La confisca per equivalente nei reati tributari

Francesco Naio 20/10/11
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La massima:

“In tema di responsabilità da reato degli enti, la Corte, nel ribadire i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26654 del 2008, ha precisato che il sequestro preventivo funzionale alla confisca può avere ad oggetto i crediti vantati dalla persona giuridica, purchè questi siano certi, liquidi ed esigibili e costituiscano effettivamente il profitto del reato presupposto, evidenziando altresì che il perimetro del provvedimento cautelare è segnato dagli stessi limiti riconosciuti dalla legge per quello definitivo di ablazione.”

1. I crediti della persona giuridica sono assoggettabili a sequestro preventivo: un importante arresto giurisprudenziale.

Con sentenza n. 35748 del 5 ottobre 2010 la Sesta sezione della Suprema Corte ha confermato l’orientamento già espresso da Cass. SS.UU., 2 luglio 2008, n. 26654 in materia di confisca per equivalente e profitto del reato.

Le Sezioni Unite del 2008 avevano rilevato come con l’espressione “profitto del reato” dovesse intendersi il “vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato […] concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente.” Con la statuizione del principio in parola le SS.UU. intesero risolvere la problematica della distinzione tra profitto lordo e netto, escludendo il riferimento a parametri di valutazione di tipo aziendalistico in ordine alla determinazione in concreto del profitto del reato e mettendo in rilievo come sola “unità di misura” dello stesso la pertinenzialità al reato in concreto consumato. In quest’ottica, la correlazione intercorrente in via diretta e immediata tra reato e profitto costituisce esclude “qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita a ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito”, ciò che ha costituito motivo di impugnazione dell’ordinanza del giudice di rinvio datata 20 ottobre 2009 per la contestata astrattezza in sede di individuazione delle utilità in concreto sottoponibili a sequestro preventivo.

La vicenda giudiziaria in oggetto ebbe inizio con la misura del sequestro ex art. 53 d.lgs 231/2001, disposta dal G.i.p. di Napoli nel giugno 2007 nei confronti di una somma ritenuta equivalente al valore del profitto dell’illecito consumato nell’interesse delle società imputate. Detta misura, prodromica alla confisca ex art. 19 medesimo decreto, veniva disposta con riferimento al delitto di truffa ai danni dello Stato di cui all’art. 640 co. 2, punto 1, c.p. espressamente richiamato dall’art. 24 d.lgs 231/2001 in materia di responsabilità degli enti.

Successivamente, contro l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame del capoluogo partenopeo confermava il provvedimento di sequestro preventivo del G.i.p., veniva proposto ricorso in Cassazione. Alla pronuncia sopra citata delle Sezioni Unite, nel disporre l’annullamento con rinvio dell’ordinanza in oggetto, faceva seguito la decisione con cui il Tribunale di Napoli, in data 24 luglio 2008, disponeva il dissequestro delle somme, annullando il provvedimento del G.i.p. per mancata allegazione di elementi idonei alla determinazione in concreto delle prestazioni realizzate a seguito dell’attività illecita, logicamente distinte da quelle regolarmente conseguite nell’ambito del rapporto sinallagmatico.

La decisione del giudice del rinvio veniva annullata dalla successiva sentenza con cui la Seconda sezione della Corte di Cassazione si limitava a confermare il dissequestro e la restituzione alle società imputate di parte della somma originariamente sottoposta a sequestro, relativa alla tariffa di smaltimento dei rifiuti da essa effettivamente incassata. Con la pronuncia in oggetto i giudici della Suprema Corte rilevavano come il principio fissato dalle SS.UU. in sent. n. 26654/2008 comportasse l’obbligo, per il giudice, di procedere alla disamina di ogni singola somma sottoposta a sequestro allo scopo di verificare la sussistenza, in capo a ciascuna, del nesso di pertinenzialità con la condotta illecita, attività cui il Tribunale di Napoli in sede di rinvio non aveva ottemperato.

In ultimo, i giudici del tribunale campano provvedevano ad integrare tale lacuna vagliando le singole somme sequestrate e confermando il provvedimento di sequestro preventivo con esclusivo riferimento ad alcune delle stesse. L’ordinanza in oggetto veniva impugnata tanto dal P.M. quanto dalla difesa, dando con ciò impulso alla Suprema Corte a vagliare la corretta applicazione dei principi di diritto sanciti dalle Sezioni Unite. I giudici della Sesta sezione, dopo aver preliminarmente ribadito la distinzione di fondo tra reati-contratto e reati in contratto (in cui l’illecito non si realizza con la stipula del contratto, come per i primi, bensì incide esclusivamente sulla fase di formazione o di esecuzione del contratto) ed aver ricondotto il reato di truffa contestato a quest’ultima categoria, con la conseguenza della impossibilità di escludere aprioristicamente l’ipotesi di profitti leciti scaturenti dal rapporto sinallagmatico, hanno tentato di determinare in concreto il vantaggio economico derivante in via immediata e diretta dalla pars illicita dell’attività complessivamente svolta dalle imprese ricorrenti.

Su ciò la Corte ha inteso imperniare il giudizio di legittimità relativo all’ordinanza impugnata, indicando alcuni punti fermi in ordine alle somme per le quali il provvedimento in parola aveva confermato il sequestro preventivo. In primo luogo la sentenza n. 35748/2010 ha escluso dal novero delle somme sequestrabili a fini di confisca per equivalente quelle costituenti l’importo relativo alla fideiussione bancaria prestata dalle società indagate per l’adempimento dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione in sostituzione dell’omesso deposito cauzionale. Hanno infatti sostenuto i giudici della Sesta sezione che la sottoposizione a sequestro dell’importo in esame sarebbe suscettibile di confondere i piani del danno indiretto cagionato alla P.A., come tale oggetto di pretesa risarcitoria, e del profitto del reato. In tal senso, ove si ritenesse, sia pure in via ipotetica, la diretta derivazione del ritardo nella escussione delle garanzie personali dal reato di truffa contestato, non risulta tuttavia esserne derivato alcun effettivo incremento patrimoniale per le imprese ricorrenti, dovendosi pertanto escludere che la somma in oggetto costituisca “profitto del reato” nei termini indicati dalle SS.UU.

Analoghe motivazioni ha addotto la Suprema Corte per negare la possibilità di sottoporre a sequestro preventivo ex art. 53 d.lgs. 231/2001 tanto le spese anticipate per la costruzione di impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti da parte dell’ente governativo preposto alla gestione dell’emergenza rifiuti, quanto per le somme relative alle spese dal medesimo organo sostenute per far fronte all’inadempimento in ordine allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Il Tribunale del riesame avrebbe infatti operato, anche in questo caso, una indebita sovrapposizione tra profitto di reato e pretesa risarcitoria consequenziale al pregiudizio economico arrecato alla P.A. per inadempimento contrattuale. Inoltre, sul punto i giudici di legittimità hanno specificato che l’importo in esame non può essere ricondotto neanche alla nozione di profitto inteso come “risparmio di spesa” in quanto, come precisato dalle Sezioni Unite nel 2008, “per poter parlare di profitto come risparmio di spesa conseguito sarebbe stato necessario individuare un risultato economico positivo concretamente determinato dalla contestata condotta di truffa, situazione che non si riscontra nella specie, in cui non vi è stato alcun introito da parte delle società indagate.”

Da ultimo, la Corte ha escluso dal novero degli importi sequestrabili a fini di confisca per equivalente gli investimenti effettuati dalle società indagate in esecuzione dell’onere contrattuale consistente nella realizzazione di un termovalorizzatore; somme che, causa il nuovo bando di gara conseguente alla risoluzione ex lege dei contratti, la nuova stazione appaltante avrebbe poi dovuto procedere a restituire alle medesime imprese. Non si può sostenere, infatti, che la costruzione di un termovalorizzatore, come da contratti originariamente stipulati e successivamente risolti, sia suscettibile di integrare il profitto del reato di cui agli artt. 640 co. 2 c.p. e 24 d.lgs 231/2001, posto che la realizzazione del manufatto in questione non è in sé atto connotato da illiceità. Né rileva, a fini di determinazione del predetto profitto secondo i principi delineati dalle SS.UU., la circostanza che la messa in opera del termovalorizzatore sia stata effettuata usufruendo di capitali delle società appaltatrici, considerato che il credito dalle stesse vantato nei confronti della nuova stazione appaltante non ha alcun legame con il profitto del reato.

In effetti lo snodo più interessante sembra essere proprio quello relativo ai crediti aventi ad oggetto la tariffa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, vantati dalle imprese ricorrenti nei confronti dei Comuni e non ancora incassati. Sul punto, il capoverso 5.2 della pronuncia in esame si dilunga con dovizia di particolari. I giudici di legittimità hanno infatti ritenuto che il sequestro preventivo funzionale alla confisca possa riguardare anche i crediti vantati dall’ente purché certi, liquidi ed esigibili e concretizzino l’effettivo profitto del reato contestato. Si precisa infatti che solo i crediti non contestati e precisamente determinati nell’ammontare siano assimilabili al concetto di “profitto del reato” come delineato dalle Sezioni Unite, cioè a dire “un vantaggio direttamente e immediatamente derivante dal reato commesso nell’interesse od a vantaggio dell’ente; mancando tali caratteri – rileva la Suprema Corte – si tratterebbe di un’utilità futura e incerta, che mai assumerebbe i connotati e la natura di profitto, poiché è proprio la certezza, la liquidità e la immediata esigibilità del credito che lo rende un bene sostanzialmente già nella disponibilità dell’avente diritto, sicché si giustifica la sua apprensione ai sensi degli articoli 19 e 53 D.Lgs. 231/2001.”

Conformemente al principio di diritto sancito da Cass. SS.UU. 2 luglio 2008 n. 26654 dunque, i giudici della Sesta sezione hanno escluso la possibilità di sottoporre a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente crediti non connotati da certezza, liquidità ed esigibilità, il destinatario del provvedimento venendo, in caso contrario, “privato di un bene già a sua disposizione in ragione di una utilità non ancora concretamente realizzata”, futuribile, come tale dubbia e solo ipotetica.  

 

2 La confisca per equivalente. Ratio ed evoluzione normativa e giurisprudenziale di un istituto controverso.

L’art. 1 co. 143 della L. 24 dicembre 2007 n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)”, ha introdotto l’istituto della confisca per equivalente, ai fini della repressione dei delitti indirizzati a far conseguire al reo un profitto di natura economica.

Detto articolo prevede che “nei casi di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 si osservano, in quanto applicabili le disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p.”. In quest’ottica il legislatore ha ritenuto che l’istituto in oggetto, finalizzato a sottrarre al reo il profitto conseguito mediante la sua condotta criminosa, sia suscettibile di rivestire un ruolo importante (e persino educativo in ordine alla diffusione di una cultura della legalità tributaria, allo stato attuale piuttosto debole in Italia) nel contrasto all’evasione fiscale.

Antecedentemente alla citata previsione normativa l’istituto della confisca, che il Codice penale annovera tra le misure di sicurezza patrimoniale, era disciplinato in via generale dall’art. 240 c.p., la cui attuale formulazione prevede come suscettibili di confisca facoltativa “le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato”, nonché “le cose che ne sono il prodotto od il profitto”, prevedendo invece al co. 2 n. 1 l’obbligo di confisca con riferimento alle sole cose costituenti “il prezzo del reato”.

All’art. 240 c.p. vanno affiancate due previsioni normative. In primo luogo l’art. 322-ter c.p., disciplinante la confisca dei beni costituenti il prezzo o il profitto dei delitti previsti dagli artt. che vanno da 314 a 320 c.p. o, in alternativa, la confisca per equivalente (intesa come confisca di beni “per un valore corrispondente a tale prezzo”). In secondo luogo l’art. 321 co. 2 c.p.p., che prevede la possibilità di procedere, sin dalla fase delle indagini preliminari, al sequestro preventivo dei beni individuati come potenziale oggetto di confisca.

Dal 2008 quindi, le possibilità di applicazione dell’istituto della confisca per equivalente vengono allargate a quasi tutti i reati tributari. Si tratta dell’estensione generalizzata di un istituto con ogni evidenza percepito dal legislatore come pregnante e potenzialmente risolutivo di non poche controversie afferenti al recupero di somme di denaro illecitamente conseguite, con specifico riferimento ai reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

In tal senso, il legislatore ha optato per un rinvio alla disciplina dell’art. 322-ter c.p.: in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dagli artt. da 314 a 320 c.p., anche se commessi dai soggetti indicati nell’art. 322 bis c.p. co. 1 (“membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee”), il giudice è sempre tenuto a ordinare la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato medesimo. Ove ciò non sia possibile, l’organo giudicante dispone la confisca dei beni nella disponibilità del reo per un valore corrispondente al prezzo del reato. Idem “per il reato di cui all’art. 321, con l’inciso che quando non sia possibile la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto, si proceda alla confisca dei beni di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello, in denaro o altre utilità, dato o promesso al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, o agli altri soggetti indicati nel predetto articolo.” [1]

Discende da questa norma, in prima battuta, l’obbligatorietà (anche nell’ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444 c.p.p.), con riferimento a reati tributari, della confisca del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta dovuta. Inoltre, aspetto ancor più innovativo, la normativa citata prevede anche per i reati in parola la possibilità di procedere a sequestro per equivalente, prodromico alla confisca, in tutti i casi in cui sia inattuabile l’individuazione dei beni in concreto oggetto del profitto conseguente alla condotta criminosa. In quest’ottica, nella impossibilità di confiscare le cose costituenti il prezzo o il profitto della condotta delittuosa, lo Stato aggredisce somme di denaro, beni e/o altre utilità di valore equivalente al profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta dovuta da parte dell’obbligato; cioè a dire le somme di denaro che, attraverso il meccanismo dell’evasione d’imposta, lo Stato non è riuscito ad assoggettare a tassazione.

La confisca per equivalente viene così ad assumere una facies eminentemente sanzionatoria (carattere questo, così spesso messo in rilievo dalla dottrina in relazione alla confisca tout-court), “costituendo una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”.[2] Stabilita la somma di denaro oggetto della mancata corresponsione di imposte dovute, ivi inclusa l’eventuale percezione di indebito rimborso, ed acclarata l’impossibilità di procedere al sequestro degli utili provento della condotta delittuosa, la prassi sarà quella di procedere in primo luogo al sequestro ed in secondo luogo alla confisca di denaro liquido o di beni di valore equivalente a quelli sottratti all’Erario, senza alcuna necessità di far riferimento al c.d. “nesso di pertinenzialità”, né di individuare i beni specifici provento del commesso reato, individuazione che (specie in ordine alla natura di risparmio propria alla condotta evasiva) renderebbe de facto improbabile la confisca.

La stessa giurisprudenza prevalente consente di mettere in rilievo come, ai fini del sequestro preventivo funzionale all’applicazione della misura di confisca per equivalente, non occorra in alcun modo provare il nesso di pertinenzialità del bene rispetto al delitto, essendo assoggettabili a confisca beni nella disponibilità dell’imputato per un valore conforme al profitto o al prezzo del reato.

Si noti, nello specifico, che in materia di reati tributari non è contemplato un prezzo, bensì un profitto del reato, inteso come utile ottenuto in seguito alla commissione del reato. Poiché l’art. 322-ter c.p. prevede che la misura deve trovare attuazione nei confronti di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a detto profitto, al fine di procedere a confisca per equivalente non si può prescindere dai seguenti presupposti:

 1) la persona colpita dalla confisca per equivalente deve essere sottoposta a indagini per uno dei reati per i quali sia espressamente prevista l’applicazione della misura in parola (ossia i delitti tributari di cui al d.lgs. n. 74/2000, richiamati dall’art. 1 co. 143 L. 244/2007);

2) nella sfera giuridico-patrimoniale del reo non dev’essere stato rinvenuto in alcun caso il prezzo o il profitto del reato per cui si procede, prezzo o profitto di cui tuttavia dev’essere certa la sussistenza;

3) le cose da sottoporre a sequestro non devono assolutamente essere di proprietà di terzi estranei alla commissione del delitto.

In ordine a quest’ultimo punto dunque, i beni sottoposti a confisca per equivalente devono obbligatoriamente rientrare nella disponibilità di una persona giudicata responsabile di uno qualunque dei reati di cui al d.lgs. n. 74/2000.  

 

1.3 Ipotesi particolari: concorso ex art. 110 c.p. e confisca nei confronti di persone giuridiche..

Da quanto detto discende un importante corollario in materia di concorso di persone nel reato (art. 110 c.p.): è legittimo il sequestro effettuato nei confronti di un solo concorrente nel reato per l’intero importo relativo al prezzo o al profitto del medesimo, anche ove le illecite liquidità siano state attinte in tutto o in parte da altri soggetti sottoposti a indagini per il caso de quo[3].

In quest’ottica, la confisca per equivalente può operare anche nei confronti dei beni rientranti nella sfera giuridico-patrimoniale del soggetto attivo – persona fisica – che abbia agito in nome e per conto di una persona giuridica (per esempio, una società) e che abbia poi acquisito per l’intero il profitto derivante dalla illecita condotta. Specie nei reati tributari questo orientamento può conoscere sviluppi interessanti, posto che il soggetto attivo del reato agisce unicamente in veste di rappresentante di una società, nel cui esclusivo interesse ha conseguito l’evasione dell’imposta.

Inoltre va evidenziato come, antecedentemente all’entrata in vigore del D.lgs. n. 231/2001 (“Legge avente ad oggetto la responsabilità amministrativa degli enti”), non fosse apprezzabile la soluzione dell’applicazione della confisca per equivalente anche nei confronti della persona giuridica: questo perchè si rilevava come la norma ne prevedesse l’applicazione solo nei confronti del reo – persona fisica e non anche nei confronti della persona giuridica nel cui nome il reo avesse illecitamente agito (“societas delinquere non potest”). Tuttavia in un secondo momento la Suprema Corte[4] ha rilevato come la confisca per equivalente nei confronti delle persone giuridiche sia possibile per i fatti-reato commessi in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (attualmente sottoposta al vaglio delle Camere per talune modifiche che si preannunciano radicali…); ma ciò solo in quanto in detto decreto, introdotta la responsabilità amministrativa degli enti per taluni reati commessi dai propri rappresentanti, l’art. 19 prevede espressamente la confisca per equivalente. Ad ogni modo va specificato che questa normativa non trova applicazione nell’alveo di sviluppo dei reati tributari, non essendo questi ricompresi nel ventaglio delle condotte illecite per le quali sia possibile ipotizzare tale responsabilità, a differenza di quanto avviene per i reati richiamati sia dall’art. 322 ter c.p. (corruzione, concussione, peculato e via dicendo),  sia dall’art. 640 quater c.p. (truffa ai danni dello Stato).

Del resto la recente pronuncia[5] della Sezione VI Pen. della Suprema Corte n. 35748/2010, oggetto del presente studio, è così massimata: “In tema di responsabilità da reato degli enti, la Corte, nel ribadire i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26654 del 2008[6], ha precisato che il sequestro preventivo funzionale alla confisca può avere ad oggetto i crediti vantati dalla persona giuridica, purchè questi siano certi, liquidi ed esigibili e costituiscano effettivamente il profitto del reato presupposto, evidenziando altresì che il perimetro del provvedimento cautelare è segnato dagli stessi limiti riconosciuti dalla legge per quello definitivo di ablazione.”

 

3 “Prezzo” e “profitto” del reato. Profitto realizzato mediante la mancata corresponsione dell’imposta.

Altro presupposto per l’applicazione della misura oggetto del presente studio, come rilevato, è la sussistenza di un profitto o prezzo conseguente alla condotta illecita integrante il reato per il quale si procede: un vantaggio patrimoniale tuttavia mai rinvenuto, ma la cui esistenza non sia messa in discussione. Ne deriva che la confisca per equivalente non sarà esperibile laddove nessun vantaggio patrimoniale sia stato effettivamente conseguito dalla condotta illecita. È questo un aspetto suscettibile di assumere una certa rilevanza in materia di reati tributari, posto che talune fattispecie tributarie assumono la configurazione di reati di pericolo, realizzabili anche ove in concreto non abbia avuto luogo alcun danno per l’Erario, ergo nessuna evasione di imposta[7].

Inoltre, la confisca ha ad oggetto necessariamente un valore corrispondente al profitto conseguito[8] ed a beni nella disponibilità del reo. Si osserva come la nozione di “disponibilità” non implichi ineluttabilmente la titolarità, da parte del reo, di un diritto reale o obbligatorio su detti beni, bastando la (necessaria) presenza di elementi di fatto che indichino come il soggetto abbia una disponibilità di fatto sul bene[9] agendo su di esso uti dominus, quindi ponendosi in una situazione di fatto assimilabile a quella del proprietario. Ciò, nonostante sia da considerarsi eccessivamente ampliativa una eventuale interpretazione del concetto di “disponibilità di fatto” connessa ad una qualsiasi situazione giuridica formale (locazione, possesso…) che consenta al soggetto di disporre del bene, in quanto vi sarebbe ricompresa senza discriminazione qualunque situazione obbligatoria.

Su questo filone interpretativo sembra peraltro essersi orientata anche la giurisprudenza. Si possono richiamare pronunce in materia di misure di prevenzione che, in relazione al concetto di “disponibilità del bene” quale presupposto per la confisca, osservano come siano esperibili sequestro e confisca di beni formalmente intestati a terzi laddove sussista la prova rigorosa e certa dell’esistenza di situazioni concrete in grado di confermare l’ipotesi del carattere puramente formale dell’intestazione, avente la mera funzionalità di conservare di fatto il bene nell’autonoma disponibilità del reo.

Va considerato un ulteriore punto, di particolare delicatezza ai fini del presente contributo. In materia di reati tributari, nella maggior parte dei casi il profitto si realizza mediante la mancata corresponsione dell’imposta, ergo non conseguendo un provento in denaro, bensì a mezzo di un risparmio economico (in quanto tale, non assoggettabile a confisca ex art. 240 c.p.).

Poiché, come riferito, la norma richiede che si faccia ricorso alla confisca per equivalente solo ove non sia materialmente possibile procedere al sequestro del bene, diretto provento del reato, va da sé che in simili circostanze nessun bene sarà mai individuabile in concreto.[10]

Sul punto si è espressa in passato la Suprema Corte, che sulla scia di un orientamento consolidato in materia di reati tributari ha ribadito la non assoggettabilità a sequestro preventivo, nella prospettiva di una successiva confisca, del saldo liquido di un conto corrente in misura equivalente all’imposta evasa: ciò, in forza della impossibilità di “rintracciare” il necessario rapporto di diretta filiazione tra l’evasione dell’imposta e la disponibilità del conto medesimo, non potendosi sostenere che la disponibilità liquida sia frutto dell’indebito arricchimento per una somma corrispondente all’imposta evasa.[11] Tale situazione è un esempio macroscopico di quello che si potrebbe definire il “problema del nesso di pertinenzialità”.  

 

4 Il problema del “nesso di pertinenzialità”.

La normativa antecedente alla Finanziaria 2008 in materia di confisca si è rivelata spesso inadeguata alla repressione del fenomeno dei reati tributari (fattispecie delittuose non prive di peculiarità), in quanto inidonea ad intaccare in maniera efficace e definitiva il profitto illecitamente conseguito a causa della previsione, ai fini della confisca, della sussistenza di una relazione espressa, caratterizzata da attualità e strumentalità, tra bene sequestrato e illecita condotta di cui costituiva profitto.

Ciò implicava l’ammissibilità del sequestro solo nel caso in cui l’illecito profitto fosse materialmente identificabile nel bene specifico appreso dall’autore del reato alla propria disponibilità, come diretta conseguenza della condotta criminosa[12]. Questo comportava, nel caso di un profitto realizzato mediante percezione di somme di denaro, che potesse procedersi alla loro confisca solo in presenza di indizi sufficienti a ritenere che il denaro di provenienza illecita fosse stato depositato su un conto bancario o investito in titoli che, in un secondo momento, avrebbero potuto formare l’oggetto del provvedimento cautelare reale[13]; o ancora, che dette somme fossero state investite nell’acquisto di beni che, in quanto frutto del diretto reimpiego del denaro illecitamente conseguito, erano destinati a formare il naturale oggetto della confisca[14]. In tal senso non sarebbe stato possibile sequestrare una qualunque somma di denaro, essendo necessaria l’individuazione di quella specifica somma direttamente derivata, in termini di causalità, dall’attività del reo, il che determinava una serie di difficoltà pratiche di non poco conto.

Nel 2004 le SS.UU. penali hanno ribadito che per aversi la confisca delle somme costituenti il profitto dell’illecita condotta deve “pur sempre sussistere, comunque, il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il denaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa)”; in tal senso deveessere tenuta ferma l’esigenza di una diretta derivazione causale dell’attività del reo intesa quale stretta correlazione con la condotta illecita”[15].

La ferrea previsione della necessaria correlazione tra attività del reo e condotta illecita ha de facto limitato i casi di confiscabilità di somme di denaro od altre utilità alle sole, rare situazioni in cui sia accertabile in concreto il bene specifico, oggetto del vantaggio patrimoniale motivante la condotta evasiva. Nello specifico, ciò assume rilevanza con riferimento alle ipotesi in cui la condotta illecita abbia trovato espressione non già a mezzo del mancato pagamento dell’imposta, bensì mediante il conseguimento di un indebito rimborso (che, pure, il d.lgs. n. 74/2000 espressamente equipara alla condotta evasiva) ove individuabile il luogo di deposito del denaro oggetto di rimborso o dei beni oggetto di reinvestimento.[16]

Va notato tuttavia che, al fine di fornire una soluzione concreta alla problematica in esame, recentemente taluni giudici di merito hanno inteso applicare anche ai reati tributari l’art. 640- quater c.p., co. 2 n.1, disposizione normativa che estende l’applicazione dell’art. 322-ter c.p. alle ipotesi di truffa ai danni dello Stato: “Nei casi di cui agli articoli 640, secondo comma, numero 1, 640-bis e 640-ter, secondo comma, con esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nell’articolo 322-ter.”

Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha registrato l’evolversi di due distinti orientamenti, basando la propria valutazione sulla distinzione tra i concetti di “prezzo” e “profitto” di cui all’art. 322-ter co. 1-2 c.p.,

Il primo orientamento, di portata alquanto restrittiva, reputa la confisca de qua regolata in maniera specifica e separata nell’art. 322-ter co. 2 c.p.: essa troverebbe dunque applicazione solo in relazione al (non più aggredibile) “prezzo” del reato, inteso come l’utile “pattuito e conseguito da una persona determinata, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito”[17].

Il secondo orientamento invece è proprio ad alcune pronunce più recenti[18], secondo le quali la confisca per equivalente del valore del “profitto” regolamentata dal co. 2 dell’art. 322-ter c.p. è applicabile proprio in forza del richiamo di cui all’art. 640-quater c.p. “che, altrimenti, risulterebbe svuotato di ogni significato, anche alla fattispecie di cui all’art. 640-bis c.p.”. Qui per “profitto” si intende “l’utile ottenuto in seguito alla commissione del reato”.[19]

Questa più recente giurisprudenza, confortata dalle Sezioni Unite[20], considera dunque l’esclusione della confiscabilità contraria alla ratio dell’art. 640-quater c.p. che,  mediante un rinvio indifferenziato alle disposizioni contenute nell’art. 322-ter  c.p., tenta di osteggiare con maggiore efficacia il fenomeno criminoso della indebita percezione di fondi. Ciò implica, chiaramente, l’assoggettamento del reato di truffa al regime della confisca per equivalente.

Sic stantibus rebus alcuni giudici di merito hanno ritenuto di disporre il sequestro di denaro e di altri beni non caratterizzati dalla sussistenza del nesso di pertinenzialità con la condotta illecita, reputando esperibile anche in materia penale tributaria la confisca per equivalente ex art. 640-quater c.p. Pertanto, una volta fissata la somma di denaro oggetto della mancata corresponsione di imposte dovute e verificata l’impossibilità di procedere al sequestro del provento del reato, si potrà procedere al sequestro ed alla confisca di liquidità (somme di danaro) o beni aventi un valore equivalente a quelli sottratti all’Erario. Tutto ciò, senza alcuna necessità di procedere a una individuazione specifica di beni legati alla condotta illecita da un nesso di pertinenzialità che, soprattutto in relazione alla natura di risparmio peculiare della condotta evasiva, continuerebbe a rendere difficile, se non addirittura impossibile, la confisca in materia tributaria.  

 

5 Irretroattività della confisca per equivalente: le Ordinanze della Corte Costituzionale del 2 aprile 2009, n. 97 e del 1 dicembre 2009, n. 301.

Considerazioni di una certa importanza possono esser svolte anche circa la problematica temporale, con riferimento alla decorrenza dell’istituto in esame.

Si osserva come la confisca per equivalente, in ambito penale tributario, possa teoricamente trovare attuazione anche in ordine a condotte criminose commesse anteriormente alla sua introduzione nell’ordinamento. Si sottolinea infatti che il principio di irretroattività della legge penale operi nei riguardi delle sole norme incriminatici, non anche rispetto alle misure di sicurezza; ciò implicherebbe la possibilità di disporre la confisca anche nei confronti del profitto di condotte illecite, poste in essere in un lasso temporale in cui non sussisteva previsione alcuna del menzionato istituto o in cui lo stesso trovava differente disciplina.

L’art. 200 co. 1 c.p., a norma del quale “Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”, va senz’altro interpretato nel senso che la misura di sicurezza non applicabile per un fatto che al momento della sua commissione non costituiva reato, è invece senz’altro applicabile per un fatto di reato per il quale in un primo momento la misura non era prevista; ciò proprio in considerazione del fatto che il principio di irretroattività della legge penale riguarda (come sopra accennato) le norme incriminatici, non anche le misure di sicurezza, per natura correlate alla situazione di pericolosità attuale del reo[21].

In giurisprudenza sussistono vari orientamenti sul tema. Secondo un orientamento minoritario può essere disposto il sequestro (finalizzato ad assicurare allo Stato la disponibilità dei beni per i quali sia permessa, o addirittura imposta, la confisca in presenza di un determinato epilogo del procedimento penale) prodromico alla confisca per equivalente, per i reati tributari commessi in periodi d’imposta antecedenti l’anno 2008. Ciò in considerazione del fatto che, avendo la Finanziaria 2008 notoriamente esteso l’applicabilità della confisca per equivalente ex art. 322/ter c.p. ai principali delitti tributari, di nessuna rilevanza sarebbe la circostanza della eventuale entrata in vigore di tale norma posteriormente alla commissione del fatto di reato; e ciò in quanto nel vuoto causato dall’assenza di una norma transitoria è da ritenersi pienamente applicabile l’art. 200 c.p. in materia di misure di sicurezza personali, richiamato dal successivo art. 236 c.p. per le misure di sicurezza patrimoniali.

Queste ultime, a norma dell’articolo citato, sono disciplinate in via esclusiva dalla legge in vigore al tempo della loro attuazione; di conseguenza saranno applicabili anche ai delitti per i quali, all’epoca della perpetrazione, non era prevista alcuna misura o ne era prevista una diversa. Stante ciò, l’applicabilità della confisca per equivalente renderebbe, stando all’orientamento giurisprudenziale in esame, automaticamente possibile ai sensi dell’art. 321 co. 2 c.p.p. il sequestro preventivo, funzionale alla susseguente confisca per equivalente.

Tuttavia, detta tesi non trova unanime sostegno. Il legislatore ha de facto adoperato la confisca ben oltre le tipiche finalità della classica misura di sicurezza, come tale applicabile ai soggetti socialmente pericolosi con funzione eminentemente preventiva; l’istituto ormai assume anche la funzione, tipicamente sanzionatoria, di misura ora penale, ora civile, ora financo amministrativa. E allora è di tutta evidenza e di agevole comprensione che, allorquando assume funzione di misura penale, la confisca non può non essere soggetta al regime di irretroattività fissato dall’art. 2 c.p.[22]

In particolare, una pronunzia delle Sezioni Unite (sent. del 10 gennaio 2007, n. 316) si è pronunciata in questi termini: “una lettura costituzionalmente orientata del divieto della norma penale (e di quella che introduce violazioni amministrative) non consente di applicarla a condotte antecedenti all’entrata in vigore della norma incriminatrice, intese come singole percezioni di somme, quale che sia il momento consumativi del reato… la confisca per equivalente è applicabile solo in relazione alle somme percepite successivamente all’entrata in vigore della norma che ha introdotto non solo tale istituto, ma anche la stessa responsabilità per illecito amministrativo delle persone giuridiche.” D’altra parte le Sezioni Unite avevano già avuto occasione, nel 2005, di evidenziare che la confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter c.p. “costituendo una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti viene ad assumere un carattere eminentemente sanzionatorio”.[23]

Quindi, mediante coerente adesione ai principi costituzionali, la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata a favore della inapplicabilità retroattiva della confisca per equivalente.

Da tale orientamento le Sezioni della Suprema Corte non si sono, sostanzialmente, più discostate.[24] Fanno fede di ciò, ex multis, due recenti pronunce. La prima[25] evidenzia che “La circostanza, infine, che la Legge 24 dicembre 2007, n. 244 (disposizione per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato) abbia disposto, nell’art.1, comma 143, la applicabilità dell’articolo 322 ter cod. pen., e dunque dell’istituto della confisca ’per equivalente’, ai reati di cui al decreto Legislativo 10 marzo 2000 n. 74, articoli 2,3,4,5,8,10 bis, 10 ter, 10 quater e 11, non produce conseguenze di sorta agli effetti dell’odierno scrutinio, giacchè nessuna portata retroattiva potrebbe annettersi alla intervenuta recente estensione anche ai reati fiscali della confisca e del conseguente sequestro ’per equivalente’, avuto riguardo alla giurisprudenza di questa Corte, più volte espressasi nel senso della natura eminentemente sanzionatoria dell’eccezionale istituto in esame (Cass.., Sez. II, 9 novembre 2006, Quarta n. 38803, Cass Sez. II, 14 giugno 2006, Ghetta, n. 31988; Cass. Sez. V. 16 gennaio 2004, Napoletano n. 15445). A riguardo, tenuto conto della natura del tutto peculiare che caratterizza la confisca per equivalente nella quale viene ad essere sostanzialmente novato lo stesso titolo in forza del quale si legittima il provvedimento di ablazione sembra, infatti, coerente ritenere non estensibile la regola dettata dall’art. 200 c.p. in forza della quale le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione. […] L’estensione di una simile regola ad un provvedimento ablatorio patrimoniale a connotazione sanzionatoria, senza che sia dato riscontrare alcun elemento di pericolosità degli specifici beni da sottoporre a confisca, finirebbe per prestare il fianco a seri dubbi di costituzionalità, considerato, fra l’altro, che la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto in contrasto con i principi sanciti dall’art. 7 della Convenzione proprio una ipotesi di applicazione retroattiva della confisca di beni.”

La seconda pronuncia[26] è più diretta: “Non appare dubbio, pertanto, che la confisca per equivalente prevista dall’art. 322 ter c.p. non possa trovare applicazione con riferimento ai reati tributari di cui al D.lgs n. 74/2000 commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge che ha esteso l’osservanza delle citate disposizioni del codice penale”.

In conclusione giova citare la recentissima Ordinanza n. 97/2009 della Corte Costituzionale, conseguente a giudizio di legittimità costituzionale relativo agli artt. 200 e 322-ter c.p. nonché all’art. 1 co. 143 L. 244/2007 (Finanziaria 2008) sollevato dal GUP del Tribunale di Trento nel procedimento penale a carico di S.B., con applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. per la commissione di taluni reati tributari e fallimentari anteriormente all’entrata in vigore della citata Finanziaria. Tale Ordinanza, richiamando i principi costituzionali dettati dall’art. 25 co. 2 nonché la sentenza della Corte europea del 9 febbraio 1995 Welch vs United Kingdom, ha inteso mettere in rilievo in via definitiva come l’eventuale riconoscimento della retroattività della confisca per equivalente comportrebbe anche la violazione dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nella parte in cui stabilisce che “non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”. Nel far ciò, la Consulta ha ribadito che la confisca costituisce una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti, ergo “alla stregua della giurisprudenza della Corte di cassazione, una misura di sicurezza di carattere «eminentemente sanzionatorio» (sezioni unite penali, n. 41936 del 2005) e, pertanto, sostanzialmente, una “pena”, anche «secondo la nozione che ne fornisce la Corte europea dei diritti dell’uomo»”. In tal senso assume rilievo la qualificazione della confisca per equivalente come vera e propria sanzione penale, più che come mera misura di sicurezza. Di conseguenza l’Ordinanza n. 97/2009, sebbene si ponga nel solco della prevalente giurisprudenza di Cassazione con riferimento alla problematica della irretroattività della confisca per equivalente nei reati tributari, assume tuttavia carattere di novità in ordine alla qualificazione giuridica della misura come sanzione penale tout-court. D’altra parte, a scanso di equivoci, la Consulta si è nuovamente pronunciata in tal senso in una successiva Ordinanza, la n. 301/2009, in cui ha rilevato come la misura-sanzione della confisca per equivalente “in ragione della mancanza di pericolosità dei beni che ne costituiscono oggetto, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato ed i beni − palesa una connotazione prevalentemente afflittiva ed ha, dunque, una natura «eminentemente sanzionatoria», tale da impedire l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale della retroattività delle misure di sicurezza, sancito dall’art. 200 cod. pen.”

 

6 Conclusioni

L’estensione della confisca per equivalente, tendente per natura all’eliminazione o attenuazione del nesso di pertinenzialità, ai reati tributari di cui al d.lgs. 74/2000 mira a dare una risposta definitiva alla richiesta di effettività di una misura notoriamente trascurata, e tuttavia percepita dal legislatore come potenzialmente dotata di particolare incisività. Ciò assume valenza ancora maggiore in un contesto di incalzante “globalizzazione del processo”[27] parallela alla globalizzazione dei fenomeni criminali (si pensi ai c.d. reati transnazionali), con la relativa implementazione del profilo tecnologico-scientifico ed un necessario, nonché massiccio, slittamento dell’asse sanzionatorio dalla classica sanzione personale a quella patrimoniale, che va assumendo un ruolo preponderante in quanto suscettibile di svolgere una funzione forte, dotata di efficacia anche simbolica.

Se si considera che l’attuale crisi economica sembra aver contribuito ulteriormente al già galoppante fenomeno dell’evasione fiscale su scala nazionale è di agile comprensione che uno strumento come la confisca per equivalente, se applicato nel rispetto della sua natura snella e tagliata sulle singole fattispecie di volta in volta valutate, può incidere positivamente sulla repressione dei reati tributari. Con essa, proprio al fine di ovviare agli inconvenienti sopra indicati e conseguenti all’applicazione della generale disciplina codicistica, si tenta di regolamentare il fenomeno della confisca dei beni rientranti nella disponibilità del reo per un valore equivalente al profitto conseguito, indipendentemente dalla loro connessione, diretta o indiretta, con la condotta delittuosa tenuta dal soggetto agente. Ciò tanto ove non sia possibile individuare in concreto il bene specifico oggetto del profitto, quanto ove questo non sia materialmente presente, essendo il vantaggio patrimoniale della condotta illecita conferito da un risparmio di spese previste dal regime fiscale.


[1]Cass. Pen., Sez. III,  sent. 24.9.2008 n. 39173 (Tiraboschi).

[2]Cass. Pen., SS. UU., sent. n. 41936/2005.

[3]Cass., sez. V, 16-01-2004 (Napolitano), in Foro It., 2004, II, 685: nell’ipotesi di concorso di persone nel reato, stante la natura giuridica unitaria del concorso criminoso, può essere raggiunto dalla misura cautelare del sequestro per equivalente, rispetto all’intero importo del ritenuto prezzo o profitto del reato, uno qualsiasi dei concorrenti, anche se il prezzo o il profitto non sia affatto transitato, o sia transitato in minima parte, nel suo patrimonio e sia stato invece materialmente appreso da altri; sulla natura sanzionatoria di questa confisca anche Cass. Pen., S. U., sent. n. 41936/2005.

[4]Cass. Pen, Sez. II, 12.12.2006/31.1.2007, n. 3629 (Ideai Standard s.r.l).; Cass. Pen., Sez. II, 21.12.2006/10.1.2007, n. 316 (Spera).

[5]Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 35748 del 17 giugno 2010.

[6]“Il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto -ai sensi degli art. 19 e 53 del d.lgs. n. 231/’01- nei confronti dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente.”

[7]Sul punto, sono reati di pericolo realizzabili anche in assenza di una effettiva evasione di imposta le fattispecie di cui agli artt. 2, 8, 10 e 11 del d.lgs. n. 74/2000 ove si richiede la presenza della finalità evasiva o sottrattiva (art. 11), ma non la realizzazione di questo obiettivo.

[8]Cass. Pen., Sez. II, 30.5/18.9.2006, n. 30790 (Pedercini): la confisca non può avvenire per un valore superiore al profitto conseguito. In questa occasione tuttavia si è evidenziato come il giudice non sia tenuto a fare una stima del valore dei beni, ben potendo limitarsi a disporre la confisca dei beni fino alla concorrenza del provento indebitamente percepito, residuando alla fase dell’esecuzione gli adempimenti estimatori.

[9]Cass. Pen., Sez. II, n. 30790/2006: è legittimo il sequestro di due aziende di cui gli imputati avevano la disponibilità.

[10]Ciò, sebbene l’impossibilità di reperire e sequestrare gli illeciti profitti (ove astrattamente individuabili, come nel caso di indebito rimborso) non necessariamente abbia carattere definitivo; anzi, può persino trattarsi di una impossibilità transitoria o reversibile, purché sussistente all’atto della richiesta ed applicazione della misura cautelare reale. Sotto il profilo della motivazione del provvedimento è sufficiente far cenno della pur temporanea indisponibilità della res, senza descrizione dettagliata delle attività volte alla ricerca dell’originario profitto del reato. V. Cass. Pen. sez. II, sent. n. 19662/2007 (D’Antuono e Cirone): “la possibile precarietà di tale circostanza di fatto condiziona anche l’onere di motivazione del provvedimento cautelare, che va limitato al richiamo della sia pur momentanea indisponibilità del bene, senza che sia necessario dare dettagliatamente conto delle attività volte alla ricerca dell’originario prodotto o profitto del reato.”

[11]Cass., pen., sez. III, 20-03-1996 (Centofanti) in tema di frode fiscale; Cass. Pen., sez. III, 3.10.2001, in Impresa, 2001, ove con riferimento ai delitti di cui agli artt. 5 e 10 d.lgs. n. 74/2000 è indicato che tra detti delitti e l’oggetto del sequestro preventivo deve sussistere un diretto collegamento che nell’ipotesi di giacenze su conto corrente bancario sequestrate all’indagato non sussiste, ben potendo dette liquidità essere pertinenti ad una qualsiasi altra utilità non correlata ai delitti.

[12]Cass. Pen., sez. VI, 21.10.1994 (Giacalone), in Cass. Pen. 1996, 2315.

[13]Corte di Cassazione, sez. VI, 25.3.2003, n. 23773 (Madaffari).

[14]Cass. Pen., sez. VI, 14-04-1993 (Ciarletta).

[15]Cass. Pen., SS.UU., 24-05-2004, n. 29951(Focarelli), in Cass. pen., 2004, 3087.

[16]Cass. Pen., sez. III, 19.9/28.10.2003 n. 40462 (Ariasi), in Rass. Trib. 2004, 2115: è ammissibile il sequestro presso l’Agenzia delle Entrate, quale terzo debitore, del credito Iva del soggetto attivo del reato in caso di frode fiscale perpetrata mediante emissione di fatture false a società prestanome dirette a far beneficiare il reo di un ingente importo di Iva a credito; in tale ipotesi infatti, la somma sequestrata, trovandosi presso il debitore, non si è ancora confusa con altro denaro fungibile, bensì costituisce una cosa mobile determinata.

[17]Cass. Pen., Sez. Un., 17/10/1996, n. 9149.

[18]Cass. Pen., sez. I, 9/3/2005, n. 9395.

[19]Ibid. 

[20]Cass. Pen, S.U., sent. n. 41936/2005.

[21]Ex multis, cfr. Cass. Pen., Sez. II, 05.4.2002 (Stangolini).

[22]Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 39172/08 (Canisto): “Non può peraltro ritenersi rilevante per una diversa interpretazione dell’art. 1, comma 143, della L. n. 244/2007, il fatto che la disposizione citata non abbia stabilito espressamente la irretroattività della norma in sede di estensione dell’applicazione dell’art. 322 ter c.p. ai reati tributari. L’effetto estensivo, invero, è riferito all’istituto della confisca, così come disciplinato dalla citata disposizione del codice penale, che trova, pertanto, la sua giustificazione e ratio nella stessa funzione sanzionatoria originariamente prevista dalla norma”.

[23]Cass. Pen., SS. UU., sent. n. 41936/2005.

[24]Ma v. Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 6293/2010: è possibile il sequestro preventivo, in funzione della successiva confisca, di beni di valore corrispondente all’IVA non versata per il periodo d’imposta 2007, nonostante la disposizione che ha reso applicabile la confisca per equivalente ai reati tributari (art. 1, comma 143, della L. 244/2007) sia in vigore dal 1° gennaio 2008 e non applicabile retroattivamente. Il contrasto è però solo apparente. La condotta illecita in oggetto è ravvisabile nell’omesso versamento dell’IVA ex art. 10-ter D.lgs. 74/2000: detto versamento va effettuato, come da L. n. 405/1990 (art. 6 co.2), entro il 27 dicembre, ergo rilevando il momento consumativo del reato può dirsi che l’omesso versamento dell’IVA relativa all’anno 2007 si è perfezionato soltanto il 27 dicembre 2008, in perfetta vigenza dell’art. 1 co. 143, L. n. 244/2007.

[25]Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 21566/2008.

[26]Cass. Pen. III, sent. n. 39172/08 (Canisto), cit.

[27]A. LAUDATI, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, relazione tenuta al Seminario “La confisca per equivalente” – Scuola Forense Tribunale di Taranto, 14.04.2010.

Francesco Naio

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