La Consulta ritiene costituzionalmente legittima la depenalizzazione dell’ingiuria: vediamo come

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Corte costituzionale, 23/01/2019, (ud. 23/01/2019, dep. 6/03/2019), n. 37

Le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza del 24 gennaio 2017 (r. o. n. 70 del 2017), il Giudice di pace di Venezia sollevava, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui dispongono l’abrogazione dell’art. 594 del codice penale.

In punto di rilevanza, il giudice a quo osservava come il giudizio principale avesse avuto ad oggetto un’imputazione per il delitto di ingiuria di cui all’art. 594 cod. pen., abrogato – in epoca successiva alla commissione del fatto contestato – in forza dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016 e, per effetto di tale abrogazione, egli sarebbe stato dunque tenuto a dichiarare di «non doversi procedere ex art. 129 codice procedura penale» in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato mentre, laddove fosse stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, si sarebbe invece realizzata «la riespansione della rilevanza penale del comportamento oggetto del reato di ingiurie» il che avrebbe consentito la prosecuzione del processo al fine di verificare in dibattimento la sussistenza del reato contestato all’imputato.

Secondo il rimettente, tra l’altro, «la rilevanza della questione appare sussistere anche se l’oggetto riguarda norme penali di favore e precisamente norme abrogative di ipotesi delittuose come nel caso di specie» non potendosi a suo avviso concepire che le norme penali di favore sfuggano al controllo di costituzionalità precludendosi in tal modo ogni possibilità di garantire la preminenza della Costituzione sulla legislazione statale ordinaria, richiamandosi a tal proposito l’orientamento del giudice delle leggi (e in particolare le sentenze n. 394 del 2006 e n. 148 del 1983), secondo cui sarebbe possibile esperire il sindacato di costituzionalità anche su norme di favore, nonché la sentenza n. 5 del 2014 in cui è stata dichiarata l’incostituzionalità della legge abrogativa del reato di associazione paramilitare, con conseguente reviviscenza della previgente norma incriminatrice.

Si faceva inoltre presente, circa la non manifesta infondatezza delle questioni prospettate, che «l’onore costituisce uno dei beni fondamentali della persona umana riconosciuto tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione», tanto che «la stessa Corte costituzionale […] lo annovera tra i beni e gli interessi inviolabili in quanto essenzialmente connessi con la persona umana (Corte costituzionale n. 86/1972 [recte: 1974] e n. 38/1973)» trattandosi, in particolare, di «un bene giuridico ascritto nel rango dei diritti essenziali, assoluti, personali, non patrimoniali, inalienabili, intrasmissibili, imprescrittibili, originari e innati»; un diritto da ritenere quale «estrinsecazione, nelle società democratiche, del fondamentale principio di uguaglianza di tutti gli essere umani che trova le sue profonde radici nel principio del rispetto per ogni persona, per ogni essere umano, senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Il rimettente osservava oltre tutto come le disposizioni censurate determinassero «la fuoriuscita del bene dell’onore e del decoro dal sistema di tutela pubblicistica dei diritti fondamentali», e ciò nel contesto di un ordinamento in cui non vi sarebbero «diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione che non siano protetti anche dalle norme penali, proprio in virtù della massima tutela che ad essi viene garantita» stante il fatto che la stessa Corte costituzionale avrebbe ritenuto che gli artt. 2, 3 e 13, primo comma, Cost. «riconoscano e garantiscano i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali rientrano quelli del proprio decoro, del proprio onore, della propria rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione, sanciti espressamente negli artt. 8 e 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (cfr. Corte costituzionale n. 38/1973)» e dunque tali diritti, sostiene sempre il giudice rimettente, potrebbero essere tutelati soltanto attraverso norme incriminatrici «poiché sono proprio le norme penali che sono poste, ontologicamente, a difesa dei diritti inviolabili dell’essere umano»; e ciò «sia per l’efficacia deterrente della sanzione penale che per l’inadeguatezza delle sanzioni amministrative o civili che appaiono inconciliabili a prevenire, ricomporre o reprimere le condotte lesive dei diritti fondamentali».

Posto ciò, un secondo aspetto di non manifesta infondatezza veniva ravvisato in relazione all’art. 3 Cost. in quanto la depenalizzazione del reato di ingiuria avrebbe determinato una irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di diffamazione di cui all’art. 595 cod. pen., delitto riconducibile «alla stessa medesima ratio e allo stesso diritto fondamentale», distinguendosi solamente per la presenza o meno dell’offeso al momento della condotta reputandosi al contempo come tale discriminazione sarebbe stata particolarmente evidente in riferimento all’abrogazione dell’ipotesi aggravata di cui all’art. 594, quarto comma, cod. pen., che disponeva un aumento di pena qualora l’offesa fosse commessa «in presenza di più persone».

Secondo il rimettente, sarebbe per di più del tutto irragionevole «[l]a scelta di perseguire un fatto “comunicando con più persone” in assenza dell’offeso (diffamazione) e di non punire il medesimo fatto “commesso in presenza di più persone” con la presenza dell’offeso (ingiurie)».

Un terzo aspetto di non manifesta infondatezza veniva, infine, apprezzato in relazione alla «difforme tutela processuale garantita al medesimo diritto fondamentale nell’abrogato reato di ingiuria rispetto al reato di diffamazione» deducendosi, in particolare, che la deposizione testimoniale della persona offesa, la quale ben avrebbe potuta essere posta a fondamento della decisione nel processo penale a quo, non potrebbe esserlo nel giudizio civile poiché in quella sede la parte non può testimoniare a favore di sé stessa e ciò avrebbe condotto alla conseguenza per cui un’ingiuria, commessa in assenza di testimoni, sarebbe destinata a restare impunita determinandosi in tal guisa un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alle vittime della diffamazione le quali hanno la possibilità di costituirsi parte civile e deporre come testimoni nel processo penale.

Con sei ulteriori ordinanze – del 27 giugno 2017 (r. o. n. 150 e n. 151 del 2017), del 20 giugno 2017 (r. o. n. 80 del 2018), del 4 luglio 2017 (r. o. n. 81 del 2018), del 17 ottobre 2017 (r. o. n. 112 del 2018) e del 30 gennaio 2018 (r. o. n. 113 del 2018) – il medesimo Giudice di pace di Venezia sollevava, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., nonché agli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, nella parte in cui dispongono l’abrogazione dell’art. 594 cod. pen..

Dette ordinanze, a loro volta, presentavano motivazioni tra loro coincidenti e originano tutte da procedimenti penali, pendenti dinanzi al Giudice di pace di Venezia, per fatti di ingiuria ex art. 594 cod. pen., contestati talora singolarmente (r. o. n. 150 del 2017), e in altri casi in concorso con altri delitti, quali le lesioni personali ex art. 582 cod. pen. (r. o. n. 151 del 2017 e n. 113 del 2018), la minaccia ex art. 612 cod. pen. (r. o. n. 80, n. 81 e n. 113 del 2018), la diffamazione ex art. 595 cod. pen. (r. o. n. 112 del 2018).

Inoltre, tra i parametri costituzionali evocati, figuravano – oltre agli artt. 2 e 3 Cost. – anche gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 CDFUE (il quale statuisce: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata») evidenziandosi al contempo come le disposizioni censurate si sarebbero poste in contrasto anche con tali parametri «poiché la potestà legislativa è stata esercitata dallo Stato con legge ordinaria senza rispettare i vincoli e i principi derivanti dagli obblighi internazionali e dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tanto da violare apertamente il principio fondamentale della dignità umana espresso nell’art. 1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea».

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che concludeva chiedendo che le questioni fossero dichiarate inammissibili o comunque infondate.

Si osservava a tal proposito che la stessa Consulta, per un verso, nella sentenza (recte: ordinanza) n. 175 del 2001, in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, avesse già affermato che la questione «tendente ad ottenere una sentenza con la quale venga reintrodotta una fattispecie criminosa prevista da una disposizione espressamente abrogata […] eccede i compiti di questa Corte», trattandosi di una «scelta discrezionale riservata al legislatore», per altro verso, nella sentenza n. 81 del 2014, avesse postulato di non potere rimodulare liberamente le sanzioni degli illeciti penali perché, se l’avesse fatto, avrebbe invasoun campo riservato alla discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene quando si sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.

Tal che se ne faceva conseguire come le sentenze citate dal rimettente, a sostegno della tesi relativa alla «necessità di “penalizzare” una condotta in senso contrario a quanto ritenuto dal legislatore» non sarebbero state dunque conferenti essendo giustificabile l’intervento ablativo della Corte solamente «quando l’area della penalità è esclusa per categorie determinate di soggetti» come ad esempio avvenuto in tema di falso in materia elettorale nella sentenza n. 394 del 2006 mentre sarebbe stato «[i]ncongruo» il riferimento operato dal rimettente alla sentenza n. 5 del 2014, in quanto relativa a un caso in cui l’illegittimità dell’avvenuta depenalizzazione, nella fattispecie in materia di associazioni paramilitari, era stata riscontrata sotto il profilo dell’assenza di delega legislativa, e dunque per contrarietà all’art. 76 Cost. stante il fatto che resterebbe fermo, in altri termini, il principio per cui alla Corte «è preclusa ogni pronuncia che ripristini un reato laddove si contesti la mera ragionevolezza delle scelte discrezionali del legislatore, con conseguente inammissibilità della relativa questione, come sostenuto ripetutamente dalla stessa Corte» mentre la discrezionalità del legislatore potrebbe essere per contro censurata soltanto nel caso di «uso distorto o arbitrario così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza» (ordinanza n. 23 del 2009), nella fattispecie in esame «il perdurante rilievo penale della diffamazione si giustifica sulla base dell’aggressione pubblica dell’onore, contrariamente a quanto avviene per l’ingiuria rispetto alla quale il legislatore ha perseguito lo scopo della sua rimessione alla composizione tra privati, facendone un illecito civile».

L’Avvocatura generale dello Stato, infine, osservava che l’argomento del rimettente, che faceva leva sul diverso regime probatorio in sede civile in base al quale sarebbe impedito alla parte offesa di deporre come teste, sarebbe stato parimenti infondato «in considerazione al fatto che esistono mezzi (es. 228/230-233 cpc) che possono portare all’accertamento della fattispecie».

Con atto depositato in data 13 giugno 2017, si erano a loro volta costituiti nel giudizio incidentale il signor G. D. e la signora R. F., rispettivamente figlio e moglie del defunto G. D., parti civili nel procedimento penale a quo.

Nell’atto di costituzione si ribadiva anzitutto la centralità del bene dell’onore, quale diritto fondamentale della persona umana, avente rango costituzionale nell’art. 2 Cost. e presentante «un costitutivo connotato pubblicistico», al quale solo il diritto penale sarebbe in grado di assicurare tutela, e ciò anche nell’ottica della prevenzione speciale e generale, che sarebbero invece estranee al diritto civile visto che solamente «il timore della sanzione penale, per il reo, e la prospettiva di un’adeguata tutela penale, per l’offeso» sarebbero in grado di frenare la «progressione criminosa» cui può dar luogo un «reato-innesco di una serie di altre condotte delittuose», quale l’ingiuria.

Le parti costituite osservavano, inoltre, come intraprendere un’azione civile fosse economicamente più gravoso rispetto alla mera presentazione di una querela «con l’immediata conseguenza della disparità di trattamento tra cittadini più o meno abbienti».

Per effetto della novella legislativa, si considerava come, d’altra parte, il bene dell’onore sarebbe stato artificiosamente «frantumato» rimanendo la tutela penale confinata al bene della reputazione grazie all’incriminazione della diffamazione ex art. 595 cod. pen.: fattispecie, quest’ultima, che non potrebbe però dirsi, in astratto, più grave dell’ingiuria, dovendo l’offensività essere apprezzata in concreto.

Le parti costituite rilevavano inoltre che la Corte avrebbe nel tempo superato l’iniziale «self restraint al proprio intervento» incarnato nel principio di riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., giungendo ad ammettere un sindacato sulla lex mitior a partire dalla sentenza n. 148 del 1983, e successivamente nelle sentenze n. 394 del 2006, n. 5 del 2014 e n. 32 del 2014.

Si riteneva, alla stregua delle argomentazioni sin qui esposte, come le disposizioni censurate avrebbero dovuto essere dichiarate costituzionalmente illegittime per contrasto con l’art. 2 Cost., avendo determinato il venir meno dell’indispensabile tutela pubblicistica rispetto a una delle condotte con cui è possibile ledere il bene fondamentale dell’onore; e con l’art. 3 Cost., in relazione all’irragionevole discriminazione da esse creata rispetto al reato di diffamazione di cui all’art. 595 cod. pen..

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

La Corte costituzionale dichiarava le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione inammissibili alla stregua delle seguenti considerazioni.

Si faceva prima di tutto presente come fossero manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento all’art. 10 Cost., per radicale assenza di motivazione sulla loro non manifesta infondatezza atteso che il rimettente non aveva chiarito in alcun modo in che senso debba ritenersi esistente una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta la quale imponga la criminalizzazione delle offese all’onore individuale.

Si affermava in secondo luogo come fossero del pari manifestamente inammissibili le questioni sollevate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 dato che il rimettente non aveva chiarito in che senso la tutela dell’onore individuale dovrebbe ritenersi materia ricadente entro l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea: condizione dalla quale dipende la stessa applicabilità della Carta negli ordinamenti degli Stati membri, ai sensi di quanto disposto dall’art. 51 della Carta medesima (ex multis, sentenze n. 194 del 2018, n. 111 del 2017, n. 63 del 2016 e n. 80 del 2011).

Si stimava infine come fossero inammissibili le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. osservandosi a tal proposito che se è vero che sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernono disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che, per un verso, riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante, per altro verso, determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del 2009), è altrettanto vero però che tali principi non sono senza eccezioni potendo insorgere la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006) così come un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem veniva ritenuto dalla Corte ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014) ovvero un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale, conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale, è ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018) o, ancora, ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione.

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Una volta terminato questo excursus giurisprudenziale, i giudici di legittimità costituzionale osservavano come nessuna di queste condizioni sussisteva, tuttavia, rispetto alle questioni di legittimità costituzionale prospetta nelle ordinanze di rimessione succitate dato che: a) la disciplina abrogata non si atteggiava a “norma penale di favore” rispetto ad altra disciplina penale di carattere generale coesistente sottraendo a quest’ultima un sottoinsieme di ipotesi che altrimenti sarebbero ricadute nella normativa generale, come era accaduto nel caso deciso dalla sentenza n. 394 del 2006 (nonché in quello deciso dalla sentenza n. 28 del 2010) visto che l’abrogata disposizione che criminalizzava l’ingiuria aveva invece a oggetto condotte diverse da quelle costitutive del delitto di diffamazione, le quali presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell’onore altrui sia diretta non alla vittima, ma a terze persone; b) non veniva in considerazione, nel caso in esame, uno scorretto esercizio del potere legislativo avendo il Governo depenalizzato il delitto di ingiuria, con il decreto legislativo n. 7 del 2016, in puntuale adempimento della delega conferitagli con la legge n. 67 del 2014; c) non erano oggetto delle questioni di legittimità costituzionale de quibus una disciplina processuale la cui reductio ad legitimitatem avrebbe potuto determinare, in via collaterale e indiretta, effetti in malam partem come nel caso deciso dalla sentenza n. 236 del 2018; d) il giudice a quo non avevo dimostrato che l’abrogazione del delitto di ingiuria si sarebbe posto di per sé in contrasto con gli obblighi sovranazionali che gravano sull’Italia.

A fronte di ciò, la Consulta rilevava come il rimettente avesse giustamente sottolineato il carattere fondamentale del diritto all’onore, come tale ascrivibile non solo al novero del «diritti inviolabili» riconosciuti dall’art. 2 Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma anche all’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente tutela i diritti all’onore e alla reputazione, nonché all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, all’art. 7 CDFUE, i quali ultimi tutelano il più ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, sezione terza, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna; sezione terza, sentenza 20 giugno 2017, Bogomolova contro Russia; sezione prima, sentenza 9 aprile 2009, A. contro Norvegia; sezione prima, sentenza 15 novembre 2007, Pfeifer contro Austria; sezione prima, sentenza 4 ottobre 2007, Sanchez Cardenas contro Norvegia) ma evidenziava come, pur tuttavia, dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante sanzioni penali stante il fatto che tanto la Costituzione quanto il diritto internazionale dei diritti umani, lasciano, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale o se – invece – il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei.

Ebbene, alla luce di tale considerazione giuridica, il giudice delle leggi rilevava come, in relazione al diritto all’onore, la sua tutela è adesso affidata – oltre che ai tradizionali rimedi aquiliani – a sanzioni pecuniarie di carattere civile come quelle apprestate dal decreto legislativo n. 7 del 2016.

Tal che la Corte, alla luce di quanto sin qui esposto, dichiarava la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 10 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Venezia con le ordinanze summenzionate nonchè dichiarava inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dal Giudice di pace di Venezia con le ordinanze di cui sopra.

Conclusioni

La sentenza in questione è sicuramente condivisibile.

La Corte costituzionale, difatti, in questa pronuncia, ha correttamente argomentato sul perché non potevano essere accolte le argomentazioni ivi sostenute.

E’ inoltre sicuramente fondata la considerazione sostenuta in questa decisione secondo la quale dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante sanzioni penali e ciò proprio perché, come messo in risalto in questo medesimo provvedimento, tanto la Costituzione, quanto il diritto internazionale dei diritti umani, lasciano, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se – invece – il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei.

Ebbene, la seconda opzione normativa è stata adottata dal legislatore nel caso di specie avendo costui previsto, per l’ingiuria, apposite sanzioni pecuniarie di carattere civile secondo quanto sancito nel decreto legislativo n. 7 del 2016.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, di conseguenza, si ribadisce, non può che essere positivo.

 

 

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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