizione della Corte dei Conti (nota a Corte dei Conti, sez. IV, pens.mil., 4 dicembre 1963 n.16979), in Foro amm., 1964, II, 232, ove si ribadisce che l’inoppugnabilità si forma per il decorso dei termini per l’impugnativa, e di conseguenza vale per il privato, non per l’amministrazione.
[74] Cfr. Bracci, op. cit., 156.
[75] Così Sandulli, op. ult. cit., 710. Pertanto, “il ricorso contro un atto inoppugnabile deve essere dichiarato irricevibile per l’avvenuta decorrenza del termine e non inammissibile, argomentando in base ad una supposta qualità dell’atto”: Cannada-Bartoli, L’inoppugnabilità, cit., 33.
[76] Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria, cit., 180. Contra, Cass., sez. un., 11 luglio 1955 n. 2194, in Foro amm., 1956, II, 1,18, nonché F. Satta, Responsabilità della P.A., in Enc. Dir., vol. XXXIX, 1988, 1374, quest’ultimo, con argomentazioni già confutate, “per l’effetto sostanziale di inoppugnabilità e definitività che determina l’inutile decorso del termine per l’impugnazione”. Concorde G. Barone, Il risarcimento per lesione di interessi legittimi dopo la sentenza Cassazione, SS.UU., n. 500/99. Rapporti tra la giustizia amministrativa e quella ordinaria, in Rivista giuridica quadrimestrale dei pubblici servizi, 2000, 1, 57.
[77] Stella Richter, op. cit., 65.
[78] Come rilevato da De roberto, op. ult. cit., 12-13, sempre nell’ottica che nei casi di competenza principale il giudice ordinario, anche disapplicando, non possa garantire le stesse utilità fornite invece dal giudicato amministrativo, il privato sceglierà solo la strada del giudizio ordinario qualora non abbia alcun interesse all’annullamento dell’atto. Anche secondo Barone, op. cit., 60, “il ricorso alla Giustizia amministrativa consente rimedi che non possono essere approntati dal giudice ordinario”, con riferimento, ad esempio, “alla possibilità di sospensione del provvedimento amministrativo”, o “agli effetti tipici della sentenza di annullamento, che cancella il provvedimento con effetti retroattivi e rimette l’attività “riparatoria” ai conseguenti provvedimenti dell’amministrazione”. Tale cancellazione del provvedimento, sostiene barone evidentemente disconoscendo gli effetti della disapplicazione nei casi di competenza principale ex art. 4, 2° comma, l. n. 2248/1865, “non può essere ottenuta allorchè il privato si rivolge al Giudice ordinario per il risarcimento, al quale invece può rivolgersi dopo l’annullamento dell’atto…”.
[79] Cass. civ., sez. I, 27 marzo 1997 n. 2721, in Foro it., Rep. 1997, voce Giurisdizione civile, 113. Potrebbe anche darsi il caso che il danneggiato, dopo aver promosso il giudizio amministrativo, non ne attenda l’esito, per rivolgersi al giudice ordinario, che questi rigetti poi la domanda di risarcimento sulla base della legittimità dell’atto, e che il giudizio amministrativo si concluda invece con l’annullamento dell’atto.
[80] Cass. civ., sez. II, 2 giugno 1999 n. 5421, in Studium juris, 1999, 1013.
[81] Cass. civ., sez. I, 29 maggio 1999 n. 5263, in Mass., 1999.
[82] Cass. civ., sez. lav., 16 marzo 1996 n. 2205, in Mass., 1996. È stato notato che, in tal modo, “l’efficacia preclusiva del giudicato rende inammissibile l’azione successivamente proposta, in presenza non soltanto di azioni identiche, ma anche di domande concernenti diritti incompatibili; la preclusione opera cioè in una duplice direzione, poiché investe, oltre alle azioni relative allo stesso diritto già accertato, anche quelle riguardanti situazioni soggettive che, pur manifestamente diverse, finiscono col rimettere in discussione il bene della vita attribuito al vincitore dalla precedente statuizione, divenuta ormai incontestabile”: Menchini, Il giudicato civile, Torino, 1988, 73. L’Autore rileva inoltre, op. cit., 119, che la giurisprudenza civile “ritiene precluse le azioni relative a diritti, pur diversi da quello accertato, deducibili però in via di eccezione o di domanda riconvenzionale nel primo processo, aventi efficacia impeditiva, modificativa od estintiva rispetto alla situazione soggettiva fatta valere. In ossequio al principio della intangibilità del giudicato sostanziale, si sostiene cioè che la successiva domanda concernente situazioni soggettive incompatibili, pur oggettivamente diversa da quella decisa, risulta preclusa…”.
[83] V. Cannada-Bartoli, In tema di giurisdizione e disapplicazione (nota a Cass., sez. un., 2 ottobre 1975 n. 3099), in Foro amm., 1976, 2610; Cass., sez. I, 3 febbraio 1997 n. 982, in I T.A.R., 1997, II, 928: “nel giudizio promosso davanti al giudice ordinario dalla P.A. nei confronti di un privato per il rilascio di un alloggio popolare occupato senza titolo, una volta che il provvedimento amministrativo di revoca dell’assegnazione nei confronti di detto soggetto sia stato già ritenuto legittimo dal giudice amministrativo con sentenza passata in giudicato, il provvedimento della P.A. non può più essere disapplicato”.
[84] V. infatti Cass. civ., sez. un., 6 maggio 1998 n. 4573, in Giust. Civ., 1999, 211, circa la possibilità di dedurre comunque, davanti al giudice ordinario, la radicale inesistenza del potere, ove tale questione non sia stata prospettata innanzi al giudice amministrativo. Contra Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 587, per il quale ove il “giudizio amministrativo si concluda prima di quello ordinario, la decisione di rigetto precluderebbe al giudice ordinario, nella controversia sorta tra le stesse parti, ogni indagine circa la legittimità dell’atto amministrativo”.
[85] Così Cons. St., sez. IV, 14 settembre 1984 n. 678, in Cons. St., 1984, I, 1022.
[86] T.A.R. Puglia, sez. I Bari, 4 febbraio 1992 n. 22, in I T.A.R., 1992, I, 1629. V. anche Cons. St., sez. IV, 13 settembre 1995 n. 692, in Giust. Civ., 1996, I, 275; Cass., sez. lav., 16 marzo 1996 n. 2205, in Giust. Civ. mass., 1996, 369.
[87] Trib. Sup. Acque, 7 febbraio 1996 n. 11, in Cons. St., 1996, II, 288.
[88] Cass. civ., sez. lav., 15 gennaio 1996 n. 281, in Cons. St., 1996, II, 988. V. anche Cons. St., sez. V, 8 luglio 1995 n. 1041, in Cons. St., 1995, I, 1073: “…il relativo giudicato si forma…esclusivamente sui motivi di ricorso e sui vizi con esso formulati, dovendosi escludere che esso copra il dedotto ed il deducibile”. Il problema diventa allora quello dell’identità oggettiva delle controversie, perché “…pacifico è che, ai fini dell’operatività della preclusione, assume un ruolo di primo piano l’identità degli episodi, o del complesso di circostanze unitariamente considerate, che integrano la lesione…; perciò, l’asserzione di un fatto lesivo non dedotto nel precedente processo provoca, pur restando immutata la situazione soggettiva fatta valere, la novità della domanda ed esclude, quindi, la valenza della preclusione (…)”. Con la conseguenza, rilevata proprio per il processo civile da Menchini, op. cit., 78, 82, 114, che, “pur restando invariato il petitum, ossia il provvedimento chiesto…in ordine al bene della vita, il mutamento del diritto soggettivo affermato provoca la diversità di oggetto del processo ed esclude che la seconda azione possa considerarsi preclusa dal giudicato…”. Nel senso che “le azioni devono considerarsi diverse e l’efficacia del giudicato non ostativa alla proposizione di una nuova domanda, quando con questa l’attore faccia valere quale fatto lesivo…un comportamento diverso da quello dedotto nel precedente giudizio; il mutamento del fatto integrativo della violazione fa nascere, in capo al titolare, un nuovo bisogno di tutela giurisdizionale e legittima l’esercizio di una nuova azione”. In altri termini, “l’allegazione di un diverso fatto storico, dal quale far derivare il diritto al mutamento”, è sufficiente alla concretizzazione di una diversa causa petendi. Menchini, però, op. cit., 204, afferma che non vi sia dubbio “sulla deducibilità di fatti costitutivi, modificativi o estintivi intervenuti posteriormente al giudicato, stante la loro idoneità a produrre efficacia giuridica sulla situazione soggettiva accertata”, ma con la precisazione che, “naturalmente, si deve trattare di fatti verificatisi successivamente al precedente giudicato, a nulla rilevando, ove si tratti di fatti anteriori, che essi non fossero conosciuti dalle parti al tempo del primo processo”.
[89] Cfr. De Roberto, op. ult. cit., ivi, il quale ipotizza anche l’incostituzionalità di un “sistema nel quale l’esito della lite finisce per dipendere dalla circostanza che a pronunciare per primo sia il giudice ordinario o il giudice amministrativo”.
[90] L’estensore della sentenza 500/99, cit., Preden, Le ragioni di una decisione, Relazione al convegno “La tutela risarcitoria delle situazioni soggettive alla luce della sentenza della Cassazione SS.UU. n. 500/99”, cit., ivi, 40, rileva che l’eventualità della concorrenza dei due giudizi “sembra destinata a restringersi, in relazione ai giudizi che saranno instaurati dopo il 30.6.1998, per effetto della concentrazione, davanti al giudice amministrativo, del potere di annullare l’atto illegittimo e di disporre anche il risarcimento del danno nelle materie previste dagli artt. 33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998”. Ampliamento della concentrazione ora prevista anche dalla legge n. 205/2000, nella quale “è prevista l’estensione del potere del giudice amministrativo di pronunciare sul risarcimento del danno anche nell’ipotesi in cui ha soltanto giurisdizione di legittimità e non già giurisdizione esclusiva”. Tuttavia, nel presupposto ammesso che l’eventualità della concorrenza dei due giudizi può ancora verificarsi, Preden, lc. cit., formula l’ipotesi che, “al fine di evitare che in relazione al medesimo atto siano formulati due giudizi contrastanti circa la sua conformità alla legge”, possa operare “l’istituto della sospensione del processo (nel caso, quello davanti al giudice ordinario) ai sensi dell’art. 295 c.p.c.”, pur concludendo che si verrebbe così “a procrastinare la decisione del giudice ordinario sino al passaggio in giudicato della decisione del giudice amministrativo, così riproponendosi l’inconveniente della intollerabile lunghezza del giudizio, che già veniva segnalato in relazione al precedente sistema di pregiudizialità necessaria”.
[91] Anche per Stella Richter, Prime riflessioni sulla sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Cassazione relativa alla risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, in Giust. Civ., 1999, 434, “il giudicato amministrativo di rigetto non è propriamente un accertamento della legittimità dell’atto impugnato, quanto piuttosto della infondatezza dei motivi formulati con il ricorso…”. Tuttavia, conclude però l’Autore, “per un verso la libertà del giudice ordinario dovrebbe comunque intendersi limitata all’accertamento di eventuali cause di illegittimità diverse da quelle esaminate dal giudicato amministrativo e per altro verso rimane non superata l’obiezione che, nei confronti del ricorrente, anche il giudicato amministrativo dovrebbe coprire sia il dedotto che il deducibile”.
[92] Artt.2, 1° comma, e 4, 2° comma, del D.Lgs.vo 29/93, come modificati dal D.Lgs.vo 80/98.
[93] V. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice ed esecuzione della sentenza nelle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, 2, 415, il quale precisa che “la devoluzione al giudice ordinario…significa eliminazione sicura della necessità di distinguere tra interessi legittimi e diritti soggettivi…”. V. Cass., sez. lav., 7 aprile 1999 n. 3373, in Foro amm., 1999, 2038, circa l’inerenza della materia degli atti gestionali in questione a situazioni di diritto soggettivo, e non di interesse legittimo. Contra, Cons. St., Ad. Gen., 10 giugno 1999 n. 9, in Foro amm., 1999, 2160, secondo cui tali atti gestionali vanno intesi come atti amministrativi, in quanto soggettivamente provenienti dalla p.a.
[94] Cfr. D’Antona, Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la <<seconda privatizzazione>> del pubblico impiego”, in Foro it., 1999, 2, I, 629. V. anche Sassani, op. cit., 416 ss.
[95] In tal senso Torchia, Giudice amministrativo e pubblico impiego dopo il D.Lsg.vo n. 80 del 1998, in Lavoro nella p.a., 1998, 1055. D’accordo D’Antona, op. cit., 629, nonché B. Caruso, Il giudice del lavoro ed il pubblico impiego, Relazione al convegno organizzato dall’Unione Giuristi Cattolici, Siracusa, 23.01.99, in Diritto e diritti, www.diritto.it.
[96] In questi termini travi, op. cit., 134.
[97] Come modificato dall’art. 29 del D.Lgs.vo 80/98, nonché dall’art. 18 del successivo D.Lgs.vo 387/98.
[98] Come precisato da Cons. St., sez. V, 15 ottobre 1986 n.544, in Cons. St., 1986, I, 1530, “la nozione di atto presupposto implica, in riferimento ad atti di un unico procedimento amministrativo, ovvero anche ad atti autonomi, l’esistenza di un collegamento fra gli atti stessi così stretto nel contenuto e nel modo di operare, da far ritenere che quelli successivi siano emanazione di quelli precedenti, nel senso che vi sia uno stretto rapporto di derivazione tra essi tale che i primi siano in concreto tanto condizionati dai secondi nella statuizione e nelle conseguenze da non potersene discostare”.
[99] Cfr. Travi, La giurisdizione civile nelle controversie di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in Diritto processuale amministrativo, 2000, 314 ss.; Mazzamuto, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario?, in Giur.it., 1999, 1129; Veneziano, Il vigente riparto di giurisdizione nelle controversie in materia di rapporto di lavoro “privatizzato” alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Diritto e diritti, www.diritto.it, n. 4/2001, www.diritto.it/articoli/amministrativo/veneziano4.html.
[100] V. Apicella, La disciplina transitoria del trasferimento al giudice ordinario della giurisdizione sulle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, 6, 555. Per Baccarini, La giurisdizione ordinaria sui rapporti di pubblico impiego, in Dir. proc. amm., 1999, 2, 596, in questa materia “il conflitto di interessi tra prestatore e datore di lavoro deve essere valutato sulla base anche e soprattutto di interessi superiori indisponibili, definiti secondo i princìpi costituzionali, che possono e spesso devono condurre il giudicante, al di là degli atti emanati e delle posizioni processuali assunte dalle parti, verso una terza tesi”.
[101] Anche il D.Lgs.vo 31.12.92, n. 546, all’art. 7, comma 5, ha disposto che “le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio…”.
[102] Per l’analisi del ruolo della disapplicazione nell’ambito del processo amministrativo, sia consentito rinviare a Trebastoni, La disapplicazione nel processo amministrativo, cit., passim.
[103] L’inapplicabilità, cit., 165.
[104] Vedi G. M. Berruti, op. cit., 52, il quale precisa, in proposito, che “il contenuto della domanda è direttamente e completamente regolato dalla norma dell’art. 4 della legge cont. amm”.
[105] Così L. Piccardi, Sulla disapplicazione degli atti amministrativi, cit., 589. Del resto, secondo la giurisprudenza, anche “il commissario regionale per la liquidazione degli usi civici – cui spetta la giurisdizione, esercitabile anche d’ufficio, in materia di accertamento della natura demaniale civica delle terre e di rivendicazione delle medesime, intesa come attività diretta al loro recupero per consentire il pieno e pacifico esercizio del godimento degli usi civici da parte della collettività beneficiaria – ha il potere, nell’esercizio di tale giurisdizione, di disapplicare un atto amministrativo ritenuto illegittimo, giusta la previsione dell’art. 5…”: così Cass. Civ., Sez. un., 20 marzo 1992 n. 3518, in Riv. amm., 1993, 638. Vedi nello stesso senso anche Tar Valle d’Aosta, 2 febbraio 1989 n. 2, in I T.A.R., 1989, I, 1239.
[106] Ora, a meno che non si rinvenga nel comportamento omissivo della p.a. un atto negativo implicito, da potere, artificiosamente, disapplicare – come sostanzialmente sarebbe, ad esempio, nelle ipotesi, considerate da Cass. Sez. Un., 500/99, cit., in cui dover effettuare quel “giudizio prognostico,…sulla fondatezza o meno della istanza” – il fondamento di un intervento del giudice è da rinvenire nel normale esplicarsi della sua funzione di fronte al dispiegarsi illegittimo dell’azione amministrativa, si sia questa realizzata o meno in un atto. Come è stato rilevato, infatti, da Berruti, op. cit., 54, “se dunque il g.o. non può annullare o revocare l’atto, a lui non resta, una volta che lo abbia ritenuto illegittimamente lesivo del diritto soggettivo, che pronunciarsi eliminandone gli effetti pregiudizievoli, ovvero, nelle controversie tra privati, proseguire come se l’atto stesso, in riferimento alla situazione in esame, non esista”. Sul punto vedi anche Dell’Orco, Potestà di disapplicazione e provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1965, 686 s.s. Tuttavia, sembra di poter notare come Berruti trascuri di considerare che, anche nei casi di competenza principale, il giudice civile non elimina gli effetti dell’atto illegittimo, bensì semplicemente, disapplicando appunto l’atto, accerta e dichiara che gli effetti dell’atto non si sono verificati. Come precisato da Cannada-Bartoli, La disapplicazione nel processo amministrativo, in Atti del convegno su “Impugnazione e <disapplicazione> dei regolamenti”, cit., 146, dalla avvenuta disapplicazione “ne risulta un impedimento alla produzione dell’effetto, non l’estinzione dell’efficacia dell’atto”.
[107] Per le ragioni che portarono il legislatore ad inserire ugualmente la norma in questione, vedi Trebastoni, op. cit., 681 s.s.
[108] Da Romano, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 1992, 82.
[109] Così Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità, cit., 135. Interessanti le osservazioni di Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, in Digesto Disc. Pubbl., VII, 1991, 516: “a ben guardare, il 2° co. dell’art. 4 (<<L’atto amministrativo…>>) dev’essere letto, per la proposta d’integrazione tra il comma precedente e l’art. 5, come 3° co., dopo il primo (<<quando la contestazione cade…>>) ed il secondo (<<in questo caso, le autorità giudiziarie applicheranno…>>). In tal modo, il principio generale non è stabilito nel capoverso dell’art. 4, con le note limitazioni, ma nell’art. 5… Quei divieti sono la conseguenza dell’inefficacia, in casu, del provvedimento illegittimo. La revoca e la modifica risultano inutili se l’atto amministrativo illegittimo venga disapplicato e il rapporto controverso definito a prescindere da tale atto. Il divieto di annullamento, più che da un’interpretazione estensiva delle parole <<revocato o modificato>> deriva dalla limitazione della pronuncia giudiziaria agli <<effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio>>”.

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