La conferenza dei capi gruppo negli enti locali siciliani

Greco Massimo 04/03/10
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La Sezione Regionale di Controllo per la Toscana della Corte dei Conti è stata chiamata dal Consiglio delle Autonomie locali della Regione Toscana ad esprimersi in ordine al diritto che hanno i singoli componenti della conferenza dei Capigruppo in seno agli enti locali a percepire il gettone di presenza per la partecipazione alle relative sedute formulando un parere non del tutto condivisibile.

 

1. La normativa di riferimento

 

L’art. 77, comma 1, del TUEL stabilisce che “La Repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nelle Amministrazioni degli Enti Locali ad espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessarie ed usufruendo di indennità e di rimborsi spese nei modi e nei limiti previsti dalla legge”.

 L’art. 82, comma 2, del medesimo TUEL, prevede che “I consiglieri comunali, provinciali, circoscrizionali e delle comunità montane hanno diritto a percepire, nei limiti fissati dal presente capo, un gettone di presenza per la partecipazione a consigli e commissioni. In nessun caso l’ammontare percepito nell’ambito di un mese da un consigliere può superare l’importo pari ad un quarto dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente in base al decreto di cui al comma 8. Nessuna indennità è dovuta ai consiglieri circoscrizionali”.

 

L’ordinamento siciliano, sul punto, sembra essersi adeguato fedelmente. L’art. 19, comma 4° prevede infatti che “I consiglieri comunali, provinciali e circoscrizionali hanno diritto a percepire, nei limiti fissati dal presente capo, un gettone di presenza per la partecipazione a consigli e commissioni. In nessun caso l’ammontare percepito nell’ambito di un mese da un consigliere può superare l’importo pari ad un terzo dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente in base al regolamento di cui al comma 1”.

Inoltre, l’art. 19 bis, comma 1°, della L.r. n. 30/2000 aggiunto dalla L.r. n. 22/2008 al secondo periodo così recita: “Salve le disposizioni previste per le forme associative degli enti locali, gli amministratori locali di cui all’articolo 15, comma 2, secondo periodo, non percepiscono alcun compenso, tranne quanto dovuto ai sensi dell’articolo 21, per la partecipazione ad organi o commissioni comunque denominate, se tale partecipazione è connessa all’esercizio delle proprie funzioni pubbliche”.

 

 

2. Le argomentazioni della Corte dei Conti


Il principio del ristoro delle funzioni pubbliche elettive – affermato anche a livello locale – promana dunque dalla necessità di garantire che l’accesso alle predette cariche, spettante a tutti i candidati a mente dell’art. 51 Cost., risulti il più possibile agevolato e non invece impedito, anche in linea con i principi di ragionevolezza e di uguaglianza, da ostacoli – per lo più incidenti sulle condizioni economiche dei candidati – che rendono oltremodo gravoso l’esercizio di siffatto incarico[1].

Tuttavia, la Sezione Regionale di Controllo per la Toscana desume che la volontà del legislatore statale sia stata quella di introdurre un criterio di onnicomprensività dei compensi percepiti da consiglieri degli enti locali (art. 83, comma 2) e la conseguente tassatività dei casi in cui si matura il diritto a percepire il gettone di presenza che, ai sensi dell’art. 82, si riferisce esplicitamente alla “partecipazione a consigli e commissioni”, ai quali la conferenza dei Capigruppo non può analogicamente essere assimilata, oltre che per interpretazione letterale della norma di cui all’art. 82, anche per la natura della funzione esercitata (in tal senso parere Ministero dell’Interno – Direzione centrale per le Autonomie del 2 settembre 2009).

A nostro parere le argomentazioni della Corte dei Conti appaiono “sbrigative” per almeno tre motivi. Il primo, perché il dato letterale è tutt’altro che tassativo. Non appare infatti così pacifica l’esclusione della commissione dei capi-gruppo dal novero delle commissioni consiliari. Stante infatti il citato principio della remuneratività delle funzioni pubbliche elettive, ne deriva che ogni eccezione a questo postulato debba essere espressamente ed inequivocabilmente manifestata, e non indirettamente ricavata sulla base del generale contesto normativo a cui fa riferimento la Corte dei Conti o, addirittura, sull’onda politico-mediatica (c.d. riduzione dei costi della politica).

 
Il secondo, perché non viene adeguatamente contestualizzato il nuovo status del consigliere degli Enti locali tracciato dal TUEL. Il terzo perché viene esclusa a priori ogni ipotesi di autonomia regolamentare riconosciuta agli Enti locali dalla riforma del Titolo V° della Costituzione.

 
In disparte ogni considerazione in ordine agli effetti pratici di una interpretazione quale quella propugnata dalla Corte dei Conti, si assisterebbe infatti alla pressoché sistematica rinuncia all’incarico di Capogruppo. Si verificherebbe in sostanza una incompatibilità de facto che spingerebbe ad una opzione generalizzata, con conseguente abrogazione in concreto della possibilità, riconosciuta dall’autonomia normativa degli enti locali – come di seguito illustrato – di affidare alla conferenza dei capi-gruppo compiti d’istruttoria e funzioni deliberanti.

 


3. Il Consigliere dopo le riforme istituzionali


La riforma del Titolo V° della Costituzione, nel riconoscere pari dignità tra i vari livelli istituzionali che compongono la Repubblica, ha aperto nuovi scenari di autogoverno locale all’interno del quale anche il singolo consigliere viene caricato di responsabilità che certamente prima non aveva. Il riconoscimento dell’Ente locale – Comune o Provincia – quale Organo politico rappresentativo del rispettivo territorio con funzioni chiare e nette in tema di programmazione, ambiente, pianificazione, e, più in generale, “..con competenze potenzialmente rappresentative della generalità degli interessi sociali, economici e culturali delle comunità amministrate”[2] ha certamente portato i Sindaci ed i Presidenti di Provincia ad assumere il ruolo di “Governatori Junior”. Tale nuova dimensione dell’Istituzione locale ha investito anche la figura del consigliere. La nuova identità del consigliere, infatti, si costruisce anche fuori dalle aule consiliari. Una nuova funzione esercitata nell’Istituzione ma anche “tra la gente”, per raccogliere le istanze che provengono dal territorio ed interfacciarle con l’azione politica dell’Ente locale. Una vera e propria funzione di “ascolto” quindi, che prima era soltanto esercitata a fini esclusivamente elettorali e che oggi viene istituzionalizzata anche attraverso apposite forme espressamente previste nello Statuto dell’Ente. Il D.lgs. n° 265/99 (in Sicilia la L.r n° 30/2000) aveva indirettamente riconosciuto tale funzione prevedendo un’innovazione significativa rispetto al passato, e cioè la possibilità per il consigliere di optare dal regime del gettone di presenza a quello dell’indennità di funzione. Ciò significava avere svincolato l’indennità di funzione dallo stretto legame alla sola partecipazione alle sedute. Se la nuova funzione del consigliere presupponeva un approccio concettuale siffatto, sarebbe risultato riduttivo, e certamente non funzionale, intendere l’indennità quale corrispettivo delle presenze del consigliere alle sole attività dell’Ente locale. Con la legge 265/99, infatti, i cui contenuti sono confluiti nel Testo Unico n. 267/2000, il legislatore ha voluto assegnare un nuovo e più pregnante ruolo sia all’organo consiliare che agli stessi consiglieri, che non si esaurisce esclusivamente nella partecipazione alle sedute del consiglio, ma che si estende alla partecipazione alle riunioni dei gruppi come momento propedeutico alla funzione politica, di elaborazione progettuale e di studio delle proposte presentate all’ordine del giorno o in corso di elaborazione, nonché alla partecipazione ad iniziative promosse dall’Amministrazione o dall’Ufficio di Presidenza al fine di assicurare l’informazione preventiva, elemento fondamentale per consentire ai consiglieri di svolgere il proprio compito non solo con consapevolezza, ma, soprattutto, con continuità, presidiando l’Ente. La riforma in questione, riconosce implicitamente che la funzione del consigliere non si riduce alla mera partecipazione alle sedute, ma deve estendersi ad altri momenti, a loro volta istituzionali, anche se ad efficacia esclusivamente interna, in quanto non generano atti amministrativi dotati del potere di costituire, modificare o estinguere diritti o posizioni giuridiche. Questo ragionamento portava a valutare la natura remuneratoria dell’indennità di funzione in luogo di quella risarcitoria del gettone di presenza, in considerazione dell’ampiezza e della continuità delle funzioni[3].

 

 

4. La riduzione dei costi della politica locale


Lo Stato, con la manovra finanziaria per l’anno 2008, ha voluto incidere sia sugli aspetti organizzativo-ordinamentali degli enti locali, apportando, attraverso i commi 23, 24 e 25 dell’art. 2 della Legge n. 244 del 24/12/2007 modifiche al T.U. n. 267/2000, che sugli aspetti della finanza pubblica, introducendo un vincolo riduttivo dei gettoni di presenza spettanti ai consiglieri per finalità che vanno al di là del mero equilibrio finanziario e quindi della riduzione generica della spesa. Nella fattispecie, che rileva in questa sede, sono stati esclusi i consiglieri dalla categoria degli Amministratori locali e dalla possibilità di optare per l’indennità di funzione in luogo del gettone di presenza per la partecipazione alle sedute istituzionali.

La moda della riduzione dei costi della politica sembra non risparmiare nessuna Istituzione, contaminando anche una Regione a statuto speciale come la Sicilia. Luci ed ombre hanno caratterizzato l’approvazione della L.r. n. 22 del 16/12/2008 attraverso la quale il legislatore siciliano si è, sostanzialmente, adeguato a quello statale. Se, infatti, poteva essere condivisa la riduzione del numero di assessori nelle giunte, stessa cosa non può dirsi per la scelta di avere eliminato lo status di Amministratore ai consiglieri degli enti locali sopprimendo loro l’opzione, prima prevista al comma 7 dell’art. 19 della L.r. n. 30/2000, di chiedere la trasformazione del gettone di presenza in una indennità di funzione, considerato altresì, che detta trasformazione non poteva in alcun caso comportare per l’ente maggiori oneri finanziari. Cosa buona e giusta è stato stabilire un limite massimo mensile per ogni consigliere, “…. venendo ad essere coinvolto lo specifico fine (sempre però di principio) della riduzione dei costi della politica, che non può essere disconnesso dalle ragioni di coordinamento finanziario proprie di obiettivi di portata chiaramente nazionale[4], inopinata ed affrettata è stata invece la scelta di degradare lo status del consigliere democraticamente eletto, privandolo della qualifica di Amministratore locale.

 

In sostanza, sia il legislatore statale che quello regionale hanno “scardinato” l’impostazione originaria che il TUEL aveva voluto dare alla riforma degli Enti locali, sopprimendo il principio dell’attività globale ed onnicomprensiva connessa alla funzione del consigliere ed ancorando la stessa alla sua presenza fisica negli organi istituzionali, remunerandolo (o risarcendolo) attraverso la percezione di un gettone di presenza. Quindi un decisivo passo indietro del legislatore innestato nel TUEL sull’onda emotiva della riduzione dei costi della politica.

 

La retromarcia voluta dal legislatore rappresenta la base argomentativa per dissentire da quanto affermato dalla Corte dei Conti. L’onnicomprensività delle attività del consigliere a cui fa riferimento la Corte è stata infatti volutamente espunta dal TUEL ad opera del legislatore, attraverso la contestuale soppressione dell’istituto dell’indennità di funzione in luogo del gettone di presenza. Pertanto, non soccorrere a favore della tesi fin qui sostenuta ritenere la partecipazione alle commissioni dei capi-gruppo un’attività connessa all’esercizio del mandato elettivo e come tale diversa da quelle per le quali è prevista l’erogazione del gettone di presenza.

 


5. Il potere normativo degli Enti locali dopo la riforma del Titolo V° della Costituzione

 

L’assetto odierno delle autonomie locali non è probabilmente quello definitivo alla luce della recente approvazione del Codice delle Autonomie Locali a cura del Consiglio dei Ministri. Troppo numerosi ed evidenti sono gli scompensi che la concreta applicazione della recente normativa ha determinato. Tuttavia, “Tra i principi ispiratori, vi è certamente quello che attribuisce centralità al Comune e alla Provincia nell’organizzazione pubblica, al fine di favorire la realizzazione del principi di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Tali enti, in virtù della loro maggiore vicinanza con i cittadini, infatti, sono in condizione di coglierne meglio i bisogni e le esigenze e di sollecitarne la partecipazione e l’intervento attivo in ambiti tradizionalmente pubblici[5].

 

La riforma costituzionale, conformemente all’impianto federalista che la ispira, conferisce agli Enti locali piena dignità rispetto allo Stato e alle Regioni, i quali non possono più vantare la precedente generale prevalenza su tutti gli altri soggetti pubblici, soprattutto nell’ambito dell’amministrazione attiva degli interessi pubblici. “In realtà, il principio di pari dignità costituzionale espresso dall’articolo 114 della Costituzione, non costituisce il necessario corollario della loro autonomia ma rappresenta una significativa novità del legislatore costituzionale del 2003. La pari dignità deriva dal carattere esponenziale degli enti territoriali i quali,  attraverso gli organi eletti dalle comunità di riferimento, hanno il potere-dovere di promuovere, interpretare e perseguire gli interessi delle popolazioni di appartenenza; da ciò discende l’autonomia statutaria che è riconosciuta a tutti gli enti territoriali che costituiscono la Repubblica[6].

 

Per la verità, il principio autonomistico degli Enti locali preesisteva alla modifica del Titolo V°, infatti si era già registrato un orientamento della giustizia amministrativa secondo cui “gli enti locali non possono farsi rientrare nel concetto di enti pubblici regionali o vigilati dalla Regione, trattandosi di enti autonomi che nella legislazione regionale vengono generalmente indicati come  <<enti locali territoriali>>[7]. Ma, dopo la modifica alla Costituzione il rispetto di tale principio ha acquisito rango costituzionale, tanto che “le autonome determinazioni della Regione devono favorire la piena realizzazione dell’autonomia degli enti locali”.[8] La Corte Costituzionale infatti, anche con specifico riferimento ad una regione ad autonomia speciale dotata di potestà legislativa primaria in tema di enti locali, ha affermato che una disposizione come quella di cui all’art. 5 della Costituzione certamente impegna la Repubblica “e anche quindi le regioni ad autonomia speciale, a riconoscere e a promuovere le autonomie”, ed ha aggiunto che “le leggi regionali possono bensì regolare” l’autonomia degli enti locali, “ma non mai comprimere fino a negarla[9]. Analogamente, si è ritenuto doveroso il “coinvolgimento degli enti locali infraregionali alle determinazioni regionali di ordinamento”, in considerazione “dell’originaria posizione di autonomia ad essi riconosciuta[10].

 

La posizione costituzionalmente garantita (anche) rispetto allo Stato ed alle Regioni degli enti locali è del tutto “inedita” nell’esperienza italiana. In particolare, tra gli ambiti ad essi assegnati, qui rileva la potestà statutaria conferita a questi enti dall’art. 114, secondo comma, Cost., e quella regolamentare che – in relazione alla <<organizzazione>> ed allo <<svolgimento>> delle loro funzioni – l’art. 117, sesto comma, assegna loro. Quest’ultimo comma è in grado di imporre alla legge, statale o regionale che sia, dei limiti non esistenti prima dell’entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001. Allo stesso modo deve concludersi in relazione all’art. 114, secondo comma, Cost., ed al ruolo autoorganizzatorio degli statuti in esso riconosciuto. “Il rilievo di queste disposizioni costituzionali per la questione trattata in questa sede è evidente. La potestà normativa relativa alla propria organizzazione degli enti sub regionali, prima della riforma costituzionale, sussisteva soltanto nella misura in cui fosse prevista dalla legge. Oggi, evidentemente, non è più così[11].

 

 

6. Conclusioni

 

Orbene, in forza del citato potere normativo riconosciuto agli enti locali, la conferenza dei Capigruppo può assumere, a norma di regolamento, funzioni non meramente consultive, bensì di studio, di proposta ovvero deliberative. In tale contesto, “E’ gioco forza ritenere che, quando funge da organo deliberante, la conferenza sia assoggettata alle regole proprie di tutti i collegi deliberanti, fra le quali quella che rende necessaria la preventiva iscrizione all’ordine del giorno[12].

 

In presenza di un organo collegiale di siffatta portata giuridica, espressamente previsto e disciplinato dal Regolamento del Consiglio (e/o dallo Statuto) ed in forza del pacifico principio esistente nel nostro ordinamento giuridico secondo cui è ammissibile tutto ciò che non è espressamente vietato, appare azzardato sostenere pregiudizialmente che lo stesso non possa essere contemplato tra le commissioni consiliari alla cui partecipazione connettere il riconoscimento del gettone di presenza. Del resto, secondo la letteratura che si è affermata sul tema, il concetto di munus pubblicum implica lo svolgimento di un compito che viene si “donato” alla collettività, ma non in chiave eminentemente gratuita, presupponendo pur sempre una situazione di debito a carico di coloro che ricevono tale “dono”[13]. Ora, non vi è dubbio sul fatto che l’impegno del Capogruppo, chiamato mediamente una volta la settimana alle riunioni della conferenza non solo per aspetti di natura consultiva, non può che essere superiore rispetto a quello di mero componente dell’organo consiliare e, di conseguenza, giustificato risulta anche un diverso trattamento economico, comportante un impegno assorbente e continuativo rispetto al semplice Consigliere. 

 

Peraltro, a proposito di costi della politica, il tetto massimo stabilito dalla legge pari ad un quarto dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente di provincia in base al decreto previsto dall’art. 19 della L.r. n. 30/2000, che ogni consigliere può percepire mensilmente per la partecipazione alle attività istituzionali connesse all’esercizio del mandato elettivo, mette comunque al riparo l’erario da un uso distorto della presenza finalizzata alla mera percezione del gettone.

 

Greco Massimo

 


[1] Corte Cost., sent. n. 194/1981.

[2] Corte dei Conti, sezioni riunite, 22 dicembre 1997, n. 82.

[3] Oliveri Luigi, “Problemi finanziari connessi alla trasformazione del gettone di presenza dei consiglieri in indennità di funzione”, Giust.it n.10-2002.

 

[4] Cons. Giust. Amm. Parere n. 649 del 5/09/2007.

[5] Diego Foderini, “Rinascita del federalismo territoriale, riforma dell’ordinamento delle autonomie locali e ridefinizione del ruolo del segretario comunale”, Giust.it, n. 11/2001).

 

[6] Paolo Jori, <<L’esercizio del potere sostitutivo dello Stato e delle regioni nell’ordinamento costituzionale vigente>>, Diritto.it, n. 1/2008).

 

[7] Tar Palermo, sez. I, 29/01/1996, n. 28.

[8] Corte Cost., sent. n. 238 del 26/06/2007.

[9] Corte Cost. sent. n. 83 del 1997.

[10] Corte Cost. sent. n. 229 del 2001.

[11] Simone Pajno, “Lo strano caso della competenza legislativa in materia di enti locali. Un percorso attraverso la giurisprudenza costituzionale”, Federalismi.it, n. 2/2010.

[12] Tar Umbria, sez. I°, sent. 09/12/2008 n. 802.

[13] Tar Sicilia, Palermo, sent. 06/10/2009 n. 1569.

Greco Massimo

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