La conservazione dell’impresa e dei posti di lavoro

Redazione 03/11/20
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Conservazione e prosecuzione dell’impresa

Questo contributo è tratto da

Lavoro e crisi d’impresa

Il lavoro quale elemento cardine dell’ordinamento italiano non trovava adeguato spazio, né tutela nel sistema complesso delle procedure concorsuali. Il d.lgs. n. 14/2019, che ha profondamente riformato la materia concorsuale e introdotto il “Nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza” prevede, per la prima volta, una disciplina ad hoc per i rapporti di lavoro dipendente. L’opera si propone di analizzare l’evoluzione della rilevanza che la tutela del lavoro dipendente, ma non solo, ha assunto nella disciplina concorsuale, fondata finora prevalentemente sulla tutela del diritto di credito. La ricerca e la rilevanza di soluzioni conservative, alternative alla liquidazione dell’impresa, l’introduzione di sistemi di allerta tali da assicurare un tempestivo e più proficuo intervento nella gestione della crisi rappresenta la chiave di volta nell’individuazione di punti di contatto tra due materie che, finora, sono state delineate quali due rette parallele dirette al perseguimento di obiettivi diametralmente opposti. Questa una delle linee fondamentali della riforma che viene compiutamente illustrata comunque nella prospettiva della sua entrata in vigore.   Mariaelena Belvisoaffronta il tema della tutela del lavoro nella crisi d’impresa con una tesi di laurea in Giurisprudenza, dal titolo “Diritto del lavoro e diritto fallimentare: prospettive di dialogo”, votata con lode, presso l’Università LUMSA di Roma. Approfondisce tale tematica anche durante il tirocinio svolto, dal 2017 al 2019, presso la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione.

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La finalizzazione delle procedure concorsuali alla conservazione del valore dell’impresa è, come si è visto, frutto di un percorso lungo ed affannoso come attesta il
suo aver preso le mosse da una scelta normativa che imponeva all’organo amministrativo dell’impresa l’obbligo cosiddetto di «portare i libri in Tribunale» all’insorgere dell’insolvenza, tenuto conto del disposto dell’articolo 224, che, rinviando all’art. 217 della Legge fallimentare, prevedeva la responsabilità degli amministratori qualora dalla loro attività ovvero dall’inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge fosse derivato l’aggravarsi del dissesto dell’impresa.
Del resto, una opzione operata dai medesimi organi amministrativi dell’impresa in favore della prosecuzione dell’attività imprenditoriale a fronte di una situazione di
crisi o di insolvenza era ritenuta in contrasto con gli obblighi, posti dagli artt. 2932 e 2934 c.c., di diligente gestione a partire dall’insorgere della crisi e di conservazione del patrimonio aziendale volto alla tutela dei creditori.
La dichiarazione di fallimento si imponeva come regola generale ordinariamente seguita in un contesto economico in cui la stabilità dei mercati configurava lo stato
di insolvenza dell’imprenditore come evento straordinario.
È al mutamento di tale contesto che si deve l’inversione di rotta progressivamente affermatasi. Il connotarsi dei mercati come instabili ed insicuri finiva per rendere
inefficienti i meccanismi meramente liquidatori che si riguardavano come suscettibili di produrre aspettative depressive, di realizzare finzione operativa tanto improduttiva quanto dannosa. Una tale consapevolezza maturava già dagli anni ’70 in ambito comunitario.
E qui, nel quadro di un programma di azione sociale che, non a caso, prendeva le mosse dalla direttiva 75/129/CEE, intesa, in particolare, a coinvolgere il sindacato nella gestione delle eccedenze di personale conseguenti a processi di riorganizzazione, ristrutturazione e riconversione di attività imprenditoriali, in funzione della tutela dei lavoratori interessati da licenziamenti collettivi, trovava forma nella definizione, ovviamente secondo la direttrice tipica del mercato unico, data dal ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, di una disciplina europea del trasferimento d’azienda, nel convincimento che il favorire la circolazione, in tutto o anche solo per singoli rami, del complesso aziendale avrebbe costituito la migliore garanzia di conservazione dell’assetto della produzione e dei suoi fattori, con particolare riguardo al lavoro.

Il trasferimento (del ramo) d’azienda

In effetti, il trasferimento d’azienda o di un suo ramo veniva ad inserirsi nella procedura di composizione della crisi d’impresa in quanto forma di attuazione della
continuità aziendale di tipo «indiretto». Significativamente la direttiva 77/187/CEE si intitolava al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di
imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti e imponeva lo svolgersi della vicenda circolatoria, implicante in qualsiasi forma giuridica il subentro nella titolarità
dell’impresa di un imprenditore ad un altro, sotto il controllo sociale del sindacato entro un perimetro di garanzie individuali date dall’irrilevanza della vicenda medesima ai fini della risoluzione dei rapporti in essere, salva l’ammissibilità dei licenziamenti motivati da ragioni economiche, tecniche di organizzazione implicanti variazioni sul piano dell’occupazione, dal trasferimento dal cedente al cessionario dei diritti e degli obblighi connessi ai contratti di lavoro, dalla solidarietà tra i soggetti della successione nei contratti stessi, dal mantenimento delle condizioni di lavoro fino alla data di scadenza del contratto collettivo applicabile o dell’entrata in vigore di un diverso contratto collettivo, dal diritto alla rappresentanza sindacale.
Una garanzia, questa, ivi delineata in termini di integrale invarianza della consistenza e della qualità del lavoro nell’impresa in mobilità ma poi riletta nella giurisprudenza della Corte di Giustizia in modo da ammetterne l’attenuazione, secondo quanto verrà poi formalizzato all’art. 4 bis della direttiva 98/50/CE e ribadito all’art. 5 della direttiva ancora successiva 2001/23/CE, che, abrogando la precedente, si sostituirà ad essa nella regolamentazione del medesimo istituto, nell’ipotesi in cui la vicenda circolatoria sarebbe venuta ad interessare un’impresa il cui originario titolare, cedente, fosse stato oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente medesimo e svolgentesi sotto il controllo di un’autorità pubblica competente.
L’attenuazione si concretava nel consentire agli Stati membri di derogare alla solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti di lavoro, fermo restando l’obbligo della protezione comunitaria in caso di insolvenza del datore di lavoro e, soprattutto, di legittimare intese sindacali modificative delle condizioni di lavoro del personale ceduto, laddove, tuttavia, l’obiettivo in tal modo perseguito fosse comunque quello di salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o di stabilimenti.
La problematica si imponeva nel nostro ordinamento solo all’alba degli anni Novanta, allorché l’incalzare della più grave crisi, non solo economica ma politico-istituzionale, fino ad oggi vissuta dal nostro Paese consigliava di abbandonare la strategia di fatto invalsa da oltre quindici anni di imbrigliare le dinamiche di mercato attraverso un’azione pubblica di sostegno all’occupazione, in particolare con riguardo alle grandi imprese industriali e commerciali, fondata sul ricorso, massiccio, incondizionato e tendenzialmente non soggetto a termine, agli ammortizzatori sociali. Una strategia che valeva a conferire piena attualità a quella direttiva costituzionale intesa a promuovere la massima occupazione cui il legislatore ordinario aveva dato attuazione, consolidando nel corso degli anni ’60 la costruzione, quale modello social-tipico di rapporto di lavoro, del rapporto a tempo indeterminato pieno e stabile (1), idoneo a fornire adeguata garanzia all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto.

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Lavoro e crisi d’impresa

Il lavoro quale elemento cardine dell’ordinamento italiano non trovava adeguato spazio, né tutela nel sistema complesso delle procedure concorsuali. Il d.lgs. n. 14/2019, che ha profondamente riformato la materia concorsuale e introdotto il “Nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza” prevede, per la prima volta, una disciplina ad hoc per i rapporti di lavoro dipendente. L’opera si propone di analizzare l’evoluzione della rilevanza che la tutela del lavoro dipendente, ma non solo, ha assunto nella disciplina concorsuale, fondata finora prevalentemente sulla tutela del diritto di credito. La ricerca e la rilevanza di soluzioni conservative, alternative alla liquidazione dell’impresa, l’introduzione di sistemi di allerta tali da assicurare un tempestivo e più proficuo intervento nella gestione della crisi rappresenta la chiave di volta nell’individuazione di punti di contatto tra due materie che, finora, sono state delineate quali due rette parallele dirette al perseguimento di obiettivi diametralmente opposti. Questa una delle linee fondamentali della riforma che viene compiutamente illustrata comunque nella prospettiva della sua entrata in vigore.   Mariaelena Belvisoaffronta il tema della tutela del lavoro nella crisi d’impresa con una tesi di laurea in Giurisprudenza, dal titolo “Diritto del lavoro e diritto fallimentare: prospettive di dialogo”, votata con lode, presso l’Università LUMSA di Roma. Approfondisce tale tematica anche durante il tirocinio svolto, dal 2017 al 2019, presso la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione.

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