La determinazione del reddito imponibile nei soggetti passivi ires

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Introduzione

La determinazione del reddito di impresa consta essere asservita a discrepanti variabili.

Difatti, a seconda della contabilità che viene tenuta regolarmente e del soggetto che ingenera reddito, sussistono differenti metodologie di determinazione dell’imponibile societario.

Non ci si può più infatti limitare ad affermare che il reddito di impresa venga determinato apportando all’utile o alla perdita di esercizio che risulta da conto economico relativo al bilancio di esercizio chiuso nel periodo di imposta le variazioni, in aumento o in diminuzione) derivanti dall’applicazione della disciplina dettata dal testo unico, con esattezza, all’art. 83.

In questa sede, andremo dunque ad analizzare le peculiarità delle variabili che incidono sulla determinazione del reddito imponibile, nonché quelli che sono i principi e le norme da seguirsi per la determinazione medesima.

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Il reddito di impresa

L’ art. 55 del T.U.I.R. norma la nozione generale di reddito di impresa, definendo lo stesso come quel reddito che scaturisce dall’esercizio di “imprese commerciali, ovverosia l’esercizio abituale, ancorché non esclusivo, delle attività indicate nell’art. 2195 del codice civile e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa.

Vengono inoltre classificati come redditi di impresa, specifica il secondo comma del medesimo articolo, quelli che derivano dall’esercizio di attività organizzate in forma di impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 del codice civile;

i redditi derivanti dall’attività di sfruttamento di torbiere, miniere, cave, saline, stagni, e altre acque interne; i redditi derivanti dalle attività agricole di cui all’art. 32 del T.U.I.R. anche se svolte entro i limiti ivi previsti, laddove l’attività venga espletata mediante società di persone e a persone fisiche non residenti che operano in Italia mediante stabile organizzazione.

Il legislatore tributario fa prevalere la sostanza sulla forma, difatti, anche la società semplice, che ai fini civilistici non può esplicare attività commerciale, da un punto di vista fiscale può produrre reddito di impresa nella contingenza in cui espleti una delle attività di cui all’art. 2195 del codice civile.

Ciò detto è bene precisare che le società commerciali (s.n.c., s.a.s., s.r.l.,s.p.a., s.a.p.a.,s.c.p.a.) producono per praesumptio iuris et de iure (presunzione assoluta) reddito di impresa, facendo astrazione da qualsiasi tipologia di attività che venga espletata; il tutto trova giustificazione nella natura “commerciale” del tipo societario[1]. Per fare chiarezza: una società a responsabilità limitata produrrà sempre reddito di impresa, anche nel caso in cui svolga come attività l’esercizio di un’arte o di una professione. La semplice forma giuridica della società ha come corollario la produzione di reddito di impresa.

Per quel che inerisce gli enti non commerciali, per la determinazione del reddito si ricorre a quelli che sono i dettami consacrati nelle singole categorie reddituali, eccettuando i redditi che scaturiscono dall’impiego del “patrimonio di impresa”, ove in tal caso comportano la produzione di reddito di impresa.

 

I soggetti passivi ires

I soggetti passivi dell’IRES, normati all’interno dell’art. 73 del T.U.I.R, possono essere suddivisi in tre categorie omogenee, a seconda delle regole applicabili ai fini della determinazione del reddito complessivo da assoggettare al tributo.

In una prima categoria ritroviamo “le società e gli enti commerciali” residenti in Italia[2](art. 73, comma 1, lett. a) e b), ovverosia le società per azioni, le società in accomandita per azioni, le società cooperative  e le società di mutua assicurazione, nonché gli enti diversi dalle società, pubblici e privati, compresi i trust, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.

Una seconda categoria, di cui all’art. 73, comma 1, lett. c), ricomprende gli “enti non commerciali”, pubblici e privati, ricompresi i trust, che non hanno per oggetto principale o esclusivo l’esercizio di un’attività commerciale, nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato italiano.

In un terzo ritroviamo, le “società e gli enti di ogni tipo”, compresi i trust, non residenti nel territorio dello Stato italiano (all’art. 73, comma 1, lett. d), nonché le società di persone e associazioni annoverate all’art. 5 del T.U.I.R., ovvero quelle entità che, se residenti, sono fiscalmente trasparenti[3].

Sempre all’interno dell’art. 73, comma 2 del T.U.I.R. ritroviamo una clausola di chiusura la quale ricomprende tra i soggetti passivi dell’IRES, le “altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi nei confronti dei quali il presupposto si verifichi in modo unitario e autonomo.

Per la sussunzione in questa clausola residuale l’entità deve possedere tre caratteristiche:

  • La “organizzazione”, ossia un complesso di beni e/o persone strutturate al fine del raggiungimento di un determinato scopo;
  • La “non appartenenza” ad altri soggetti passivi, ossia la non riferibilità giuridica ad altro soggetto passivo IRES;
  • La capacità dell’organizzazione, non appartenente ad altri soggetti passivi, di realizzare il presupposto il possesso dell’IRES, “in modo unitario ed autonomo”, ossia l’idoneità a essere destinataria degli effetti giuridici e fiscalità degli atti compiuti.

A questi tre gruppi enumerati corrispondono discrepanti dettami per la quantificazione del reddito complessivo e della base imponibile che soggiace al tributo.

Per primo gruppo, afferente società e gli enti commerciali residenti in Italia, il risultato di periodo viene determinato applicando le norme tipiche del reddito di impresa, di cui all’art. 55 del T.U.I.R.. Il regime ordinario statuisce che per la determinazione del reddito di impresa, si ricorre all’apportare le variazioni previste dalle disposizioni fiscali in tema di componenti positivi e negativi di reddito (art. 83 e art. 85-108 del T.U.I.R.) al risultato economico registrato nel conto economico relativo al periodo di imposta.

Questo configura come il regime ordinario che subisce specifiche declinazioni a seconda delle dimensioni, dell’attività svolta e dei principi contabili applicati dall’impresa, sui quali si dirà successivamente.

Per quel che inerisce il secondo gruppo, ovvero gli enti non commerciali residenti nel territorio dello Stato italiano, in tale contingenza il reddito complessivo verrà quantificato ricorrendo a quelli che sono i dettami consacrati in seno alle discrepanti categorie reddituali, effettuando poi la somma dei relativi redditi conseguiti.

Da ultimo, il terzo ed ultimo gruppo, ovvero le società e gli enti di ogni tipo non residenti in Italia, computa il proprio reddito tenendo in considerazione l’articolo 23 del T.U.I.R., rubricato “applicazione dell’imposta ai non residenti”, che tende ad esplicare se ed effettivamente i redditi vengono prodotti nel territorio dello Stato italiano.

Ai fini del reddito di impresa, lo stesso può essere prodotto mediante una stabile organizzazione, di cui all’art. 162 del T.U.I.R.[4], la quale tiene una propria contabilità e redige un rendiconto afferente la situazione economica e patrimoniale.

 

I differenti regimi di determinazione del reddito di impresa

Come ricordato in precedenza, non si può attestare che il reddito di impresa venga quantificato apportando all’utile o alla perdita risultante da conto economico, le variazioni in aumento e in diminuzione derivanti dalla disciplina del Testo unico (art. 83).

Questo regime deve essere declinato a seconda della dimensione dell’impresa e del regime contabile che viene applicato dalla stessa.

In tal senso è possibile ravvisare differenti categorie di soggetti che possono essere così annoverate:

  • OIC/IAS adopter, ovvero le imprese che ricorrono ai principi contabili nazionali ed internazionali nella redazione del bilancio di esercizio;
  • Le micro-imprese, di cui all’art. 2435-ter del c.c., ovvero quelle società che presentano nel primo esercizio o per due esercizi consecutivi, un totale dell’attivo patrimoniale non superiore a euro 175.000, un totale di ricavi complessivi annuali non superiori ad euro 350.000 ed un numero medio di dipendenti occupati durante l’esercizio pari a 5;
  • Le imprese cosiddette “imprese minori” da un punto di vista fiscale, ovverosia quelle che ricorrono al regime di contabilità semplificata e che rientrano nei limiti quantitativi di cui all’art. 18 del D.P.R. 600/73;

Muovendo dai primi, ovvero OIC/IAS adopter, tali soggetti ricorrono al principio della cosiddetta “derivazione rafforzata”, dove il reddito viene determinato tenendo in considerazione i principi di qualificazione, classificazione e imputazione temporale (le cosiddette QUIC) proprie di tali principi contabili. Tali dettami si incardinano sul fatto che viene fatta prevalere la sostanza economica sulla forma giuridica, substance over the form, ragion per cui si va a derogare le norme contenute nel testo unico per la quantificazione del reddito di impresa.

Dunque, per il calcolo dell’imponibile bisogna tenere in considerazione il risultato di esercizio che scaturisce dal bilancio di esercizio, ed è proprio per questa forte dipendenza dal bilancio medesimo che si parla di derivazione rafforzata.

Sussistono però norme del testo unico alle quali anche tali soggetti devono necessariamente ottemperare, si considerino le norme che contemplano la deduzione per cassa anziché per competenza di alcuni componenti negativi di reddito (ad esempio i compensi corrisposti agli amministratori, deducibili solamente quando vengono effettivamente erogati) o anche le norme che prevedono la tassazione parcellizzata di componenti positivi di reddito ( si intende il riferimento alla rateazione delle plusvalenze patrimoniali, in ossequio all’articolo 86 del T.U.I.R.)  e le norme afferenti i criteri di valutazione da utilizzare.

Per quel che pertiene le micro-imprese, di cui al secondo gruppo di cui sopra, si ricorre al cosiddetto principio di derivazione semplice, ovvero per tali soggetti non si ricorre ai principi di qualificazione, classificazione ed imputazione temporale propri dei principi contabili, ma constano essere compiutamente applicabili le disposizioni del testo unico che regolano i principi generali ed i singoli componenti (positivi e negativi) che concorrono a formare il reddito di periodo.

In ultima istanza dobbiamo analizzare le imprese minori da un punto di vista fiscale.

Quest’ultime per la determinazione del reddito di impresa ricorrono ai precetti sugellati all’interno dell’art. 66 del T.U.I.R., i quali disciplinano i componenti di reddito positivi e negativi rilevanti strumentali alla determinazione della base imponibile.

Il reddito, dunque, viene ritratto mediante una mera contrapposizione di elementi reddituali, positivi e negativi, contenuti nel testo unico.

 

I principi per la determinazione del reddito di impresa

I principi base per la determinazione del reddito d’impresa sono:

  • Principio di competenza;
  • Principio di inerenza;
  • Principio di previa imputazione al CE per quanto riguarda i componenti negativi di reddito.

Muovendo dal principio di competenza, consacrato in seno all’art. 109 del T.U.I.R., nel suo primo comma  statuisce : “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”.

I componenti positivi e negativi di reddito devono essere rilevati fiscalmente nel periodo d’imposta di competenza.

Il primo comma poi afferma che se nel periodo d’imposta di competenza il componente di reddito non è certo oppure non è oggettivamente determinabile l’imputazione temporale sarà spostata in avanti, bisogna attendere il periodo in cui esso diventa certo oppure, se già è certo, oggettivamente determinabile.

L’art. 109 al comma 2 altresì, specifica quando un componente è di competenza o meno, individua un periodo d’imposta in cui vi è la competenza fiscale. La competenza che determino fiscalmente non è molto diversa dalla competenza economica.

  • I corrispettivi che derivano dalle cessioni di beni mobili si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei beni si considerano sostenute, alla data della consegna della merca o spedizione del bene mobile. Quindi tale reddito rileva fiscalmente, cioè finiscono nella dichiarazione dei redditi, nel periodo d’imposta in cui avviene la spedizione o consegna del bene.
  • I corrispettivi che derivano dalla cessione di beni immobili e per le aziende si considerano conseguiti alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale. Quindi per la cessione di immobili o di azienda o ramo di azienda, la competenza fiscale rileva nel periodo d’imposta in cui si stabilisce l’atto con cui si trasferisce la proprietà.
  • I corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi. Quindi il componente di reddito derivante da prestazioni di servizi deve essere regolato fiscalmente nel periodo d’imposta in cui avviene l’ultimazione della prestazione.

Il legislatore fiscale non rileva la competenza economica per tutti i componenti di reddito. Infatti, il secondo comma mi dice anche che difronte a contratti da cui derivano corrispettivi periodici, contratti di locazione. mutui, allora si va a maturazione. Il periodo di d’imposta è quello di maturazione.

Questi momenti di competenza, fissati dal legislatore del testo unico non trovano applicazione, come detto in precedenza in questa sede, per i soggetti che redigono i bilanci secondo i principi contabili gli OIC/IAS e quindi l’imputazione temporale dei componenti di reddito di tali soggetti è condizionata fiscalmente dal principio di derivazione rafforzata. Per cui l’imputazione temporale è identica a quella dei principi contabili.

 

Principio di inerenza

L’inerenza è un principio che riguarda principalmente i componenti negativi di reddito. Tale principio impone di tenere conto fiscalmente solo dei costi che riguardano acquisti di beni e servizi che sono coerenti rispetto al programma imprenditoriale. L’inerenza corrisponde a un collegamento logico tra sostenimento dei costi e attività d’impresa. Se non c’è questa relazione logica il costo non lo si può dedurre perché non riguarda l’attività d’impresa.

Cionondimeno, non abbiamo una norma che vieta il far transitare nelle scritture contabili, o, di conseguenza nel bilancio di esercizio, componenti negativi di reddito che non siano effettivamente inerenti con quella che è l’attività caratteristica dell’azienda, in fatto esercitata.

L’eventuale deduzione del costo non inerente costituisce una vera e propria trasgressione della norma, in quanto il contribuente ha artatamente minorato il reddito per ottenere benefici fiscali, in termini di risparmio di imposta.

 

Principio di previa imputazione al ce dei costi

Tale principio è disciplinato nell’art. 109 4° comma: “le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza. Si considerano imputati a conto economico i componenti imputati direttamente a patrimonio per effetto dei principi contabili adottati dall’impresa. Sono tuttavia deducibili”:

  • Quelli imputati al conto economico di un esercizio precedente, se la deduzione è rinviata in conformità alle precedenti norme della presente sezione che dispongono o consentono il rinvio;
  • Quelli che pur non essendo imputati al conto economico, sono deducibili per disposizione di legge. Le spese e gli oneri non specificatamente afferenti i ricavi e gli altri proventi, che pur non risultando imputati al conto economico concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi.

Il legislatore del testo unico stabilisce inizialmente che il costo è fiscalmente deducibile solo se imputato al conto economico del periodo d’imposta di competenza civilistica. È deducibile tale costo anche nel caso in cui esso è transitato nel conto economico di un esercizio precedente di competenza. Oppure, anche se manca l’imputazione al conto economico, purché ci sia una espressa disposizione di legge che consente la deducibilità di tale costo a prescindere dall’imputazione a conto economico.

Il primo caso concerne un costo che è stato rilevato civilisticamente nel periodo d’imposta precedente, ma in ottemperanza alle norme del Testo unico, la deduzione del costo viene rinviata ad un periodo di imposta successivo.

Un esempio addotto è costituito è normato all’articolo 102 del T.U.I.R., comma 6, inerente le spese di manutenzione eccedenti il plafond del 5 per cento, le quali sono deducibili in quote costanti per cinque anni.

Questo è possibile perché ci son norme apposite. Negli esercii successivi il costo non è imputato ma può essere dedotto (in passato ciò era possibile per i costi sostenuti per gli studi e le ricerche).

Nell’ultimo caso, possiamo fare riferimento ai compensi che spettano agli amministratori sotto forma di partecipazioni agli utili si possono dedurre anche se è intervenuta l’imputazione a conto economico, giusta l’art. 95 al comma 4.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

FALSITTA, FANTOZZI, MARONGIU, MOSCHETTI, Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo III, TUIR e Leggi complementari, (a cura di) FANTOZZI, Cedam, 2010

 

CONTRINO, DELLA VALLE, MARCHESELLI, MARINI, MARELLO, MESSINA, TRIVELLIN, Fondamenti di diritto tributario, Cedam, 2020.

 

FANTOZZI, PAPARELLA, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Cedam, 2014

 

 

 

 

 

[1] Ciò vale anche per gli enti commerciali e i trust che svolgono attività commerciale.

[2] L’Amministrazione finanziaria considera una società fiscalmente residente nel territorio dello Stato italiano se per la maggior parte del periodo di imposta, collimante con l’esercizio di impresa e non con l’anno solare (valevole per le persone fisiche), detiene la sede legale (legal seat), la sede dell’amministrazione (place of effective management) e l’oggetto principale.

[3] Per tali soggetti, secondo quanto suggellato dall’art. 5 del T.U.I.R, trova applicazione il principio della trasparenza fiscale: l’utile societario non viene tassato in capo alla società che lo ha ingenerato (non viene attratto a tassazione IRES) ma viene imputato in capo ai soci in relazione alla quota di partecipazione detenuta all’interno della società stessa. In tal caso, il reddito prodotto concorre alla formazione dell’imponibile IRPEF.

[4] Ovverosia una sede fissa di affari mediante la quale un soggetto non residente esercita abitualmente in tutto o in parte l’attività di impresa nel territorio dello stato italiano.

Aldo Innamorato

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