La Consulta dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 517 c.p.p.: vediamo come

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(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 517)

     Indice

  1. Il fatto
  2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
  4. Conclusioni

1. Il fatto

Veniva emesso un decreto di citazione diretta a giudizio nei confronti di una persona chiamata a rispondere del reato di cui all’art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)».

Ciò posto, successivamente all’apertura del dibattimento e a seguito dell’escussione di un testimone della lista del pubblico ministero, quest’ultimo aveva proceduto, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., alla contestazione di ulteriori reati – connessi al primo ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. – di cui agli artt. 71 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001, per la violazione, rispettivamente, degli artt. 64, 65 e 93 del medesimo d.P.R., avvinti dal nesso della continuazione ex art. 81, secondo comma, del codice penale.

Orbene, a seguito della nuova contestazione, il difensore dell’imputata, munito di procura speciale, presentava una istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, rispetto alla quale era stato acquisito un programma di trattamento da parte dell’ufficio di esecuzione penale esterna.

Il giudice chiamato a decidere su tale istanza, dal canto suo, osservava che l’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere formulata solo fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, così escludendo implicitamente che la relativa istanza possa essere avanzata a seguito di una nuova contestazione ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen..

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

L’autorità decidente, ossia il Tribunale di Palermo, alla luce della considerazione appena esposta, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, relativamente al reato concorrente oggetto di nuova contestazione.

In particolare, stante la rilevanza della questione nel caso di specie dato che, come appena esposto, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non può essere avanzata a seguito di una nuova contestazione ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., per quanto invece concerne la sua non manifesta infondatezza, il giudice a quo osservava prima di tutto che i rapporti tra le nuove contestazioni dibattimentali e il recupero da parte dell’imputato della facoltà di chiedere l’applicazione di riti alternativi sono stati interessati da plurimi interventi della Consulta, caratterizzati da una tendenziale e graduale apertura verso l’esercizio di prerogative che risulterebbero altrimenti precluse, rilevandosi al contempo che i prospettati dubbi di legittimità costituzionale avrebbero assunto consistenza se vagliati alla luce del «progressivo percorso di riallineamento costituzionale» della disciplina codicistica, i cui snodi essenziali vengono analiticamente ripercorsi dal rimettente, che evidenzia in particolare il passaggio da un atteggiamento di iniziale chiusura (sono citate le sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992, n. 277 e n. 593 del 1990, nonché l’ordinanza n. 213 del 1992), al riconoscimento della possibilità di un recupero dei riti alternativi nel caso di contestazioni dibattimentali cosiddette “patologiche” (si menzionavano a tal riguardo le sentenze n. 139 del 2015, n. 184 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994), e infine all’estensione di tale recupero anche nelle ipotesi di nuove contestazioni cosiddette “fisiologiche” (si citavano a tal proposito le sentenze n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014, n. 237 del 2012 e n. 530 del 1995).

Ciò posto, era oltre tutto fatto presente,  posto che la richiesta di accesso ai riti alternativi costituisce una delle modalità più qualificanti di esercizio del diritto di difesa, come si creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento se, al ricorrere di situazioni processuali analoghe, la facoltà di chiederli fosse diversamente disciplinata; né tantomeno si spiegherebbe la previsione dell’avviso rivolto all’imputato, nei vari atti con i quali si dispone il giudizio in mancanza di udienza preliminare, circa la facoltà di accedere ai riti alternativi, la cui omissione è sanzionata con la nullità.

In altri termini, tale previsione verrebbe «sostanzialmente elusa, nelle ipotesi in cui i contorni dell’accusa – oggetto e termine di riferimento delle “scelte” difensive dell’imputato – subiscano in dibattimento (“fisiologicamente” o meno) un significativo e qualificato mutamento contenutistico, senza offrire una possibilità di “rinnovare” quelle scelte in rapporto alla “novazione” della accusa», assumendosi, quindi, che la facoltà di richiedere riti alternativi «si salda a doppio filo al diritto di difesa – in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale più congeniale all’esercizio di quel diritto –» e che, di riflesso, risulterebbe di dubbia coerenza qualsiasi preclusione che ne limiti l’esercizio concreto, allorquando il sistema consenta una mutatio libelli in sede dibattimentale.

Conclusivamente, il rimettente asseriva come le argomentazioni sostenute dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 141 del 2018 sarebbero risultate perfettamente pertinenti e sovrapponibili alla fattispecie in esame da cui originava l’odierna questione di legittimità costituzionale, della richiesta da parte dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova con riferimento ai reati concorrenti oggetto di nuova contestazione.

3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Le questioni proposte erano reputate fondate per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che una fitta serie di pronunce della Consulta ha adeguato il principio di fluidità dell’imputazione, che costituisce un dato caratterizzante del nostro sistema processuale anche in sede dibattimentale, al diritto di difesa presidiato dall’art. 24 Cost. quale «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale» (sentenze n. 18 del 2022, n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982).

In particolare, tali pronunce hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non consentono all’imputato l’accesso a riti alternativi nell’ipotesi di nuove contestazioni, progressivamente superando l’originaria distinzione tra nuove contestazioni dibattimentali cosiddette “patologiche” e nuove contestazioni “fisiologiche” (sul punto, si richiamava in particolare la ricapitolazione svolta dalla sentenza n. 141 del 2018), e ciò è stato fatto in omaggio a una duplice esigenza: salvaguardare la pienezza del diritto di difesa dell’imputato, che comprende il diritto di optare per il rito alternativo alle condizioni stabilite dal legislatore, ed evitare l’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato che abbia potuto confrontarsi con una imputazione completa prima dell’inizio del dibattimento e quello rispetto al quale l’imputazione sia stata precisata o integrata soltanto nel corso del dibattimento, quando il termine per la scelta del rito alternativo è ormai scaduto.

La scelta del rito deve, in effetti, poter essere effettuata dall’imputato – assistito dal proprio difensore – con piena consapevolezza delle possibili conseguenze sul piano sanzionatorio connesse all’uno o all’altro rito, in relazione ai reati contestati dal pubblico ministero; sicché, di fronte a un mutamento dell’imputazione, ragioni di tutela del suo diritto di difesa e del principio di eguaglianza impongono che sia sempre consentito all’imputato rivalutare la propria scelta alla luce delle nuove contestazioni.

Così, il patteggiamento può oggi essere richiesto a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen. (sentenze n. 265 del 1994 e n. 206 del 2017), di una circostanza aggravante ex art. 517 cod. proc pen. (sentenza n. 184 del 2014) o di reati connessi ex art. 517 cod. proc pen. (sentenze n. 265 del 1994 e n. 82 del 2019) e il giudizio abbreviato può essere richiesto a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen. (sentenze n. 333 del 2009 e n. 273 del 2014), di una circostanza aggravante ex art. 517 cod. proc pen. (sentenza n. 139 del 2015) o di reati connessi ex art. 517 cod. proc pen. (sentenza n. 333 del 2009).

Ciò posto, quanto alla sospensione del procedimento con messa alla prova, che veniva in considerazione nel giudizio a quo, il giudice delle leggi rilevava come essa possa essere richiesta a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen. (sentenza n. 14 del 2020) e di una circostanza aggravante ex art. 517 cod. proc. pen. (sentenza n. 141 del 2018) ma nulla ha ancora la Corte costituzionale deciso in relazione alla nuova contestazione in dibattimento di reati connessi ex art. 517 cod. proc pen., vale a dire proprio quella preclusione di cui si doleva il rimettente nel caso di specie.

Orbene, a fronte di ciò, i giudici di legittimità costituzionale rilevavano come i principi espressi nelle pronunce menzionate impongano che anche tale residua preclusione sia rimossa, con conseguente restituzione dell’imputato nel diritto di esercitare le proprie scelte difensive, ivi compresa la richiesta di messa alla prova, anche nell’ipotesi oggetto delle odierne censure atteso che, come ha osservato sempre la Corte costituzionale, nella sentenza n. 82 del 2019, «[f]atto diverso e reato connesso, entrambi emersi per la prima volta in dibattimento, integrano […] evenienze processuali che, sul versante dell’accesso ai riti alternativi, non possono non rappresentare situazioni fra loro del tutto analoghe».

Pertanto, anche rispetto all’ipotesi di nuove contestazioni di reati connessi ex art. 517 cod. proc. pen., ad avviso della Corte di legittimità costituzionale, deve riconoscersi all’imputato la facoltà di chiedere la messa alla prova, che la sentenza n. 14 del 2020 ha già esteso all’ipotesi di contestazione di un fatto diverso, non ostando a tale conclusione la circostanza che la messa alla prova verrebbe in questo caso – a differenza delle ipotesi oggetto delle sentenze n. 141 del 2018 e n. 14 del 2020 – ad essere concessa non in relazione a un unico reato, bensì a più reati in concorso fra loro visto che la previsione di cui all’art. 168-bis, quarto comma, cod. pen. – secondo cui la sospensione del procedimento «non può essere concessa più di una volta» – non esclude la concedibilità della messa alla prova ogniqualvolta venga contestato più di un reato, quando – come nella fattispecie del giudizio a quo – per ciascuno dei reati in concorso sia astrattamente applicabile l’istituto della messa alla prova (Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 marzo 2015, n. 14112).

Al contrario, la peculiarità della sospensione del procedimento con messa alla prova, per la Consulta, imporrà piuttosto all’imputato, in tal caso, di scegliere se chiedere di essere sottoposto alla messa alla prova, ovvero se proseguire il processo nelle forme ordinarie, rispetto a tutti i reati contestati, compresi quelli oggetto dell’imputazione originaria dal momento che la ratio dell’istituto impone, in effetti, di distinguere la situazione all’esame da quella relativa al recupero del rito abbreviato, decisa dalla sentenza n. 237 del 2012, in cui la Consulta aveva ritenuto che la richiesta del rito dovesse in tal caso riferirsi ai soli reati oggetto di nuove contestazioni dibattimentali, senza che «l’imputato possa recuperare, a dibattimento inoltrato, gli effetti premiali del rito alternativo anche in rapporto all’intera platea delle imputazioni originarie, rispetto alle quali ha consapevolmente lasciato spirare il termine utile per la richiesta», tenuto conto altresì del fatto che, diversamente da quanto accade nel rito abbreviato, nella messa alla prova convivono un’anima processuale e una sostanziale e, segnatamente: da un lato, l’istituto è uno strumento di definizione alternativa del procedimento, che si inquadra a buon diritto tra i riti alternativi (sentenze n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015) e, allo stesso tempo, dall’altro, esso disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo e alla pena, ma con innegabili connotazioni sanzionatorie (sentenza n. 68 del 2019), che conduce, in caso di esito positivo, all’estinzione del reato.

Di conseguenza, proprio tale accentuata vocazione risocializzante, come ha giustamente evidenziato la giurisprudenza di legittimità, pure per il giudice delle leggi, si oppone alla possibilità di una messa alla prova “parziale”, ossia relativa ad alcuni soltanto dei reati contestati (Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 aprile 2021, n. 24707; Corte di Cassazione, sentenza n. 14112 del 2015).

Piuttosto, sempre ad avviso della Consulta, l’imputato dovrà essere rimesso in condizione di optare per la messa alla prova anche con riferimento alle imputazioni originarie, intraprendendo così quel percorso al quale avrebbe potuto orientarsi sin dall’inizio, ove si fosse confrontato con la totalità dei fatti via via contestatigli dal pubblico ministero, fermo restando però che una tale scelta dell’imputato non esclude d’altronde che l’istituto conservi la propria fisiologica funzione deflattiva anche in questa ipotesi, determinando comunque l’interruzione del processo e l’estinzione del reato nel caso di esito positivo della messa alla prova, il che consente sia di evitare lo svolgimento di ulteriore attività istruttoria, sia di eliminare ogni altro contenzioso legato all’impugnazione della sentenza di primo grado.

La Corte costituzionale, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede, in seguito alla contestazione di reati connessi a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la facoltà dell’imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, con riferimento a tutti i reati contestatigli.

4. Conclusioni

La decisione desta un certo interesse essendo ivi riconosciuta una nuova facoltà all’imputato.

Difatti, dal momento che l’art. 517 cod. proc. pen., come è noto, regola cosa accade nel caso in cui, nel corso dell’istruzione dibattimentale, emerga un reato connesso a norma dell’articolo 12 comma 1, lettera b), cod. proc. pen., ovvero una circostanza aggravante, e non ve ne sia menzione nel decreto che dispone il giudizio, per effetto di questo intervento della Consulta, è adesso concessa all’imputato, in tale ipotesi, e precisamente nel caso di contestazione di reati connessi a norma dell’art. 12, co. 1, lett. b), cod. proc. pen., la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova con riferimento a tutti i reati contestatigli.

Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si verifichi una situazione processuale di questo genere, e l’imputato voglia avvalersi di questo rito speciale.

Ad ogni modo il giudizio in ordine a quanto statuito in tale sentenza, proprio perché rafforza il diritto di difesa attraverso il riconoscimento all’imputato di una facoltà, che prima che venisse pronunciata questa decisione, non era prevista a suo favore, non può che essere positivo.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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