La concezione polifunzionale della responsabilità civile e l’art. 96 comma 3 c.p.c.

Redazione 25/03/19
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di Ezio Maria Barbieri*

* Presidente emerito del TAR per la Lombardia

Sommario

1. Premessa

2. L’art. 96 c. 3 c.p.c. nella interpretazione delle Sezioni unite

3. L’art. 96 c. 3 c.p.c. nell’interpretazione della Corte costituzionale

4. Esame della giurisprudenza

5. Dubbi permanenti di legittimità costituzionale

A norma dell’art. 91 c. p. c. il giudice è tenuto a condannare la parte soccombente al rimborso delle spese e degli onorari di difesa che l’altra parte ha dovuto sostenere per effetto della sua ingiustificata chiamata in giudizio ovvero della sua resistenza nel processo. Obbiettivo di questa norma è soltanto quello di ristabilire un corretto riequilibrio del rapporto fra le parti, che non devono (o almeno non dovrebbero) subire un pregiudizio per il fatto di essere state costrette a convenire o per essere state convenute in giudizio quando il giudice abbia poi concluso riconoscendo il loro buon diritto.

Quando risulti, però, che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave il giudice, su istanza dell’altra parte, la può condannare, ai sensi dell’art. 96 c. 1 c.p.c., oltre che al pagamento delle spese del giudizio, anche al risarcimento dei danni che egli liquida, occorrendo anche d’ufficio, nella sentenza.

Infine, a norma dell’art. 96 c. 2 c.p.c., il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata può condannare al risarcimento dei danni anche l’attore o il creditore procedente, che abbia agito senza la normale prudenza.

La crisi del processo, senza differenze sostanziali fra quello civile, quello penale e quello amministrativo, nell’ordinamento giuridico italiano, da tempo collocata fra le concause della crisi economica nazionale, ha indotto il legislatore ad una molteplicità di interventi nell’intento, finora vano, di porvi rimedio[1].

Uno di questi interventi risale alla legge 18 giugno 2009, n. 69, il cui art. 45 c. 12 ha introdotto quello che ora costituisce il terzo comma dell’art. 96 del c.p.c. in forza del quale “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Si è prevista in questo modo a carico di chi agisce o resiste in giudizio una sanzione che si affianca alla responsabilità aggravata già prevista e regolamentata nelle due differenti situazioni di cui al primo ed al secondo comma dell’art. 96 c. p. c.

L’interpretazione da dare a questa norma e che sembra destinata ad un pacifico consolidamento può essere correttamente dedotta dall’ordinanza della Cass. civ. SS. UU. 7 febbraio – 5 luglio 2017, n. 16601, la quale in verità riguarda più specificatamente l’istituto dei “risarcimenti punitivi” esaminato in funzione della delibazione di alcune sentenze straniere. A questa decisione ha però già fatto seguito l’ordinanza Cass. civ. sez. III, 12 giugno 2018, n. 15209, che alle sezioni unite succitate si è espressamente riferita riprendendone motivazione e conclusioni al fine di dare applicazione al terzo comma dell’art. 96 c.p.c. Proprio quest’ultima decisione, dalla quale sembra doveroso dissentire, ha indotto alle riflessioni che seguono, prima che si consolidi un diritto vivente che desterebbe qualche preoccupazione.

[1] A questo proposito un caso emblematico di interventi legislativi numerosi e non sempre meditati è quello costituito dai ripetuti rimaneggiamenti del processo amministrativo in materia di appalti, ispirati in pari misura – a mio avviso – dall’esigenza per le amministrazioni pubbliche di accelerare l’esecuzione delle opere pubbliche e, per quanto possibile, dal sottaciuto ma trasparente desiderio di ostacolare gli interventi giudiziari in materia. Si veda in proposito il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, un codice degli appalti di 257 articoli (allegati a parte), cui sono state apportate nel tempo infinite modifiche, quali d. l. n. 34/2011 convertito in legge n. 75/2011, il d. lgs. n. 195/2011, il d. l. n. 21 convertito in legge n. 156/2012, il d. lgs. n. 160/2012, la legge n. 234/2012, il d. lgs. n. 33/2013, il d. l. n. 90/2014 convertito con modifiche in legge n. 114/2014, il d. l. n. 83/2015 convertito in legge n. 132/2015 e la legge n. 208/2015. Il tutto è poi culminato nel d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (codice dei contratti pubblici), composto da ben 220 articoli, tanto frettolosamente pubblicato da avere avuto bisogno di una serie impressionante di correzioni già nel luglio del 2016, delle quali è stata data comunicazione sulla Gazzetta ufficiale 15 luglio 2016, n. 164.

Chiamata a decidere se potesse essere riconosciuta efficacia ed esecutività nell’ordinamento nazionale a tre sentenze pronunciate negli Stati Uniti d’America che si riteneva veicolassero una liquidazione di danni punitivi la Corte suprema, pur respingendo i ricorsi e negando quindi il riconoscimento alle sentenze straniere suddette a causa delle modalità seguite dai giudici stranieri al fine di giungere ad una condanna per “punitive damages”, ha ritenuto di poter superare in via di principio la pretesa estraneità al risarcimento del danno dell’idea di punizione e di sanzione sulla quale la giurisprudenza della Cassazione era attestata nel 2007 ed ha condiviso il dinamico percorso di evoluzione della nozione di responsabilità civile affermatosi nella dottrina maggioritaria al fine di riallacciarsi e confermare il più recente orientamento della stessa Corte suprema ai sensi del quale la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non sarebbe più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento in quanto “negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento”. Di conseguenza si è ritenuto che “accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo-sanzionatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale ……. che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva”.

A queste considerazioni ha fatto seguito un corposo panorama normativo a sostegno della tesi accolta, concluso con il richiamo della sentenza n. 152/2016 della Corte costituzionale che, investita di questione relativa proprio all’art. 96 c.3 c.p.c., ha sancito la natura “non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive” di questa disposizione e dell’abrogato art. 385 c.p.c. La Corte suprema ha precisato, infine, che questo non comporta che ai giudici sia consentito imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati in quanto “ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni personali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario”.

Quanto poi al riconoscimento di sentenze che condannino a risarcire “punitive damages” la Corte precisa che occorre che “il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate, che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità”, che significano “precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità)”.

Con sentenza in data 23 giugno 2016, n. 152 la Corte costituzionale, concordando con la prospettazione dei giudici rimettenti e rifacendosi all’esegesi che della norma in questione già aveva fatto la Corte regolatrice, ha ritenuto che il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. sia una disposizione avente natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive. Una interpretazione che, per l’incertezza dell’atteggiamento definitorio che si è ritenuto di utilizzare, conferma chiaramente quanto l’art. 96 c. 3 c.p.c. non risultasse di agevole lettura. D’altra parte è la stessa Corte che fa una ammissione di questo genere prima ancora di accingersi all’interpretazione della norma. L’intento sanzionatorio della disposizione in questione troverebbe conferma, sotto un profilo lessicale, nel riferimento della condanna al “pagamento di una somma” anziché al “risarcimento dei danni” e, sotto altro profilo, nella adottabilità della stessa anche d’ufficio, conformemente alla sua finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non è comunque esclusivamente) quello della parte vittoriosa e che si colora di connotati innegabilmente pubblicistici. La Corte ritiene, inoltre, che la pronuncia della condanna direttamente a favore della controparte garantisca anche una maggiore effettività e più incisiva efficacia deterrente, idonee a potenziarne i voluti effetti.

La concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa, pregiudicata anch’essa da una temeraria o comunque ingiustificata chiamata in giudizio, troverebbe conferma, invece, nel fatto che la norma si aggiunge al risarcimento di cui di cui ai primi due commi dell’art. 96 c.p.c., contribuendo a superare anche le non infrequenti difficoltà di prova dell’an e del quantum del danno subìto per effetto di richieste o di resistenze ingiustificate.

Sulla base di queste considerazioni la Corte costituzionale ha concluso affermando che in presenza di entrambe le funzioni suddette deve escludersi la irragionevolezza della soluzione legislativa nella parte in cui il legislatore ha previsto la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata direttamente a favore della controparte vittoriosa, non bastando questo ad evidenziarne una manifesta irragionevolezza o arbitrarietà.

La giurisprudenza sopra indicata illustra esaurientemente gli argomenti sui quali essa ha ritenuto di basare le proprie conclusioni. La Corte costituzionale, però, ha giudicato opportuno premettere alla motivazione prescelta che “la nuova disposizione”, ovverossia l’art. 96 c.p.c., “probabilmente anche a seguito delle ….. modifiche apportate nell’iter legislativo, non è risultata di agevole lettura” ed ha successivamente precisato che essa non è irragionevole, specificando però, opportunamente e significativamente, che essa comunque non presenta “quel livello di manifesta irragionevolezza od arbitrarietà che unicamente consente il sindacato di legittimità costituzionale in ordine all’esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti processuali”. Questa premessa giustifica – credo – che si sottoponga di nuovo ad esame l’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c., sembrando logico dubitare che siano veramente esaurienti e quindi definitive le conclusioni di non fondatezza dei dubbi di illegittimità costituzionale di questa norma cui la Corte è pervenuta[2].

A questo scopo merita di essere ripercorso l’ampio panorama normativo che le sezioni unite hanno puntualmente composto, dal quale hanno ritenuto di dedurre che l’istituto aquiliano non ha mutato la sua essenza per effetto della sua possibile curvatura deterrente/sanzionatoria e quindi non consente ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati, i quali continuano ad esigere una intermediazione legislativa in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., che “pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario”. Conclusioni condivisibili, delle quali, però, non sembra che la Cassazione nella sua successiva giurisprudenza sopra citata, pur ritenendo di adeguarsi al principio di diritto fissato dalle sezioni unite, abbia tenuto adeguatamente conto quando ha ritenuto di dover fare applicazione dell’art. 96 c. 3 c.p.c.

Quale che sia il valore del suddetto panorama normativo ai fini della applicazione della norma in questione[3], merita sottolineare come molte delle disposizioni che lo costituiscono e che anche le sezioni unite hanno ritenuto idonee a riconoscere la possibilità di accettare un connotato lato sensu sanzionatorio da affiancare ad una previsione di risarcimento siano caratterizzate dalla indicazione di una misura della sanzione che va da un minimo ad un massimo entro la quale il giudice deve stabilire la somma da pagare per l’inadempimento commesso ovvero comportino prestazioni sanzionatorie già predeterminabili al momento dell’inadempimento. Questo vale per l’art. 31 c. 2 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (rapporti di locazione), per l’art. 140 c. 7 del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo), per l’art. 4 della legge 20 novembre 2006, n. 281 (pubblicazione di intercettazioni illegali), per l’art. 4 c. 1 e 4 del d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (offese all’onore ed al decoro delle persone), per l’art. 28 del d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (rapporti di lavoro), per l’art. 70 delle disposizioni di attuazione del codice civile, per l’art. 3 della legge 18 giugno 1998, 192 (disciplina delle subforniture), per gli artt. 2 e 5 del d. lgs. 9 ottobre 2002 n. 231 (ritardato nel pagamento nelle transazioni commerciali) ed infine per l’art. 18 c. 14 dello statuto dei lavoratori.

In altri fra i casi indicati nella decisione delle sezioni unite il legislatore si è limitato a prevedere una condanna al risarcimento dei danni, subordinata di conseguenza, data la genericità della formula usata, alla prova del danno (art. 709 ter del c.p.c. in tema di responsabilità genitoriale). Esula invece da ipotesi in qualche modo ricollegabili alla questione in esame la previsione al n. 4 della norma ultima citata di una sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, che costituisce una mera sanzione che deve essere contenuta comunque fra un minimo ed un massimo.

In altri casi ancora (art. 124 c. 2 del d. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 in tema di brevetto e marchio) il legislatore ha disposto che l’inibitoria può fissare la somma dovuta per ogni violazione ed inosservanza “successivamente constatata” e per ogni “ritardo” nell’esecuzione del provvedimento. La stessa formula ricorre nell’art. 614 bis del c.p.c. (esecuzione forzata di obblighi di fare o di non fare) e nell’art. 114 del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (giudizi di ottemperanza nei confronti della pubblica amministrazione). Si noti come in questi casi non vengano posti limiti alla determinazione della sanzione da parte del giudice, ma che comunque la sanzione viene determinata dal giudice prima della commissione dell’illecito, per cui l’inadempiente conosce preventivamente la sanzione alla quale potrà andare incontro con la sua condotta illegittima.

Altre norme fra quelle citate nella decisione in esame soltanto in due occasioni non stabiliscono la misura della condanna entro limiti precisi.

Una riguarda le facoltà della CONSOB nel procedimento penale che consente a quest’ultima di richiedere, a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato una somma che il giudice può stabilire anche in via equitativa tenuto conto dell’offensività del fatto, delle qualità personali del colpevole e dell’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, dove i punti di riferimento ai fini della quantificazione della sanzione costringono quantomeno il giudice ad una motivazione serrata. Un secondo caso, sostanzialmente identico al precedente, riguarda la riparazione pecuniaria in caso di diffamazione con il mezzo della stampa, anch’essa ancorata alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato. Entrambi i casi costituiscono, però, a mio giudizio, una normale liquidazione del danno, che il legislatore impone di effettuare in forma equitativa, in presenza della commissione di reati. Si tratta, dunque, di ipotesi non pertinenti a punitive damages.

Le stesse considerazioni valgono per l’art. 28 c. 5 del d. lgs. 1 settembre 2011, n. 150 in tema di comportamenti, condotte o atti discriminatori sul luogo di lavoro, esclusa solo la natura delittuosa della condotta illegittima.

Il richiamo ad un panorama normativo di questo genere non sembra comunque adeguato a ricostruire principi generali dell’ordinamento che valgano a sottrarre l’art. 96 c. 3 c.p.c. ad ogni perplessità; semmai sembra che tutte le norme evocate alimentino i dubbi su quest’ultima disposizione, in quanto confermano che ogni qualvolta è emersa da qualche norma una funzione punitiva ad essa si è affiancata una regolamentazione in termini di specificità del fatto proibito e di misura della sanzione che invece è del tutto assente nell’art. 96 c. 3 c.p.c. La presenza nell’ordinamento di altre norme dotate di una funzione punitiva unita ad altra funzione risarcitoria non è di per sé sufficiente a giustificare la strutturazione data al terzo comma dell’art. 96 ed anzi conferma che quest’ultima è priva di tutto ciò che caratterizza invece le altre norme funzionalmente analoghe sopra ricordate. Anche ammessa la concezione polifunzionale della responsabilità civile come caratteristica acquisita al nostro ordinamento, rimane autonomo per l’art. 96 il problema della sua coerenza con i principi costituzionali richiamati dalle sezioni unite, problema che presenta anche aspetti diversi da quelli che la Corte costituzionale ha potuto affrontare[14.

[2] La decisione è condivisa, invece, senza riserve da R. Brenda, L’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. esce indenne dal Palazzo della Consulta, in www.Judicium.it 2016, secondo la quale “con la scelta operata dalla Consulta, l’art. 96, comma 3 c.p.c. emerge dai flutti delle perplessità che lo avevano accolto”, per cui “se ne può immaginare un’applicazione meno incerta ed un futuro di più frequente applicazione”. Un’applicazione che invece ritengo proprio non auspicabile.

[3] E’ chiaro, infatti, che non tutte le situazioni fattuali che eventualmente si ritenga di includere nella categoria dei risarcimenti punitivi necessitano di una regolamentazione sempre uguale in ogni specifico aspetto, ferma restando solo l’esigenza del rispetto di insuperabili principi fondamentali, specie se di rilevanza costituzionale.

[4] Va ricordato, infatti, che il tribunale di Firenze nel rimettere la questione dell’art. 96 c. 3 c.p.c. alla Corte costituzionale aveva posto in discussione solo la legittimità di uno strumento sanzionatorio che non individuava come beneficiario della sanzione lo Stato, bensì un soggetto privato quale la controparte processuale. E la Corte solo questa questione aveva potuto affrontare e dichiarare non fondata.

Il principio di diritto stabilito dalle sezioni unite nella ordinanza già citata è di una lineare correttezza e sembra opportuno ricordarlo come premessa alle considerazioni che seguiranno.

Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.

Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico[5].

L’ammissibilità nell’ordinamento nazionale di risarcimenti sanzionatori, secondo le sezioni unite, deve ritenersi condizionata, dunque, ad una puntuale verifica che accerti l’esistenza di basi normative sulle quali si fondino la tipizzazione della condotta vietata, la relativa sanzione ed i limiti quantitativi della sanzione applicabile. Non essendo state in grado di accertare l’avvenuto rispetto da parte dei giudici stranieri di queste condizioni richieste per la delibazione delle loro sentenze, le sezioni unite hanno respinto la domanda che era stata loro rivolta, ritenendo le sentenze stesse astrattamente compatibili con l’ordine pubblico quanto alla loro natura di condanne per punitive damages, ma in concreto contrastanti con il medesimo per l’assenza delle condizioni richieste per una legittima condanna.

In sostanza la decisione sembra muoversi sulla seguente linea. Quando il processo ha come obbiettivo la liquidazione di un danno contrattuale o aquiliano di cui la parte abbia chiesto di essere risarcita, dopo che la parte cui la legge addossa l’onere della prova abbia dimostrato l’illegittimità o l’illiceità della condotta dannosa nonché l’entità del danno medesimo, sulla base di questi presupposti, che necessitano di prova ma non di preventiva tipizzazione della condotta lesiva, il giudice può pervenire ad una pronuncia di condanna, liquidando il danno – se del caso – anche in via equitativa facendo uso della sua libera valutazione dei fatti sottoposti al suo esame.

Invece, quando al termine del processo si tratti di infliggere ad una delle parti una sanzione di carattere punitivo si impone, per usare ancora una volta le parole delle sezioni unite, una “precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità)”. La sanzione prevista in questo caso non è commisurata al danno prodotto né finalizzata ad eliminarne gli effetti; essa è astrattamente quantificata e svincolata da un danno effettivo, essendo la conseguenza di una condotta che l’ordinamento vieta in assoluto. Donde la necessità che essa sia previamente conosciuta quoad factum e quoad poenam.

Da queste considerazioni si può trarre la conclusione, credo, che aldilà delle parole aperte a qualche dubbio con le quali sia la Corte costituzionale che le sezioni unite hanno ritenuto la configurabilità anche nel nostro ordinamento dei c. d. risarcimenti punitivi, che sommano in sé risarcimento e sanzione, ed a parte l’ampia discrezionalità legislativa che va comunque riconosciuta al legislatore in materia, la fusione di una finalità risarcitoria con una punitiva, come quella che si vorrebbe ritenere ricorrente nel caso dell’art. 96 c. 3, potrà essere regolamentata nel senso di individuare il beneficiario della sanzione in un soggetto diverso dal titolare dell’interesse pubblicistico leso, potrà comportare una condanna d’ufficio ed esonerare dall’onere della prova dell’esistenza del danno e del suo ammontare, ma sembra difficile che si possa mai ritenere costituzionalmente corretto che si prescinda anche dalla tipicità della condotta proibita e dalla previsione quantitativa della sanzione, perché diversamente in tale modo si consentirebbe al giudice di configurare la fattispecie proibita e di punirla come meglio crede a carico di un ignaro contravventore.

E’ mia convinzione, però, che quantomeno nel caso dell’art. 96 c. 3, in presenza della funzione pubblicistica della norma che vuole essere protettiva dei processi, si potrebbe dire che la sola devoluzione della sanzione ad un soggetto privato, che già è legittimato da altre norme a chiedere un ampio risarcimento dei danni eventuali che può avere subìto, non è sufficiente a configurare un istituto riconducibile alla categoria dei risarcimenti sanzionatori in quanto non solo la prova, ma la stessa esistenza di un danno privato oltre alla presentazione di apposita domanda non sono richieste ai fini della condanna. Il che toglie ogni rilievo causale al danno e comporta una preferibile classificazione della norma fra quelle meramente sanzionatorie.

La chiarezza e la condivisibilità della decisione delle sezioni unite non avrebbe forse richiesto di dilungarsi su di essa se la terza sezione della Cassazione civile con l’ordinanza n. 15209/2018 non avesse ritenuto di utilizzarla al fine di confortare la scelta di fare applicazione senza perplessità dell’art. 96 c. 3 c.p.c. In questo modo si è data, però, una opinabile lettura alla decisione delle sezioni unite e, inquadrata la norma fra i risarcimenti punitivi, si è ritenuto corretto applicarla anche in assenza delle condizioni che le sezioni unite avevano, invece, dichiarato necessarie.

La Corte, infatti, dopo avere ricordato il principio di diritto sopra esposto, ha precisato che nella motivazione delle sezioni unite “l’art. 96 c.p.c., u.c. è stato inserito nell’elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza” e dalla sua ontologica compatibilità con l’ordinamento nazionale ha derivato la sua applicabilità in casi che costituiscano abuso del diritto all’impugnazione[6], come per esempio, a suo dire, quando vengano proposti ricorsi per cassazione basati su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privi di autosufficienza oppure contenenti una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia.

In questo modo sembra che si sia frainteso il precedente giurisprudenziale invocato e che si sia data applicazione ad una norma come quella dell’art. 96 c. 3 c.p.c. che per molte ragioni può ritenersi di dubbia legittimità costituzionale.

Ho già detto che sembra seriamente opinabile che fra i risarcimenti punitivi possa ricomprendersi anche l’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. Lo lascia intendere in proposito la qualificazione che ne ha dato la Corte costituzionale, che rifacendosi all’esegesi della Corte regolatrice le attribuisce “natura non risarcitoria …. e, più propriamente sanzionatoria”.

Il legislatore, d’altra parte, non ha precisato per quale motivo sia stata prevista la condanna al pagamento di una somma a favore della parte cui siano state addossate le spese del giudizio ai sensi dell’art. 91, ma è pacifico che, se l’abrogato art. 385 c.p.c. intendeva disincentivare il solo ricorso per cassazione, l’art. 96 c. 3 estende questo intento disincentivante a tutti i processi civili in genere. Sembra corretto, dunque, ritenere che si sia voluto tutelare in via generale e sistematica un interesse che trascende quello di parte e che si colora di connotati innegabilmente pubblicistici. Anche questo, a mio avviso, accentua fino a renderlo esclusivo il carattere sanzionatorio della norma in esame, tanto più che la parte privata non solo soffre dei ritardi giudiziari in maniera del tutto occasionale ed eventuale, ma addirittura può già autonomamente tutelare il proprio personale interesse eventualmente leso da un processo e da un ritardo pretestuosi chiedendo, ai sensi dell’art. 91, il rimborso delle spese di causa e, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 96, la condanna ad un integrale risarcimento dei danni alla controparte soccombente che abbia agito o resistito in mala fede o con colpa grave. Alla luce della pienezza di questa tutela, la sanzione prevista dal terzo comma dell’art. 96, svincolata da ogni presupposto di colpa, da ogni domanda di parte, da ogni prova di danno e rimessa alla esclusiva iniziativa del giudice evidenzia in forma inequivoca il suo carattere sanzionatorio e punitivo, mentre la sua finalità che si vorrebbe concorrente con quella risarcitoria si riduce alla devoluzione della somma a favore della controparte, benché significativamente non titolare di alcuna vera pretesa in proposito. Proprio questo, però, rapportato agli artt. 23, 24 e 25 della Costituzione, rafforza il convincimento (o quantomeno il dubbio) che la legittimità costituzionale dell’art. 96 c. 3 richiederebbe una anche succinta individuazione della fattispecie sanzionata, cioè quella tipizzazione di cui parlano le sezioni unite, nonché la individuazione di limiti precisi entro i quali il giudice può procedere alla quantificazione della pena. Riesce difficile infatti conciliare con i principi di riserva di legge, di tipicità dei fatti sanzionabili e di prevedibilità dei comportamenti vietati e delle pene in cui si potrebbe incorrere una norma che obbiettivamente consacra, per usare le parole delle sezioni unite, “un incontrollato soggettivismo giudiziario”. L’articolo in questione, in effetti, lascia al giudice piena libertà di individuare ex post, per esempio, i motivi di ricorso o le eccezioni di difesa che, magari per il solo fatto di contrastare con orientamenti giurisprudenziali più o meno consolidati, egli può ritenere comportino violazione di regole fumose prive di vincolante base legale.

Pertanto sembra di poter dire che la norma in questione finisce in concreto con il consentire inammissibilmente un generico condizionamento in sede giudiziaria, senza limiti né di forma né di sostanza, del diritto di azione e del diritto di difesa costituzionalmente garantiti.

Di questi aspetti della questione le sezioni unite si sono rese perfettamente conto nella loro ordinanza, ma ai fini della decisione che esse erano chiamate ad assumere era sufficiente che negassero il riconoscimento dell’esecutività delle sentenze straniere sottoposte alla loro valutazione, in quanto deliberate in assenza dei presupposti necessari perché potessero essere ritenute compatibili con l’ordine pubblico interno.

La necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale si poneva, invece, nel caso della succitata ordinanza della terza sezione della Cassazione civile n. 15209/2018 in quanto in quella sede si era ritenuto che sussistesse l’opportunità di fare applicazione dell’art. 96 c. 3 c.p.c.[7]

Ezio Maria Barbieri

[5] Seppure riferita a norme penali, merita di essere ricordata anche la seguente affermazione che traggo dalla sentenza della Corte costituzionale in data 10 aprile 2018, n. 115 : ” l’ausilio interpretativo del giudice penale” – ma questo vale anche per il giudice civile, credo – “non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo. Ciò è come dire che una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso”.

[6] In tema di abuso del diritto mi limito a segnalare, fra gli scritti recenti di maggiore interesse, Villata, Ancora in tema di inammissibilità dell’appello al Consiglio di Stato sulla giurisdizione promosso dal ricorrente soccombente in primo grado, in Dir. proc. amm. 2017, 1093.

[7] A questi problemi mostra una corretta sensibilità la sentenza del Consiglio di stato, sez. IV in data 12 ottobre 2018, n. 5883 per la quale “in rispetto al rammentato principio di legalità in materia sanzionatoria e di ragioni generali di sicurezza giuridica occorre che” le indicazioni dell’Autorità di vigilanza sugli adempimenti informativi delle SOA “non tengano luogo di fattispecie illecite per legge inesistenti e che specifichino con chiarezza e precisione la condotta che si arriva a dover presumere contra legem“. Accanto a questa decisione M. A. Sandulli, I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, in www.Federalismi.it n. 22/2018 ricorda anche le ordinanze n. 717 e 718 del Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia, le quali hanno sottolineato i “doveri di chiarezza e clare loqui del legislatore e il doveroso principio di prevedibilità degli effetti della legge e della giurisprudenza che costituiscono corollario dello stato di diritto e dei valori costituzionali di tutela dell’affidamento dei cittadini e dell’effettività della tutela giurisdizionale”; doveri e principi che non tramuterei, però, in “diritto alla sicurezza giuridica”.

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