La “coercibilità” del patrimonio conoscitivo dell’imputato in procedimento connesso o collegato e lo scopo dell’accertamento penale.

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Il punctum dolens del nostro ordinamento processual-penale è costituito dalla problematica relativa al recupero dei dati conoscitivi – potenzialmente impiegabili erga alios – “residuati” in capo all’imputato in procedimento connesso,[1] ad intervenuta definizione del processo a proprio carico.
La dispersione di tali elementi, in alcune ipotesi,[2] potrebbe irreversibilmente paralizzare l’accertamento penale, con buona pace delle imperanti esigenze retribuzionistiche.
Non può revocarsi in dubbio che l’imputato in procedimento connesso o collegato rappresenti una preziosa fonte di sapere, atteso che il diretto coinvolgimento dello stesso nei fatti oggetto di accertamento a carico dei presunti correi implica l’esistenza di un background conoscitivo naturalmente consistente.
Ma è possibile in qualche modo “obbligare” l’imputato a fornire all’Autorità Giudiziaria i preziosi elementi al medesimo noti per utilizzarli contra alios?
E’ possibile, cioè, compulsare una fonte “anomala” quale è, per l’appunto, l’imputato di fatto connesso o collegato determinando, inoltre, l’effetto della responsabilizzazione[3] delle propalazioni a carico di terzi?
L’interrogativo sollevato non appare di agevole risoluzione, stante la molteplicità delle implicazioni che ne derivano.
Un consapevole approccio al quesito prospettato non può prescindere, in primis, da una disamina complessiva delle problematiche sottese al sistema di accertamento penale in vigore in un dato momento storico.
Nelle epoche caratterizzate dalla venuta ad esistenza di fenomeni di criminalità fortemente destabilizzanti si è finito con l’attribuire all’ordinamento penale un ruolo che non gli è proprio.
L’esigenza di inibire l’operatività dei neo-costituti organismi malavitosi ha originato interventi legislativi emergenziali poco coerenti, quanto agli scopi perseguiti, con il sistema vigente.
L’architettura sistematica dell’accertamento penale quale risultante a seguito delle modifiche di matrice emergenziale cominciava, pertanto, ad assumere sembianze peculiari che finivano col conferire al processo penale le caratteristiche di uno strumento di difesa sociale.
In verità, tale esito sembra essere il frutto di un originario errore concettuale.
Se per un verso, infatti, appare ineliminabile che lo Stato debba potersi servire di strumenti atti a garantire la sicurezza dei consociati e la stabilità sociale, dall’altro non può negarsi che altrettanto meritevole appare la necessità di assicurare al soggetto accusato di un fatto di reato i mezzi per provare la sua innocenza.
Da ciò discende che, il processo penale, inteso in senso stretto, non può essere impiegato come meccanismo di lotta alla criminalità. 
Altro è, invece, discorrere di “procedimento” in cui il Magistrato del Pubblico Ministero, in quanto longa manus dello Stato, è titolare di poteri inquirenti fisiologicamente diretti alla acquisizione di elementi di prova a carico dell’indagato.[4]
Ciò rimarcato, può agevolmente comprendersi che la fase pre-processuale o investigativa può – e deve – adeguatamente garantire il soddisfacimento delle istanze retribuzionistiche – in uno agli istituti posti a presidio del principio della certezza della pena – ove fosse acclarata la colpevolezza dell’imputato.
Il processo penale,[5] di contro, si prefigge lo scopo di accertare la verità processuale garantendo la difesa individuale del soggetto sottoposto all’accertamento, il quale – si badi bene – in forza dell’art. 27 Cost., non è considerato colpevole fino quando non sia pronunciata a suo carico una sentenza definitiva di condanna.
In sintesi, mentre la fase procedimentale ben può attagliarsi all’appagamento di esigenze general-preventive, la fase processuale in senso stretto costituisce la “sede naturale” dei diritti e delle garanzie del soggetto al quale risulta ascritto un fatto penalmente rilevante.
Qualunque intervento legislativo, sia pure comprensibilmente originato da episodi contingenti di notevole allarme sociale, non può in alcun modo creare una sovrapposizione tra i due tronconi del sistema penale, nettamente distinti per disciplina positiva e per scopi.
Tale precisazione costituisce la necessaria premessa per pervenire ad una consapevole disamina della oggetto della presente indagine.
Alla luce di quanto sopra, si delinea con maggiore chiarezza la valenza dirompente dell’intervento legislativo volto a consentire all’imputato in procedimento connesso o collegato di assumere l’ufficio di testimone – con le “garanzie” positive che analizzeremo in seguito – .
Dall’assunzione dello status di testimone, ovviamente, consegue l’obbligo di dire il vero, con le note conseguenze penali in caso di testimonianza falsa o reticente.
Ma non può dimenticarsi che il soggetto su cui grava l’obbligo di deporre è in primo luogo[6] imputato di un fatto penalmente rilevante, titolare dell’inviolabile[7] diritto di difesa.
La massima esplicazione del diritto di difesa nei sistemi di stampo accusatorio[8] è, inequivocabilmente, costituita dal diritto al silenzio[9] riconosciuto all’imputato[10].
La peculiare pregnanza attribuita dalla nostra Carta Fondamentale al ius tacendi esclude che il diritto in oggetto possa subire scalfitture di sorta a seguito di interventi legislativi che pongano a carico dell’imputato-accusatore l’obbligo di rispondere, in forza di un presunto ed inaccettabile “dovere di solidarietà sociale”[11] gravante su quest’ultimo.
Qualunque compressione del principio del nemo tenetur se detegere inevitabilmente costituisce un vulnus al diritto di difesa[12] di cui risulta titolare il soggetto sottoposto a procedimento penale.
La nozione di “coercibilità” della parola dell’imputato in procedimento connesso o collegato appare, pertanto, difficilmente conciliabile[13] con un sistema di accertamento incentrato sulla difesa individuale dell’imputato,[14] che solo in via indiretta e mediata miri alla punizione del colpevole.
Come in precedenza precisato, infatti, l’irrogazione della sanzione si pone quale epilogo meramente eventuale di un procedimento penale, il cui scopo risulta unicamente l’accertamento della verità processuale.
Elemento, quest’ultimo, che – si badi bene – è ben diverso dalla verità storica.
Le due entità, ontologicamente distinte, solo accidentalmente possono risultare sovrapponibili.
L’individuazione della linea di demarcazione sussistente tra i due concetti ci consente anche di delimitare il ruolo rivestito dal Giudicante nell’ambito del processo penale; ruolo che non coincide meccanicisticamente con quello di colui che punisce per la commissione di un fatto storico costituente reato, ma che si inquadra, invece, nella figura dell’organo super partes che può comminare una sanzione, ove la verità processualmente ricostruita deponga nel senso della colpevolezza dell’imputato.
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
Autori
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  • MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Giappichelli ed., 2000.
  • MARZADURI, Sul diritto al silenzio degli imputati il giusto processo vive di contraddizioni, in Guida al dir., 2000, n. 43.
  • MOROSINI, Contraddittorio nella formazione della prova e criminalità organizzata, in Diritto pen. e proc., 2000.
  • MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, Cedam, 2001.
  • RUSSO, Giusto processo a caccia di equilibrio sul diritto al silenzio, in Il sole 24 Ore, 31.12.00.
 


[1] Sarebbe, in verità, più corretto discorrere di imputato in “processo per imputazioni connesse”. In tal senso, KALB, Il processo per le imputazioni connesse, II ed., Giappichelli, 1995, 48. Osserva l’A. che l’istituto della connessione non può che investire il giudice e, quindi, operare nella fase processuale. Da tale premessa consegue che o il termine “procedimento” viene utilizzato dal legislatore in sostituzione del termine “processo” oppure la medesima locuzione indica una entità concettuale che comprende anche il momento giurisdizionale. Prosegue l’A. rilevando che anche l’espressione “connessione di processi” risulta imprecisa oltre che tecnicamente fuorviante. Difatti, la connessione non opera tra più processi separati – come eccezionalmente accade nel caso della riunione disposta a norma dell’art. 17 c.p.p. – ma da luogo ad un solo processo originariamente attribuito ad un solo giudice. In altri termini, essendo la connessione un autonomo ed originario criterio attributivo di competenza, l’istituto in parola non può che trovare applicazione nella fase stricto sensu processuale.
[2] Si pensi ai reati di criminalità organizzata in cui è maggiormente palpabile l’interrelazione funzionale delle condotte poste in essere dagli associati e, conseguentemente, l’intrecciarsi dei dati conoscitivi.
[3] L’avvertimento di cui all’art. 64, III comma, lett.c), c.p.p., che precede l’espletamento dell’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini – la quale va resa edotta della circostanza che “se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone…”, nelle intenzioni del legislatore, è stato confezionato allo scopo di ottenere l’effetto della responsabilizzazione delle dichiarazioni dei propalanti. A tal proposito, FOSCHINI, Avvertimenti, ammonizioni ed esortazioni nell’interrogatorio dell’imputato, in L’imputato, Studi, Milano, 1956, 65, effettua un distinguo tra l’“avvertimento” con cui viene “richiamata l’attenzione del soggetto sull’ esistenza in sé stessa della situazione giuridica" e che costituisce espressione di "un valore finale in quanto … fine a sé stesso" atteso che, per il suo tramite, non si "vuole raggiungere alcuno scopo ma solo fare l’avvertimento e basta" e la “ammonizione”, caratterizzata, di contro, da un intrinseco "valore strumentale", mediante la quale, "prospettando le conseguenze favorevoli e sfavorevoli di un determinato comportamento, si vuole influire sulla stessa determinazione del soggetto, al fine di ostacolarlo o di spronarlo a quel comportamento»". Conclude l’A. che, in definitiva, "l’avvertimento è fatto nell’interesse del soggetto, l’ammonizione è fatta nell’interesse dell’inquisizione". Si dubita, al lume di tale categorizzazione dogmatica, che l’avviso di cui all’art. 64, III comma, lett. c), c.p.p. possa correttamente essere qualificato come “avvertimento” atteso che, in buona sostanza, esso assume anche un valore lato sensu intimidatorio, essendo strumentale all’ottenimento di una propalazione “consapevole”. Ad avviso di chi scrive, appare discutibile l’idoneità di detto ammonimento alla realizzazione dell’effetto della responsabilizzazione delle dichiarazioni contra alios. Sovente, infatti, l’ammonimento ex art. 64, III comma, lett.c), c.p.p., così come generalmente reso nelle aule di giustizia, appare non conoscibile nella sua reale portata e si traduce in un mero adempimento di ordine formale.
 
[4]  Tale asserzione, ovviamente, va coordinata con la disposizione contenuta nell’art. 358 c.p.p. in forza della quale “il pubblico ministero…svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. La norma appena citata costituisce una evidente proiezione del principio della fairness processuale che, lungi dall’interessare unicamente il titolare della Pubblica Accusa, costituisce assioma regolatore dei rapporti tra i soggetti protagonisti della vicenda giudiziale. L’art. 358 c.p.p. va, in ogni caso, letto in combinato disposto anche con l’art. 125 disp. att. c.p.p. da cui può inferirsi che l’attività investigativa condotta dal titolare del procedimento risulta comunque fisiologicamente orientata all’acquisizione di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
[5] Quando si discorre di “processo penale in senso stretto” ci si intende riferire al dibattimento celebrato nel contraddittorio delle parti, dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale, precostituito per legge.
 
[6] Si rinvia al capitolo “le figure normative del propalante erga alios” per la individuazione dei casi in cui l’imputato in procedimento connesso o collegato assume l’ufficio di testimone.
[7] Così solennemente qualificato dalla Costituzione Italiana all’art. 24.
[8] L’assioma del sistema inquisitorio era, al contrario, reus tenebatur se detegere e l’inquisito vi figurava come mero soggetto passivo: colpevole o no sapeva qualcosa ed era obbligato a dirlo. Giuramento e tortura erano istituti congeniti al sistema. In tal senso, CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Roma – Bari, 1981,407.
[9] Secondo BRICHETTI, in AA.VV., Giusto processo, IPSOA, 2001, 100, il diritto al silenzio risulterebbe adeguatamente garantito dagli ammonimenti secondo cui “l’interrogato deve essere avvertito che ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda” e che “le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti”. Tale asserzione non pare condivisibile atteso che, in tal modo, si finirebbe con l’attribuire al ius tacendi una valenza meramente formalistica che alcun contributo apporterebbe in termini di garanzie sostanziali.
[10] In tal senso, MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Giappichelli ed., 2000, 129.
[11] Sul punto, MOROSINI, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, in AA.VV., Giusto processo, a cura di Tonini, Cedam, 2001, 308. L’A. fa riferimento al progetto elaborato da Tonini e Ferrua ispirato all’esperienza anglosassone, per la cui analisi si veda infra.
[12] In senso difforme, CONTI, L’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato, in AA.VV., Giusto Processo, a cura di Tonini, Cedam, 2001, 343. L’A. asserisce: “in relazione allo status dell’imputato connesso per concorso nel reato, l’art. 111 Cost. non ha trovato attuazione. Il legislatore ha lasciato intatto il diritto al silenzio e la facoltà di mentire, probabilmente convinto che nelle ipotesi in oggetto il fatto proprio e il fatto altrui sono inscindibili e, pertanto, non è possibile imporre alcun obbligo di verità al dichiarante. Per tale motivo si permette tuttora all’imputato connesso di accusare altri in dibattimento, di fronte al giudice, senza assumere alcuna responsabilità per il proprio comportamento. Siamo dinanzi ad una supertutela del diritto al silenzio che schiaccia e mortifica il diritto a confrontarsi con l’accusatore. Eppure questo diritto oggi è proclamato a chiare lettere dall’art.111, III co., Cost.”.
[13] In senso difforme, RUSSO, Giusto processo a caccia di equilibrio sul diritto al silenzio, in Il sole 24 Ore, 31.12.00, il quale rileva che la restrizione di diritto di difesa pure operata a seguito dei recenti interventi legislativi costituisca il massimo risultato conseguibile, senza ledere il diritto di difesa.
[14] E’ indubbio, infatti, che lo strumento di autodifesa per antonomasia sia costituito dal diritto di non rispondere che non può ritenersi adeguatamente preservato dalla previsione di un mero obbligo di informazione dell’imputato, gravante sulla autorità procedente. A tal uopo, MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Giappichelli ed., 2000, 139, evidenzia che “sarebbe davvero ingenuo ritenere che la tematica delle strutture normative atte a garantire la libertà di opzione tra silenzio e dichiarazioni possa utilmente esaurirsi nell’avvertimento circa la facoltà di non rispondere”.

Buonadonna Anna Lisa

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