La Corte di Cassazione sindaca il merito?

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Nota a Cassazione n.8911/2019

Una recente sentenza della Corte di Cassazione , la n.8911 del  29 marzo 2019, reperibile nel sito della Corte, tratta un caso interessante , in materia antinfortunistica.

Il Tribunale di Genova con ordinanza  del 23 marzo 2015   emanata a seguito di ricorso avanzato ex art.47 e ss. l.n.92/2012,confermata dalla successiva sentenza emessa in sede di opposizione, confermata successivamente dalla Corte di Appello di Genova ( sentenza 19 luglio 2016 R.G.N.611/2015), condannava Trenitalia  s.p.a. a reintegrare un suo dipendente ,macchinista.

La fattispecie

L.S. è macchinista di Trenitalia s.p.a., in servizio dall’1.4.81. E’ sempre stato addetto alla Divisione cargo dell’Area nord ovest impianto treno Liguria, con ultima sede di lavoro al deposito locomotive di Genova Rivarolo. Il ricorrente L.S. ha impugnato il duplice licenziamento che gli è stato intimato dal datore di lavoro Trenitalia s.p.a. per ragioni disciplinari con comunicazioni del 1^  agosto e 5 settembre 2014. Il primo è stato intimato senza preavviso, mentre al secondo, qualificato per giusta causa, è stata conferita efficacia immediata.

Entrambi i provvedimenti di licenziamento si sono fondati sull’addebito di avere rifiutato – rispettivamente il 15 luglio ed il 20 agosto 2014 – di condurre il convoglio ferroviario cui era stato assegnato ed avere così causato danni patrimoniali all’azienda per il ritardo nella partenza del treno, per la sostituzione del lavoratore con un collega e per un indennizzo dovuto a RFI s.p.a..  Con entrambi i provvedimenti si è contestata anche la recidiva in cui il ricorrente era incorso, per avere già subito due sospensioni dal servizio, che gli erano state comminate il 7 febbraio ed il 4 giugno 2012, rispettivamente per 6 e 9 giornate, per analoghe condotte.

E’ comunque documentato che nello stesso anno 2014 i provvedimenti di licenziamento sono stati preceduti da quattro sanzioni disciplinari conservative, in conseguenza di altri rifiuti risalenti alle date del 20 gennaio, 23 e 29 aprile e 14 maggio.

Col ricorso presentato al Tribunale  il ricorrente ha chiesto accertarsi che gli atti di recesso di Trenitalia s.p.a. sono stati ritorsivi o fondati su un motivo illecito determinante, con conseguente suo diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro; in subordine ha chiesto accertarsene l’illegittimità, con applicazione delle tutele previste dall’art. 18, commi quarto o altrimenti quinto,l.300/70 (nel testo modificato dall’art. 1   l. 92/2012).

Tutte le condotte del ricorrente sono espressive della sua presa di posizione contraria all’introduzione, nell’organizzazione aziendale di Trenitalia s.p.a., della figura del tecnico polifunzionale col suo inserimento nell’equipaggio di conduzione della locomotiva. In questo modo, su alcune linee ferroviarie specificate, l’equipaggio è composto non più da lue macchinisti, ma da un macchinista e dal tecnico polifunzionale, non abilitato alla guida.

Il modello organizzativo dell’equipaggio c.d. misto costituito da un agente abilitato alla condotta e da un tecnico polifunzionale treno è stato, del resto, autorizzato dall’Autorità preposta alla sicurezza del trasporto ferroviario e cioè dall’Agenzia Nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie che, istituita con d.lgs. 10 agosto 2007, n. 162 ‘Attuazione delle direttive 2004/49/CE e 2004/51/CE relative alla sicurezza e allo sviluppo delle ferrovie comunitarie‘, ha assunto nella materia della sicurezza del trasporto e del gruppo FS S.p.A. le attribuzioni già di competenza del Ministero dei Trasporti sul sistema ferroviario nazionale. Il Tribunale rigettava la impugnativa motivata da ritorsione; accoglieva la domanda di reintegrazione ex art.18 comma 4 per insussistenza del fatto.

La Corte di appello di Genova confermava la sentenza di primo grado.

La Corte di Cassazione cui era ricorsa Trenitalia Spa. ha  cassato  la sentenza della Corte di appello con rinvio alla stessa Corte in diversa composizione.

Seguiamo il processo logico-giuridico percorso dalla Suprema Corte.

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La natura e i contenuti dell’art.2087 del Codice Civile

In via preliminare la Corte delinea la natura della norma in discussione,l’art.2087 del codice civile

Secondo la Corte di Cassazione la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 cod. civ. è ormai da tempo consolidata. L’incorporazione dell’obbligo di sicurezza all’interno della struttura del rapporto obbligatorio non rappresenta una mera enclave della responsabilità aquiliana nel territorio della responsabilità contrattuale, relegata sul piano del non facere. È fonte, invece, di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore il quale è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa con la conseguenza che è possibile per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 cod. civ.).

Alla luce della sua formulazione ‘aperta‘ ,aggiunge la Corte-, declinata attraverso i parametri della ‘particolarità del lavoro, intesa come complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa, della ‘esperienza’, intesa come conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa e della ‘tecnica’, intesa come progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato – la giurisprudenza consolidata è concorde nell’assegnare all’art. 2087 cod. civ. il ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (v., tra le tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 644; Cass. 1° febbraio 2008, n. 2491; Cass. 23 settembre 2010, n. 20142; Cass. 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742).

Se è vero, poi, che va attribuita alla disposizione di cui all’art. 2087 cod. civ. anche una ‘funzione dinamica’, in quanto norma diretta a spingere l’imprenditore ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro, tuttavia la responsabilità datoriale non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei dipendenti (e di correlativo pericolo). L’art. 2087 cod. civ. non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Né invero può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a ‘rischio zero’ quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (v. Cass. 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. 22 gennaio 2014, n. 1312).

Sull’onere della prova

Premessa

Posta,come detto, prosegue la Corte,la rilevanza contrattuale dell’art. 2087 cod. civ., va, poi, ricordato che, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’art. 2697 cod. civ. – non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento. Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza – asseritamente omesse – siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal d.lgs. n. 81/2008 e successive integrazioni e modificazioni come dal precedente d.lgs. n. 626/1994 e prima ancora dal precedente n. 547/1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 cod. civ., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso – riferibile alle misure di sicurezza cosiddette ‘nominate’ – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere – nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno. Nel secondo caso – in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette ‘innominate’ – la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli ‘standards’ di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe ( v. Cass. 25 maggio 2006, n. 12445; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3033; Cass. 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4084; Cass. 31 ottobre 2018, n. 27964).

Sull’accertamento della responsabilità del datore di lavoro nel procedimento in oggetto da parte del Giudice di merito

Quanto al primo aspetto, ritiene il Collegio che sia stata innanzitutto trascurata la verifica, ai fini del diverso atteggiarsi dell’onere probatorio, secondo la distinzione tra misure `nominate’ e `misure innominate’ prevista dalle pronunce da ultimo citate.

Nel caso in esame non pare ragionevolmente in contestazione che la società abbia rispettato le misure di sicurezza ‘nominate’ e le normative specifiche.

Segue una ampia disamina di leggi, regolamenti e accordi sindacali che tutti , secondo la Corte e anche secondo i Giudici di merito, sarebbero stati rispettati da Trenitalia.

Ed allora la questione si sposta sul piano delle misure `innominate`, che continuano a dover essere ricavate dai riferimenti di massima di cui all’art. 2087 cod. civ. in relazione alla tutela della integrità fisica dei lavoratori genericamente intesa che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela della sicurezza del lavoro in base alla particolarità dell’attività lavorativa, all’esperienza ed alla tecnica.

Poiché, come sopra precisato e come più volte affermato da questa Corte di legittimità (v. oltre alle già citate Cass. n. 4970/2007 e Cass. n. 15082/2014 anche Cass. 27 giugno 2014, n. 14616, Cass. 17 aprile 2012, n. 6002, Cass. 11 aprile 2007, n. 8710; Cass. giugno 2004, n. 10510), “da detta norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta ad evitare qualsiasi danno”, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro tutte le volte che il danno si sia comunque verificato (o possa verificarsi), occorre pur sempre che l’evento (o il pericolo di verificarsi dell’evento) sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi dì comportamento. In sostanza, il datore di lavoro non è tenuto ad adottare ogni precauzione astrattamente possibile ma quelle che in concreto, in relazione alle caratteristiche dell’attività, alle mansioni del lavoratore, alle condizioni dell’ambiente esterno e di quello di lavoro, appaiano idonee ad evitare eventi prevedibili.

Nella specie la Corte territoriale, meglio specifica la Corte di Cassazione, ha fatto riferimento ad un aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità ricollegato alla natura dell’attività che il lavoratore è chiamato a svolgere; tuttavia le circostanze a detto fine valutate dal giudice d’appello risultano estranee alla corretta individuazione dei reciproci oneri probatori in relazione alle situazioni ed ai termini sopra considerati.

Inoltre l’accertamento in fatto di un ‘arretramento di tutela’ non integra di per sé un inadempimento ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. per il quale come detto non poteva prescindersi dalla indicata impostazione iniziale e cioè dall’individuazione, conformemente alle deduzioni del lavoratore ricorrente, delle misure innominate e delle regole di condotta in concreto non adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità del prestatore e dalla dimostrazione della nocività dell’ambiente di lavoro sotto il profilo dell’inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza.

Quanto a quest’ultimo punto a noi pare che la posizione della Corte non sia condivisibile, ove si voglia superare il “formalismo” su cui viene fondato il ragionamento della Corte Suprema.

Infatti ,a parere nostro il Tribunale e la Corte di Appello  hanno individuato esattamente l’inadempimento di Trenitalia là  dove  si dice che “l’assenza di un secondo operatore abilitato alla guida costringe il treno ad attendere i soccorsi nel luogo in cui esso sia stato costretto a fermarsi dal malore del macchinista” e poco dopo si convalida tale tesi  dove si richiama “l’esistenza d’una organizzazione del lavoro differente nel passato.La presenza diffusa del doppio operatore abilitato alla guida,prima che fosse istituita la figura del tecnico polifunzionale,rappresenta infatti la dimostrazione ontologica della possibilità, concreta ed economicamente praticabile,d’una soluzione più confacente alle esigenze della sicurezza; ed è una soluzione che l’azienda stessa si era evidentemente rappresentata avendola applicata in via generale.”.

E’ proprio l’inserimento di un secondo macchinista abilitato alla conduzione del treno la misura innominata individuata dal Giudice, e non attuata dal datore ,  che determina la responsabilità ex art.2087c.c. del medesimo.Ciò non viene a configurarsi come la creazione di un  nuovo posto di lavoro ma richiede soltanto l’addestramento del  secondo lavoratore  alla conduzione del convoglio in modo da poterlo condurre fino alla prima stazione del percorso ferroviario. Ed è questa quella decisione di merito che è insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata  e immune da vizi logici e giuridici che, appunto, era sottratta alla valutazione della Corte suprema  che  è titolata a valutare solo vizi di legittimità( art.360 Cpc n.3: per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro).La Corte territoriale sulla stessa linea enuncia:” [Il Tribunale] non ha certo ordinato a Trenitalia s.p.a. [ ma ,diciamo noi, non lo ha nemmeno escluso ndr.] di reintrodurre il modulo del secondo macchinista.Si rileva peraltro che nulla osta a che Trenitalia s.p.a. possa far venire meno il proprio inadempimento adottando un modulo diverso da quello del secondo macchinista,a condizione che ciò non comporti un allungamento significativo dei tempi di soccorso

Il fraintendimento nasce  dall’avere indicato  l’effetto ( aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità) della misura illecita introdotta dal datore,  al posto  della causa ossia del “fatto costituente l’inadempimento dell’obbligo di sicurezza” (eliminazione del secondo macchinista).

Ricapitolando:

  1. a) l’inadempimento del datore di lavoro viene individuato nella mancata adozione di una misura “innominata” che acceleri il pronto soccorso ( doppio macchinista o anche intervento dell’elisoccorso) scongiurando il pericolo conseguente proprio all’introduzione del nuovo modulo che viene a incombere sui beni della salute e della vita stessa del lavoratore;
  2. b) l’inadempimento del lavoratore si sostanzia nel rifiuto della prestazione pericolosa.

La circostanza che proprio il nuovo modulo introdotto da Trenitalia comporti la situazione di inadempimento lamentata dal lavoratore fa parte della questione controversa .Come infatti enuncia la stessa Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, con riguardo al terzo motivo di lagnanza,avanzato  sub specie di difetto di giurisdizione : “come da questa Corte già affermato, quando in una controversia tra privati, attinente a diritti soggettivi, il giudice debba vagliare situazioni presentanti aspetti di pubblico interesse o possa trovarsi a scrutinare la legittimità di provvedimenti amministrativi, le questioni che insorgono circa i confini dei poteri al riguardo del giudice ordinario attengono, data l’estraneità della pubblica amministrazione al giudizio, al merito e non alla giurisdizione, investendo questa l’individuazione dei limiti interni posti dall’ordinamento alle attribuzioni del giudice ordinario (divieto di annullare, modificare o revocare il provvedimento amministrativo, ai sensi dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, ali. E) – v. Cass., Sez. U. 6 maggio 2003, n. 6887; Cass., Sez. U., 23 dicembre 2005, n. 28500 -.Nella fattispecie l’atto amministrativo, che viene a fare parte del merito è il Regolamento per la circolazione ferroviaria emanato dall’Agenzia Nazionale per la sicurezza delle Ferrovie con decreto n.4/2012 ,che ha introdotto il nuovo modulo organizzativo.Tale decreto viene a violare  il diritto soggettivo  alla salute o anche al bene della vita [beni tutelati dalla costituzione,art.32 Cost.] del lavoratore ,  che se, ovviamente, non può chiedere l’annullamento dell’atto nella sede di giurisdizione ordinaria può ben chiedere la piena tutela dei suddetti diritti soggettivi assoluti. Il lavoratore aveva due vie da seguire : 1) impugnare l’ordine di Trenitalia, emanato in forza del decreto n.4/2012 dell’Agenzia Nazionale per la sicurezza delle Ferrovie, chiedendone la  dichiarazione di  illegittimità in una con lo stesso atto amministrativo,[  in forza dell’art.2 L. 20 marzo 1865 n.2248 all.E*] facendo,se necessario, seguire, quando fosse passato in giudicato, il giudizio di ottemperanza,  2) rifiutare di adempiere la sua prestazione Comunque il Giudice aveva proceduto disapplicando gli atti amministrativi[ in forza dell’art. 5 l.2248/1865 all. E].

Una volta decisa nei termini suddetti la questione dell’impugnazione o dell’eccezione di inadempimento, si tratterà di valutare l’estensione del giudicato a tutti gli altri casi. Ma questa è un’altra questione che non attiene al nostro processo

*Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E.Legge sul contenzioso amministrativo Art. 2. Sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa.Art. 4. Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio.2. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.Art. 5. In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi

La valutazione comparativa

Ove poi accertato l’inadempimento datoriale con riferimento all’inosservanza delle misure di sicurezza, continua la Corte di Cassazione, una giustificazione del comportamento inadempiente del lavoratore, doveva e deve necessariamente passare attraverso una comparazione tra il comportamento datoriale, cronologicamente anteriore, ed il successivo rifiuto della prestazione da rendersi in un contesto di pericolosità ambientale.

Va, infatti, ricordato, secondo la Corte Suprema, l’insegnamento giurisprudenziale  secondo cui nei contratti a prestazioni corrispettive, tra i quali rientra il contratto di lavoro, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l’inadempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, considerando non tanto il mero elemento cronologico quanto i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, il tutto alla luce dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. e ai sensi dello stesso cpv. dell’art. 1460 cod. civ., affinché l’eccezione di inadempimento sia conforme a buona fede e non pretestuosamente strumentale all’intento di sottrarsi alle proprie obbligazioni contrattuali (v. Cass. 4 novembre 2003, n. 16530; Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 16 maggio 2006, n. 11430; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2729).

Tale principio è stato ritenuto applicabile anche nell’ipotesi che l’inadempimento del lavoratore trovi giustificazione nella mancata adozione da parte del datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell’integrità psicofisica del prestatore (v. Cass. n. 21479/2005 cit.; Cass. 7 maggio 2013, n. 10553; Cass. 1° marzo 2012, n. 3187; Cass. 7 maggio 2013, n. 10553; Cass. 26 agosto 2013, n. 19573; Cass. 1° aprile 2015, n. 6631).

Così anche in tale ipotesi il requisito della buona fede previsto dall’art. 1460 cod. civ. per la proposizione dell’eccezione ‘inadempienti non est adimplendum‘ sussiste quando nella comparazione tra inadempimento e prestazione rifiutata, il rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l’art. 1175 cod. civ. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite.

Ora ci si domanda, da parte nostra, se la verifica comparativa debba essere esplicita.In tal caso in effetti il Tribunale non ha proceduto alla”formale” verifica comparativa. Tuttavia non può negarsi che il bene in gioco era la salute e forse la vita del lavoratore che implicitamente  e, sotto questo specifico aspetto anche esplicitamente, viene contrapposto alle ragioni economiche ed organizzative che avrebbero motivato Trenitalia  a non adottare la suddetta misura innominata. Peraltro il Giudice ha seguito un altro percorso ravvisando nell’inadempimento del datore una c.d. esimente che elide l’illiceità del fatto, al pari della legittima difesa, che peraltro anch’essa esige il requisito della proporzionalità, e lo stato di necessità.Concludendo per l’applicabilità della tutela ex art.18 L. n.300 del 1970 n.300,come modificata dalla l, n,92 del 2012, comma 4 e quindi  per la reintegrazione del lavoratore.

 

 

Avv. Viceconte Massimo

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